Torna il tormentone dello “jus soli” dopo che a un ragazzino straniero che è riuscito a chiamare i carabinieri dal suo cellulare durante un sequestro tanto spettacolare quanto assurdo di un bus scolastico è stato deciso di conferire la cittadinanza italiana come se fosse un premio. Ma la cittadinanza è altra cosa ed è davvero incredibile continuare a sbandierarla come una elargizione da concedere come compensazione di (vere o presunte) emarginazioni. Ho letto in proposito affermazioni incredibili come quella dei comitati renziani (“Ritorno al futuro”) per i quali “riconoscere la cittadinanza ai tanti compagni di classe e di gioco dei nostri figli” sarebbe un dovere morale osteggiato in maniera incomprensibile perchè ingiustamente associato al fenomeno migratorio. Ma davvero?
Per fare chiarezza sarà meglio tenere conto di alcune realtà di fatto:

  1. la nazionalità (o cittadinanza che dir si voglia) è di norma una condizione “naturale” automaticamente riconosciuta soltanto ai figli di genitori italiani, o anche di uno solo di essi che lo richieda col consenso del coniuge. Anche nei paesi in cui vige lo jus soli si tratta di una facoltà (e quindi non di un automatismo) che di solito si esercita al compimento della maggiore età.
  2. al di fuori di questa condizione di nascita la nazionalità dovrebbe sempre essere attribuita soltanto quando chi la richiede sia in grado di ottemperare ad alcune condizioni da accertare preventivamente: conoscenza della lingua, della storia e delle tradizioni del Paese; adesione ai principi contenuti nella Costituzione; rinuncia alla nazionalità di nascita. Tutte condizioni che presuppongono la maggiore età dell’interessato.
  3. purtroppo non è vero che la battaglia ideologica che si è scatenata su una questione tutto sommato marginale (perchè più simbolica che portatrice di sostanziali differenze nelle condizioni sociali e nei diritti individuali) prescinda dall’immigrazione. In realtà nessuno dei proponenti di un malinteso jus soli ha pensato alle migliaia di ragazzi europei e americani (ma anche asiatici) che studiano nelle nostre scuole; la presunta “ingiustizia esclusione” in realtà, nell’immaginario politically correct, sembra riguardare essenzialmente i poveri piccoli neri. I quali spesso discriminati lo sono davvero ma non perchè non hanno la cittadinanza italiana ma perchè appunto sono neri e magari musulmani; come dimostra il recente caso avvenuto a Roma dove gli abitanti di un palazzo hanno impedito l’accesso a un appartamento regolarmente assegnato a una coppia di neri musulmani cittadini italiani. Ma davvero qualcuno pensa di combattere il razzismo sventolando un passaporto italiano?
  4. estendere la nazionalità a soggetti che non hanno ancora la capacità di giudizio per richiederla consapevolmente costituisce una violenza (come d’altronde certi sacramenti religiosi somministrati ai bambini; ma per essi vale l’attenuante di una tradizione consolidata). Cosa succederà se a 18 anni il ragazzo italianizzato preferisce ritornare alla sua nazionalità originaria? Negli Stati Uniti e in Inghilterra il “ritorno alle origini” è abbastanza frequente.
  5. non è vero che un ragazzo non italiano che studia da noi e i cui genitori sono regolarmente residenti nel nostro Paese (come prevede la proposta di legge ipocritamente chiamata “jus culturae”) abbia diritti e possibilità diverse da chi è figlio di cittadini italiani. E in quei rari casi (se ce ne fossero) sarebbe giusto intervenire per parificare le condizioni di tutti i residenti che – si presume – sono anche contribuenti.
  6. fanno ridere Di Maio e Salvini (che si è unito al coro dopo qualche iniziale perplessità) che associano la cittadinanza ai “valori” del nostro Paese, intendendo per tali – immagino- quelli contenuti nella Costituzione; che faremo con le migliaia di italiani che non li rispettano, gli togliamo la nazionalità? Quasi quasi avrei già pronta una lunga lista.
  7. infine: ma con tutti i problemi che abbiamo non sarebbe meglio pensare a cose più serie, tenuto anche conto che per come la proposta di legge era stata modificata, la sua concreta applicazione avrebbe riguardato un numero trascurabile di adolescenti?

Un’ultima considerazione: la concessione della cittadinanza a Rami e Adam come ricompensa per il loro coraggio (ma non chiamiamoli eroi, per favore; sono eroi quelli che si sacrificano per gli altri senza vantaggi personali, loro hanno salvato gli altri per salvare sé stessi) pare non corrispondesse affatto a un loro desiderio. Sono stati convinti a prestarsi a un gioco politico più grande di loro, ma in realtà nella loro scuola stavano benissimo anche se non avevano il passaporto italiano.
A proposito di passaporto. Quando viaggeranno con i genitori (non italiani) avranno un passaporto diverso?

