I “cento giorni” di Giorgia Meloni

Via https://www.governo.it/it

In politichese “cento giorni” sta a significare una prima valutazione dell’esordio di qualsiasi nuovo governo. Nel caso di Meloni bisogna tenere conto della difficoltà di chiudere in tempi brevi un bilancio già in gran parte definito dal governo precedente, di un elettorato che chiedeva un rapido mantenimento delle promesse elettorali, di una situazione internazionale caratterizzata dall’aggressione russa all’Ucraina. La nuova premier ha subito indicato come priorità assoluta la politica estera allineandosi prontamente al fronte NATO (dove Draghi l’aveva già collocata) e andando all’assalto della fortezza UE come sempre presidiata dall’asse franco-tedesco, pregiudizialmente ostile al suo governo percepito come espressione di una maggioranza nazional-populista più vicina ai regimi illiberali di Varsavia e di Budapest che non ai tradizionali sistemi liberal-democratici che hanno sempre prevalso nell’Europa occidentale.
Bisogna dare atto alla Meloni di non essersi nascosta dietro un velo di ipocrita concordanza di vedute (come spesso avviene nei vertici europei) e di avere subito accettato di affrontare i problemi prendendo il toro per le corna, forte del fatto che molti rilievi avanzati dall’Italia sono legittimi e in linea di continuità con la politica estera di Draghi. Le critiche dell’opposizione infatti non riguardano tanto il merito delle tesi sostenute dalla presidente quanto piuttosto il metodo utilizzato che rischia di isolare la posizione italiana.

Isolamento?
Certo, l’isolamento è, almeno in parte, la conseguenza inevitabile della difesa di alcune esigenze a cui l’Unione non ha mai dato risposte convincenti, a cominciare dai flussi migratori provenienti dall’Africa che – piaccia o no – suscitano grande preoccupazione nell’opinione pubblica (non soltanto di destra). Seguono a ruota decisioni mascherate da esigenze ambientali che rischiano di avere pesanti ricadute sull’economia del nostro Paese: finanziamenti pubblici alle imprese in difficoltà, blocco della produzione automobilistica benzina/diesel, ristrutturazioni edilizie eco-compatibili. Sembra quasi che la Francia e la Germania vogliano spingere l’Italia verso l’area dei paesi europei illiberali (gruppo di Visegrad) per punirla di avere scelto un governo non allineato all’asse “polically correct” franco-tedesco, appoggiato, come sempre, dall’Olanda e da altri paesi del nord. Soltanto la Von der Leyen sembra rendersi conto della pericolosità di questa strategia oltranzista, ma la sua posizione appare sempre più debole anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno il cui esito appare quanto mai incerto.
A fronte di questa situazione Giorgia Meloni, invece di una strategia accomodante fondata sulla variabilità degli schieramenti europei, ha scelto – almeno per ora – una linea di discontinuità cercando fuori dall’Unione opportune compensazioni, a cominciare dagli accordi per assicurare al Paese una minore dipendenza energetica dalla Russia. Ma i conti alla fine si fanno a Bruxelles dove Salvini e Berlusconi l’attendono al varco; Berlusconi ha già cominciato la sua offensiva difendendo Putin, il leader della Lega si muove con maggiore prudenza ma tutti sanno come la pensa. Il vero isolamento la Meloni lo rischia in casa.

Il superbonus
La prima vera emergenza è stata (ed è) il rischio che scoppi la bolla finanziaria creata dall’abuso del superbonus per le ristrutturazioni immobiliari, sciagurato provvedimento che di fatto ha consentito la creazione di una moneta parallela (costituita dalla cedibilità illimitata dei crediti) che potrebbe costare al bilancio pubblico diversi miliardi di euro e uno scontro senza precedenti con l’Eurogruppo. La Meloni è stata netta nell’affrontare la questione e nel ricordare l’irresponsabilità demagogica di chi quel provvedimanto aveva voluto (Cinque Stelle) e che già Draghi aveva duramente stigmatizzato: in economia nulla è gratis – ha ricordato la premier – c’è sempre qualcuno che paga, magari senza saperlo (pareva di sentire Bastiat). La Lega, corresponsabile di tanto scempio con le ambigue scelte di Salvini, si ritrova ora con Giorgetti a dovere risolvere il problema, mettendo in luce ancora una volta il solco che divide la Lega di lotta (in t-shirt) da quella di governo (china a fare i conti con i buchi di bilancio). Intanto molti cantieri edili, frettolosamente aperti per fruire della manna che pioveva gratis dal cielo stellato, rischiano di chiudere mettendo per strada migliaia di lavoratori, che, tanto per cambiare, serviranno da alibi per tutelare gli interessi dei troppi “furbetti del quartierino”, speculatori ingordi che trovano sempre compiacenti coperture politiche.

Per il resto si registra poco più di qualche maldestro comportamento del discutibile “cerchio magico” di Meloni che ha dato il peggio di sé nel decreto sui “rave party”, nel tentativo di indebolire Nordio sul caso Cossipo e in sortite poco meditate del ministro della pubblica istruzione. Anche in questi casi la presidente del Consiglio resta danneggiata dalla superficialità di alcuni suoi ministri e vice ministri, che – come tutti i neofiti – pensavano all’entrata nelle mitiche “stanze dei bottoni” come se fossero sezioni del loro partito.

Lazio e Lombardia
Archiviate le elezioni nelle due regioni dove ha vinto in maniera schiacciante il partito dell’astensione, governo e opposizioni devono ora fare i conti con la realtà. L’astensionismo dei lombardi e dei romani non ha sorpreso nessuno; semmai colpisce la dimensione del fenomeno (in parte dovuto al fatto che il risultato era dato per scontato) perchè segnala come la metà dell’elettorato appaia chiuso in una rassegnazione fatalistica senza sbocchi politici; in particolare siamo delusi noi liberali che speravamo con l’alleanza di centro (Calenda – Renzi – Bonino) di costituire un terzo polo in grado di condizionare sia la destra al governo che l’opposizione di sinistra. Purtroppo anche le due capitali – Roma e Milano – considerate le loro roccaforti elettorali, non hanno dato segnali incoraggianti. Non resta che attendere la nuova leadership del PD per capire come pensa di recuperare i tanti voti che ha perso negli ultimi anni.
Forse però, prima dei problemi di identità dei partiti, per ridare vitalità e progettualità alla politica italiana occorrerebbe affrontare questioni strutturali che nella convenienza di tutti si potrebbero discutere seduti intorno a un tavolo, cercando ragionevoli compromessi, Sappiamo tutti quali sono: alcune modifiche alla seconda parte della Costituzione, un riassetto delle autonomie regionali più razionale e omogeneo di quello proposto dalla Lega, il completamento della riforma della giustizia, la legge elettorale, la scuola. Problemi su cui non si può continuare il gioco della visibilità mediatica fondata sulle distinzioni ma, al contrario, si dovrebbe cercare il massimo comune denominatore di cambiamenti da tutti ritenuti necessari.
Poi, trovato un accordo sulle modifiche alle regole del gioco, si potrà riprendere la competizione con un maggiore interesse del pubblico pagante, quello che oggi – disgustato – preferisce andare al mare anche nella cattiva stagione.

Franco Chiarenza
08 marzo 2023

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