 

Franco Chiarenza
31 Marzo 2019

Le nostre generazioni, quella dell’immediato dopoguerra e quelle immediatamente successive che sia pure in modi talvolta antagonisti hanno avuto in comune radici culturali riconoscibili e mezzi di comunicazione nuovi ma comunque in continuità con quelli precedenti, si interrogano sul futuro che attende chi verrà dopo di noi. Una domanda legittima che i vecchi si sono sempre posti (quasi sempre, per fortuna, sbagliando le loro previsioni) e che comunque in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando assume una rilevanza particolare. Anche perché quando qualcosa scricchiola di una costruzione che faticosamente abbiamo eretto mantenendola in un delicato equilibrio che ha resistito alle contestazioni e alle spinte che da ogni parte l’insidiavano, ci domandiamo se e dove abbiamo sbagliato. Perché le possibilità sono due: che i tentativi di rovesciare il tavolo non siano ancora riusciti soltanto per mancanza di alternative immediatamente percorribili, oppure che i sistemi liberal-democratici multilaterali hanno dimostrato, anche a fronte di evidenti difficoltà, una propria intrinseca capacità di resistenza. Il che fa una notevole differenza perché nel primo caso ci troveremo prima o poi davanti alla riproposizione di paradigmi alternativi come quelli che già in passato si sono manifestati, a partire dal marxismo-leninismo fino alle diverse forme di fascismo (e, in effetti, se ne potrebbero trovare tracce, ancorchè non ben definite, tra i neo-fascismi sovranisti, ma forse anche in talune frange fondamentaliste verdi e nei risorgenti integralismi religiosi di ogni latitudine). Mentre se la democrazia liberale è ancora vitale e senza alternative, anche di lungo periodo, si tratta “soltanto” di correggere la rotta dove si sono verificate insufficienze e così riprendere il cammino dove l’abbiamo interrotto.

Si iscrive con convinzione al partito degli ottimisti, di coloro cioè che credono in un futuro in linea di sostanziale continuità con le nostre convinzioni etiche e politiche, un leader della sinistra cattolica come Enrico Letta, il quale, tra l’altro, anche sulla base di una constatazione che tutti supponevamo ma che lui ha sperimentato sul campo nel suo “esilio” parigino, sostiene che la deriva generazionale dai nostri principi e valori (e conseguenti prassi incompatibili con una democrazia avanzata) riguarda il nostro Paese più di altri comparabili in Europa. Non vi è dubbio: da noi si legge di meno, si studia poco e male, la frequenza agli spettacoli è quasi tutta concentrata sui livelli meno impegnativi, la discussione pubblica è povera e limitata a poco più di slogan (trovando in “twitter” lo strumento ideale); i confronti con la Francia e i paesi del nord sono impietosi (e temo anche con la Spagna). La ricetta di Letta è dunque chiara: abbiamo un deficit di classe dirigente adeguata alla complessità delle società contemporanee e quindi da lì bisogna partire, formando una nuova èlite non derivante da privilegi di classe e riattivando quell’ ascensore sociale basato sul merito che, seppure è mai esistito, è comunque da tempo bloccato dalle chiusure corporative. E di questo infatti l’ex presidente del consiglio si sta occupando con sano ottimismo cercando attraverso scuole di formazione politica di qualità di riattivare il circuito della trasmissione delle competenze e quindi anche un costruttivo dialogo tra le generazioni. Una strada che condivido se percorsa – come Letta mi pare faccia – senza la presunzione di imporre modelli che per noi sono stati imprescindibili ma che dovrebbero essere sottoposti a una verifica aperta e priva di pregiudiziali.

Ridurre tuttavia il problema a un deficit di competenza (seppure politica) mi pare insoddisfacente. Dobbiamo forse ammettere che i nuovi mezzi di comunicazione hanno lacerato in profondità un tessuto su cui erano disegnate le nostre idee politiche con tutte le loro diversità dialettiche. Come ha osservato lucidamente Gianfranco Pasquino sembra che, forse per la prima volta nella storia (almeno recente), si sia spezzato il dialogo intergenerazionale all’interno delle famiglie, luogo deputato alla trasmissione della memoria e di valori condivisi, non tanto per una volontà antagonistica ma perché i “social” hanno modificato più che i contenuti il linguaggio stesso, la semantica che ha caratterizzato le generazioni precedenti, producendo una incomunicabilità che va oltre le intenzioni dei soggetti coinvolti. Se questo è vero (e temo lo sia) il problema consiste nel riattivare i processi di scambio comunicativo che si stanno esaurendo; uno sforzo che non può limitarsi al discorso sostanzialmente elitario di Letta (formazione delle classi dirigenti) ma dovrebbe coinvolgere la scuola, i mezzi di comunicazione di massa ancora in grado di penetrare e superare le barriere generazionali, l’associazionismo nelle sue diverse articolazioni.
Il nuovo linguaggio utilizzato dai giovani tende alla semplificazione venendo così incontro alla naturale pigrizia di ogni essere umano; perché cos’altro è la pigrizia se non la ricerca del minimo sforzo per ottenere i medesimi risultati? Ma il fatto è che se la “pigrizia” diventa anche intellettuale, si allarga alle funzioni mnemoniche ed elaborative del cervello, i risultati non sono affatto gli stessi. Lo sforzo di apprendimento costituisce un’indispensabile ginnastica mentale in assenza della quale il pensiero si affievolisce nei facili luoghi comuni fino forse a scomparire del tutto, assorbito interamente dal divertimento spensierato. Il problema riguarda tutti ma si innesta in Italia in un contesto che sconta un’arretratezza plurisecolare; già cinquant’anni fa Tullio De Mauro rilevava che più della metà della popolazione non era in grado di comprendere il significato di una proposizione che non fosse elementare. Il che spiega anche perché in un paese di 60 milioni di abitanti si vendessero (prima che arrivassero la televisione e internet) soltanto cinque milioni di copie di giornali, e la televisione al suo arrivo negli anni ’50 abbia avuto una penetrazione massiccia e fulminante con una capacità di condizionamento (anche politico) senza uguali in Europa.
La conseguenza più grave di questo stato di cose è l’incapacità di comprendere fenomeni complessi, di porre in ordine logico i concetti, di esprimere quella “consecutio”, su cui già Giovanni Sartori aveva messo in guardia quando ha trattato la metamorfosi culturale prodotta dalla televisione (che, peraltro, era ben minore di quella che sta creando internet).

Naturalmente non possiamo pretendere che tutti abbiano il tempo, la voglia, le capacità di comprendere a fondo gli aspetti più complessi della vita sociale, non più comprimibili in ambiti ristretti (famiglia, lavoro, comunità, ma anche nazione); la formazione di classi dirigenti credibili in grado di riattivare un processo fiduciario che si è interrotto è perciò ineliminabile (e in tal senso Letta ha ragione). Il vero pericolo è che i nuovi modi di comunicare, alimentando l’illusione autoreferenziale della democrazia diretta, possano in realtà determinare nuove diseguaglianze, più culturali che economiche, producendo èlites invisibili e incontrollabili in grado di gestire con tutti gli strumenti di manipolazione che le nuove tecnologie continuamente elaborano le relazioni tra le masse popolari e l’esercizio del potere, anche servendosi della mediazione di leader populisti spregiudicati. Mi spiego meglio.
Il populismo non nasce oggi, c’è sempre stato ed è in qualche misura connaturato alle moderne democrazie; è ben noto che l’applicazione del suffragio universale a società complesse è possibile soltanto mediante i partiti politici che nascono appunto come “interpreti” di interessi e sentimenti (specifici o diffusi, secondo i casi) che non avrebbero altrimenti la forza e la capacità di esprimersi. Finché il rapporto fiduciario si mantiene i partiti possono compiere la loro opera di mediazione (o di contrapposizione) in maniera funzionale; se poi si riconoscono tutti in alcuni valori fondanti della comunità la loro alternanza al potere non comporta pericoli per la stabilità democratica, come dimostra l’esperienza delle democrazie anglosassoni (e dei modelli ad esse ispirati). Il problema sorge quando il rapporto di fiducia, per le ragioni più diverse che non starò qui a ricordare, viene meno; ci troviamo in tal caso di fronte a una crisi di sistema (e non di semplice ricambio) che può sfociare nelle derive più irrazionali. Se poi contestualmente si verifica una rivoluzione dei modi di comunicare determinata dalla diffusione di strumenti tecnologicamente avanzati disponibili per tutta la popolazione, la questione si complica ulteriormente: la sfiducia trova uno sbocco autoreferenziale da cui deriva la pretesa che ogni intermediazione sia non soltanto inutile ma anche dannosa. E’ su questa base che Grillo ha fondato un movimento qualunquista di massa.
Nulla di male se la democrazia diretta esercitata attraverso una piattaforma internet fosse davvero possibile (riproducendo con modalità aggiornate il mito dell’agorà ateniese); ma così non è, non perchè necessariamente esso costituisca l’anticamera di regimi autoritari plebiscitari (anche se l’esperienza del passato ci dice che è ben possibile) ma perchè in realtà genera nuovi sistemi di intermediazione incontrollabili e pericolosi. C’è il rischio concreto (forse già visibile nel portale Rousseau, significativo già nella denominazione) che un’èlite che si rinnova per cooptazione possa esercitare un potere fondato sull’ignoranza sostanziale di masse presuntuose (nel senso letterale della parola) o quanto meno indifferenti.

Noto alcuni sintomi preoccupanti (al di là di vicende elettorali che hanno carattere transeunte, ma non per questo perdono la loro importanza segnaletica): uno di essi è la perdita progressiva della memoria storica che non avviene soltanto per l’incuria scolastica (che semmai è la conseguenza non la causa del fenomeno) ma per una radicata indifferenza per tutto ciò che è stato “prima”, da cui poi deriva una incapacità di previsione per il futuro. L’ignoranza della storia determina in molti giovani una desertificazione culturale che si traduce, per esempio, anche nel loro modo di viaggiare; girano il mondo ma non lo “vedono”, perché i centri commerciali e le discoteche sono uguali dappertutto.
Ma anche qui attenzione: vedo anche giovani impegnati nelle letture storiche degli ambienti che visitano, nella frequentazione di musei e concerti di musica classica, interlocutori certi di un passaggio generazionale che non si spegne. Saranno loro le nuove èlites, di fatto ancor più esclusive di quelle che il finto populismo ha abbattuto, in quanto possessori esclusivi delle conoscenze, come gli antichi sacerdoti di alcune società del passato ? Se così fosse ci troveremmo di fronte a un processo di ricambio della classe dirigente diverso soltanto per gli strumenti di selezione che utilizza; resta da capire se compatibile con le convinzioni etico-politiche di base che abbiamo elaborato dall’illuminismo in poi o invece intenzionate a costituire una classe sacerdotale in grado di gestire un sostanziale monopolio delle conoscenze. Con effetti devastanti sulla diseguaglianza culturale, che, francamente, mi pare più grave di quella economica e sociale.

Per concludere: le èlites, variamente denominate (classi dirigenti, ceto politico, ecc.) sono sempre esistite e sempre ci saranno; in una democrazia liberale per durare a lungo e lasciar traccia del loro passaggio devono essere in grado di interpretare correttamente i sentimenti popolari, soprattutto nei momenti di difficoltà, proponendo soluzioni praticabili in tempi ragionevoli ed evitando di arroccarsi sui propri egoistici privilegi. Soprattutto però devono essere trasparenti nei loro comportamenti anche privati e quotidiani, imitare la moglie di Cesare che doveva non soltanto essere onesta ma anche sembrarlo al di sopra di ogni sospetto. Per questa ragione il problema è come si formano: se sul merito, sulla selezione fondata sulla competenza, o su altri presupposti familistici, corporativi, di subordinazione politica.
Per trasformarsi da classe dirigente responsabile a casta arroccata nella difesa dei propri privilegi ci vuol poco; basta anche l’esibizione di alcuni dettagli simbolici amplificata dalla pervasività dei social (a cui non siamo ancora abituati), come per esempio l’abuso delle “auto blu, i vitalizi e i tanti irragionevoli privilegi che la classe politica si attribuisce. In un’epoca dove le immagini prevalgono sul ragionamento e in cui la semplificazione concettuale porta anche alla sommarietà dei giudizi valgono a discreditare intere classi dirigenti più questi “dettagli” che gli stessi reati penali (come la corruzione), gravi ma comunque perseguibili dalla giustizia ordinaria. A proposito della quale occorre aggiungere – senza volere aprire troppi fronti che ci porterebbero lontano – che anche i riti e le lentezze incomprensibili dell’ordinamento giudiziario, soprattutto penale, pur derivati da tradizioni garantiste che vanno rispettate, contribuiscono fortemente alla delegittimazione delle èlites (di cui la magistratura fa parte a pieno titolo). Abituati dalla televisione alla rapidità e alla concretezza dei sistemi giudiziari anglosassoni (certamente banalizzati da logiche spettacolari ma non del tutto infondati) molti cittadini si chiedono perchè non sia possibile una giustizia veloce ed efficiente anche nel nostro Paese.

Per trovarsi in linea di continuità sostanziale con i nostri valori e convinzioni le nuove èlites, figlie di internet più che dei genitori naturali, dovranno essere molto diverse da noi nel modo di esercitare quel potere reale ma spesso indefinito di cui disporranno. L’accountability (che in inglese è qualcosa di più della traduzione italiana “affidabilità”) di un ceto politico dipende da molte cose; ma essenziale resta la sua capacità di riconoscersi in alcuni valori comuni e nella credibilità che gli deriva dalla convinzione di essere al servizio degli interessi collettivi. Con tutti i loro limiti le classi dirigenti di derivazione borghese che condussero l’Italia a unificarsi, ma anche quelle di diversa e più composita formazione che si sono assunte la responsabilità di ricostruire una coscienza civile democratica dopo la drammatica parentesi del fascismo, hanno avuto questa capacità. Ci rendiamo conto forse solo oggi in maniera convinta che l’attuale crisi non nasce oggi con l’emergere preoccupante di un gruppo di potere che sembra completamente disancorato dai valori fondanti della nostra fragile unità; covava sotto la cenere da tempo e la cultura politica del nostro Paese non se n’era accorta, o, quanto meno, l’aveva sottovalutata. Ricostruire una credibilità è molto più difficile che perderla. Chi intende farlo (e spero siano in molti, anche di diverse sensibilità politiche) cominci con una seria autocritica: in passato si sono tollerate cose intollerabili e in nome della politica si sono compiute malversazioni di ogni genere. Se non si parte da una autentica rigenerazione morale (non moralistica) non si andrà lontano.

Franco Chiarenza
21 marzo 2019

È dalla fine dell’800 che l’Europa paventa il “pericolo giallo” prevedendo che, prima o poi, l’ondata irresistibile dei popoli orientali avrebbe travolto l’Occidente civilizzato. Un pericolo evocato anche da Mussolini prima che si ritrovasse col “patto tripartito” alleato col Giappone militarista che si accingeva ad attaccare gli Stati Uniti d’America. Perchè al Giappone soprattutto si pensava come potenza in grado di soggiogare l’intero Estremo Oriente (Cina compresa) per poi riversare le nuove masse militarizzate sull’Europa. Non è andata così ma la paura dei fantasmi orientali, trasferita sulla Cina divenuta nel tempo uno strano ircocervo capitalista e comunista al tempo stesso, è rimasta. La visita del presidente cinese Xi Jinping in Europa (e in Italia in particolare) ha riacceso le polemiche per gli accordi commerciali che in tale occasione dovrebbero essere firmati.

Il boomerang di Trump
Era evidente già da tempo che la politica isolazionista e protezionista inaugurata dal presidente americano avrebbe prodotto una crisi dei vincoli internazionali che pazientemente erano stati costruiti intorno alla globalizzazione attraverso una rete di accordi multilaterali che servivano soprattutto a imporre regole ai paesi emergenti per limitare al massimo il dumping sociale che ne sarebbe conseguito. In buona sostanza all’apertura degli scambi e del commercio internazionale avrebbero dovuto corrispondere standard minimi fiscali, di protezione sociale e un rule of law (certezza del diritto) che consentissero alla concorrenza di giocare ad armi pari; a questo servivano il WTO, l’OCDE e gli accordi di vertice che si stipulavano tra le grandi potenze (G8, G20, ecc.).
Con la filosofia dell’America First Trump ha messo il suo paese fuori da ogni vincolo internazionale stabilendo con arroganza il primato di accordi bilaterali in cui la forza obiettiva del governo di Washington avrebbe piegato ogni altro contraente; ma il “via libera” del presidente americano ha significato un “liberi tutti” e quindi l’allentamento di quei vincoli che dalla fine della seconda guerra mondiale legavano le economie di mercato di tutto il mondo alla supremazia degli Stati Uniti.
Quanto, al di là di qualche effimero successo a breve termine (un po’ di stabilimenti manifatturieri rientrati negli States) tutto ciò convenga agli interessi geo-politici americani è tutto da verificare.

La sfida cino-americana
Il nodo è rappresentato dalla Cina. Dopo la conversione al sistema capitalistico operata da Deng Xiao Ping negli anni ’80 (riuscendo a mantenere il centralismo politico leninista) la Cina ha avuto uno sviluppo impressionante che, dopo avere eliminato alcune delle condizioni di miseria diffusa ereditate dall’estremismo di Mao Zedong, si è rivolto alla conquista dei mercati internazionali con una politica apparentemente discreta ma sostanzialmente espansiva, favorita dalla commistione pubblico/privato che caratterizza il sistema. Gli strumenti utilizzati dai cinesi sono differenziati e in generale poco trasparenti ma riescono a condizionare con cospicui finanziamenti molte economia strutturalmente deboli in Asia e in Africa (e adesso anche in Europa).
Lo sbarramento messo in atto dai predecessori di Trump era costituito da tre componenti con le quali necessariamente i governi cinesi dovevano fare i conti: quella politica attraverso la SEATO (una sorta di NATO sud-orientale, disciolta nel 1977 e sostituita dall’ASEAN, un’alleanza strategica che punta alla creazione di un’area di libero scambio tra alcuni paesi del sud-est asiatico); quella militare garantita dalla incontestabile superiorità militare americana che si evidenziava nelle grandi basi militari in Corea, in Giappone e nelle Filippine e che garantiva Taiwan dalle pretese annessionistiche cinesi; quella economica che subordinava l’accesso ai vantaggi della globalizzazione (ivi compresi gli appetibili mercati americani) al rispetto di regole e vincoli che ruotavano intorno al WTO. Quando Trump ha disinvoltamente rimesso in discussione questo delicato equilibrio di contenimento immaginando una resa senza condizioni dei cinesi, il risultato è stato che improvvisamente il governo di Pechino si è inserito in tutti gli spazi che gli Stati Uniti lasciavano liberi proclamandosi ipocritamente sostenitore del multilateralismo (disponibile cioè ad accettare quelle regole che Trump dichiarava di non volere più rispettare).

La farsa coreana
La debolezza americana è emersa clamorosamente nella ridicola sfida con Kim-il Jong, dittatore di un feroce regime vetero-comunista nella Corea del nord, il quale ha giocato con Trump come Speedy Gonzales contro il gatto Silvestro. Prima la minaccia di colpire gli Stati Uniti con razzi intercontinentali, poi l’improvvisa disponibilità all’accordo, poi un nuovo irrigidimento con l’umiliazione internazionale di Hanoi (luogo simbolico, scelto non a caso dai coreani). E Trump dietro a ogni mossa di Kim come un cane dietro all’osso, convinto di superare ogni ostacolo col suo carisma personale. Mentre la verità è – e i suoi consiglieri glielo avevano detto – che il pallino è in mano ai cinesi che manovrano il dittatore nord-coreano come vogliono (anche perchè senza il loro appoggio non durerebbe a lungo) i quali vogliono una cosa sola, il ritiro degli americani dalla Corea del Sud. Un paese strategico, economicamente molto sviluppato ma militarmente dipendente dalla protezione americana, che i cinesi vorrebbero “neutralizzare” per includerlo di fatto in quel sistema imperiale a geometria variabile che essi vorrebbero gradualmente costruire attorno alla propria egemonia, anche mantenendo talune diversità autoctone (con sistemi politici differenziati) secondo un modello già adottato per Hong Kong e attraverso il quale il regime di Pechino spera di vincere le resistenze di Taiwan alla riunificazione. Se ci riuscissero disporrebbero di un potenziale economico superiore a quello del Giappone (che, ricordiamo, è la quarta potenza economica mondiale) e si avvicinerebbero all’agognato traguardo di realizzare una partnership mondiale con gli Stati Uniti (per ora ancora molto lontana).

La via della seta
In tale contesto si colloca la famosa “via della seta” che prende il nome dal percorso effettuato nel XIII secolo da Marco Polo per andare da Venezia in Estremo Oriente via terra, ma che già era stato praticato sin dai tempi dell’impero romano. Si tratta di un progetto grandioso per collegare la Cina all’Europa attraverso ferrovie e strade coordinate con diramazioni che attraversano l’intero continente asiatico, e con linee navali che ne costituiscono la variante marittima. La sua realizzazzione consentirebbe un impulso straordinario agli scambi commerciali e per essa la Cina offre di anticipare i capitali necessari ai paesi attraversati; ma naturalmente se le economie di tali paesi sono deboli i finanziamenti si trasformano in vincoli politici ed è questo che preoccupa molte nazioni occidentali.
Sbarcando in Europa il presidente Xi sa di muoversi in un terreno minato; lo farà dunque con molta prudenza ma ha dalla sua parte due potenti alleati: la divisione dei paesi europei (molti dei quali hanno già firmato memorandum d’intesa simili a quello che è all’attenzione del governo italiano), e la politica suicida di Trump che, mettendo in difficoltà l’Europa rischia di buttarla nelle braccia della Cina. Certo, il mercato interno cinese non è comparabile a quello americano, i vincoli culturali e politici che uniscono le due sponde dell’Atlantico sono ben più solidi delle fragili identità nazionali dei paesi dell’Asia centrale, istituzioni forti e articolate come quelle dell’Unione Europea e della NATO sono in grado di resistere a chi vorrebbe smantellarle, ma usque tandem, Donald, abuteris patientia nostra?

Franco Chiarenza
15 marzo 2019

La vicenda TAV, giunta al momento dei bandi per gli appalti, aveva due sole possibili soluzioni: il loro avvio, impossibile senza una crisi di governo perchè farebbe perdere la faccia ai Cinque Stelle, oppure un ennesimo rinvio. Azzerare tutto non è possibile: lo sanno anche i Cinque Stelle freschi di un sondaggio che vede al nord quasi la metà della sua base favorevole al progetto (sia pure ridotto), e lo dice l’Unione Europea che ha pubblicato un’analisi sui benefici dell’opera a livello continentale che dovrebbe far vergognare Toninelli e quanti si sono assunti la responsabilità di stilare un’analisi costi/benefici campata per aria. Ma poiché Salvini ha deciso evidentemente che non è ancora venuto il momento di chiedere il divorzio da Di Maio, il presidente Conte ha varato l’unica soluzione praticabile, peraltro tipicamente italiana: una formula bizantina che si risolve sostanzialmente in un rinvio.
Però deve essere chiaro che la TAV è soltanto la punta di un iceberg che prima o poi sarà impossibile evitare. Non è difficile capirne il perché.

Adesso cominciano i guai
Salvini ha incassato il consenso (giunto a mio parere al punto massimo) sulle politiche della sicurezza (legittima difesa, decreto sicurezza e la stessa immigrazione, percepita dalla maggior parte del suo elettorato soprattutto come un problema di sicurezza) nonché sull’anticipo delle pensioni che, riguardando in prevalenza la pubblica amministrazione, gli assicura una rendita elettorale anche nel centro-sud. Da adesso in poi però dovrà fare i conti con altri problemi più difficili da risolvere, cominciando dagli interessi dei piccoli e medi imprenditori del centro-nord che vivono con preoccupazione la tendenza dei Cinque Stelle a penalizzare la produzione manifatturiera, e di cui l’ostilità nei confronti delle grandi infrastrutture costituisce la “cartina di tornasole”. Le tasse continuano ad essere molto elevate, i costi energetici più alti di quelli di altri paesi, la mano d’opera ingabbiata in normative che impediscono qualsiasi forma di flessibilità, tutte questioni su cui i due partner di governo hanno sensibilità diverse.
Di Maio ha portato a casa il reddito di cittadinanza ma ha dovuto cedere su molte altre questioni che la base militante del suo movimento riteneva importanti per la propria identità. Il futuro per lui non si presenta bene: la realizzazione concreta del reddito di cittadinanza mostra numerose criticità dovute anche alla fretta con cui è stato attuato il provvedimento ed esiste il rischio concreto che esso si trasformi in un boomerang, non soltanto al nord dove è visto malissimo ma anche al sud dove potrebbe facilmente trasformarsi in una sorta di sussidio generalizzato a sostegno dell’economia sommersa. I sondaggi e le elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna mostrano peraltro un forte ridimensionamento del consenso elettorale dei Cinque Stelle tanto da richiedere urgenti restauri all’organizzazione stessa del movimento (e ad alcuni suoi presupposti ideologici).
Entrambi i partner tuttavia avevano messo in conto di andare avanti fino alle elezioni europee: Salvini per capire se un’ipotesi alternativa di maggioranza di centro-destra (con Berlusconi, Meloni e frattaglie) sia effettivamente praticabile, Di Maio per arginare l’emorragia sventolando il reddito di cittadinanza. Le scadenze della TAV (peraltro ben note) sono state soltanto un incidente di percorso, amplificato dal clamore mediatico che la vicenda ha creato e che entrambi i “dioscuri” avevano sottovalutato al momento di stringere l’accordo di governo.

La crisi economica
Il vero problema che angoscia entrambi i partiti di maggioranza (e tutti gli italiani responsabili) è un altro: come affrontare la crisi economica che si sta riaffacciando in Europa (e con particolare intensità nel nostro Paese). Una revisione delle previsioni di bilancio (comunque la si voglia denominare) potrebbe rendersi necessaria a breve e mettere a rischio le risorse impegnate per il reddito di cittadinanza e per le pensioni anticipate; l’alternativa sarebbe un nuovo duro confronto con la Commissione dell’UE che potrebbe sfociare in una procedura d’infrazione. Una patata bollente che Salvini e Di Maio passerebbero volentieri ad altri e questo spiegherebbe perchè la partita che si è aperta somiglia tanto al gioco del cerino: chi si brucerà le dita? Forse, per ora, nessuno; basta buttare per terra il cerino. Ma non è detto che si spenga.

 

Franco Chiarenza
11 marzo 2019

L’ultima opera letteraria di Ernesto Paolozzi segna un ulteriore momento di allontanamento dell’autore dal liberismo – inteso come concezione liberale dell’economia – attraverso un percorso che lo studioso crociano aveva intrapreso da tempo; non a caso il libro è stato scritto a quattro mani con Luigi Vicinanza, giornalista di formazione comunista poi passato a incarichi prestigiosi nel gruppo editoriale di Repubblica.
Il saggio contiene molte annotazioni di buon senso, alcune denunce condivisibili, ripete preoccupazioni che tutta la cultura liberale (anche nella sua versione social-democratica) analizza da tempo; per andare a parare dove?
La democrazia liberale è sempre stata – sin da quando è divenuta “moderna” con Benjamin Constant – una procedura che regola i conflitti politici attraverso la mediazione di una èlite che elabora i progetti di governo su cui chiede la “fiducia” popolare. La partecipazione si esprime, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, attraverso corpi intermedi diversamente organizzati che, pur non identificandosi mai con l’intero corpo sociale, sono in grado di operare un processo di sintesi che trova nella rappresentanza il suo momento decisionale. Dare alla democrazia altri significati è sempre stato un modo di avvilire e comprimere le procedure che della democrazia sono l’indispensabile motore; quando è in buona fede è un’illusione se non illiberale quanto meno “a-liberale”. Tali procedure sono in crisi? Certamente, perché l’avvento dell’era digitale, a cominciare dai nuovi mezzi di comunicazione, impone cambiamenti profondi, perché la globalizzazione moltiplica i soggetti attivi sui mercati (facendo venir meno le posizioni di rendita dei paesi più sviluppati), perché le nuove tecnologie modificano profondamente il lavoro manifatturiero (e non soltanto); un fenomeno complesso che investe ogni aspetto della vita umana (economia, comunicazione, appartenenze religiose, idee ed ideologie, ambiente, sicurezza) nei cui confronti la politica non è stata ancora in grado di dare risposte convincenti. Anche perché a fenomeni globali non si possono dare risposte parziali.
Da qui nascono e prosperano i nuovi populismi che – come quelli vecchi che li hanno preceduti – suggeriscono soluzioni semplicistiche a problemi complessi (salvo poi non sapere come affrontarli quando giungono al potere). Il loro successo è direttamente proporzionale all’incapacità delle sinistre europee di proporre soluzioni accettabili ai loro stessi elettorati tradizionali, traditi da illusioni troppo a lungo coltivate, e impauriti da cambiamenti che, in quanto ineluttabili, vanno governati e non esorcizzati.

La domanda è: le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro sono tali da mettere in pericolo la stessa democrazia, come sembrano suggerire gli autori del saggio? Non ne sono convinto, anche se mentre è certamente condivisibile il traguardo finale (lavorare meno, lavorare tutti) non sono affatto chiare le strade da percorrere per raggiungere l’obiettivo pagando costi sociali sopportabili.
La retorica del “dover essere” non rappresenta mai una soluzione, serve tutt’al più a ricordarci le difficoltà che i sistemi liberal-democratici stanno attraversando nel contenere e indirizzare un’opinione pubblica innervosita e preoccupata, ma non assente. Non esistono scorciatoie: è all’interno della democrazia (liberale) che va cercata la soluzione; ogni altra strada conduce a derive autoritarie che senza risolvere il problema si limiterebbero ad occultarlo.
Le procedure democratiche funzionano anche quando vengono utilizzate per un rovesciamento radicale delle nostre convinzioni culturali e politiche, almeno finchè resta inalterato il patto regolativo che garantisce ogni possibile ricambio. Stiamo vivendo un momento in cui nuovi soggetti politici premiati elettoralmente da sensibilità popolari diverse dalle nostre stanno cercando di sostituire le precedenti classi dirigenti. Non ne condivido né i presupposti culturali né le modalità di governo, e men che meno le prospettive fondamentaliste a cui una parte almeno di essi sembra ispirarsi, ma in ogni caso non si può dire che la democrazia non abbia funzionato.
Essa, intesa come procedura di verifica e di sintesi della volontà popolare, non ha alternative in Occidente; può perfezionarsi, cambiare le classi dirigenti, ma la possibilità che il disagio sociale possa innescare processi autoritari simili a quelli che generarono i regimi totalitari tra le due guerre mondiale mi pare per fortuna remoto.
Prima o poi la maggioranza dei cittadini elettori si renderà conto che la strada da percorrere non è quella che conduce a chiudersi dentro la fortezza in cui molti cercano salvezza dalle proprie paure, all’interno dei propri confini (non soltanto territoriali ma anche culturali e sociali), ma piuttosto la capacità di riprendere quel filo dei rapporti multilaterali che l’Occidente a guida americana aveva faticosamente dipanato dopo la seconda guerra mondiale e che la vittoria di Trump ha spezzato spingendo gli egoismi nazionali a una guerra di tutti contro tutti. Non si possono contrastare gli effetti della globalizzazione più di tanto; ma è possibile immaginare interventi coordinati che senza comprimere i vantaggi dei processi spontanei indotti dalla rete interattiva e intermodale degli scambi (economici, sociali e culturali) riescano a contrastarne gli effetti negativi che essa produce (per esempio – per restare al tema di fondo del libro – sulle distorsioni del mercato del lavoro che producono il dumping sociale).
C’è un passaggio del libro in cui si afferma che della democrazia il mercato globalizzato può fare a meno. Non ne sono affatto convinto: senza il “rule of law”, senza la certezza del diritto, il mercato non funziona e genera mostri incontrollabili destinati a trasformarsi o ad implodere, ed è proprio questo il punto debole della crescita cinese (di cui peraltro parleremo magari in un’altra occasione).

 

Franco Chiarenza
9 marzo 2019

 

Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza – Diseguali: il lato oscuro del lavoro – Guida editori (Napoli 2018) – pag. 133, euro 12.