Il disordine illiberale di Trump

Come ha ricordato Vittorio Emanuele Parsi nel suo bel libro “Titanic, il naufragio dell’ordine liberale”, Franklin Delano Roosevelt in un famoso discorso del 1933 che segnò l’avvio del “New Deal” affermò di fronte a un paese stremato, disorientato e senza speranza che “non c’è nulla di cui dobbiamo avere paura tranne della paura stessa!”. Ma, come lo stesso Pardi scrive, gli artefici dell’ordine internazionale liberale “nel momento in cui prospettavano un sistema economico e finanziario aperto, fondato sulla libera circolazione di beni e di servizi, erano ben consci che a un mercato mondiale dovesse corrispondere una struttura di governance solida e che solo attraverso un accorto sistema di regole sarebbe stato possibile evitare che un mercato globale potesse prendere il sopravvento su democrazie necessariamente locali.” Questa era la grande scommessa che gli Stati Uniti attraverso un complesso sistema di alleanze e di vincoli multilaterali hanno portato avanti soprattutto dopo la fine della guerra fredda nel 1989 e il venir meno dell’ideologia alternativa comunista.
Dobbiamo chiederci se la crescita dei nazionalismi populistici in Europa e in America significa che l’ambizioso progetto di un liberalismo senza frontiere su cui l’Occidente democratico aveva fondato la sua supremazia economica, politica e culturale dopo la seconda guerra mondiale sia
sostanzialmente fallito.

Tutti separati appassionatamente
Cosa accomuna Trump, il gruppo di Visegrad, la Brexit, la Lega di Salvini, il lepenismo francese, e altri fenomeni che definiamo sommariamente “populisti”? In realtà poco o nulla perché si tratta di movimenti assai diversi e originati da realtà politiche e sociali differenti. Ma una cosa in comune ce l’hanno: l’avversione a regole internazionali stabilite in trattati multilaterali che in qualche misura limitano le sovranità nazionali.
Dietro questa ostilità c’è la convinzione che i problemi di casa propria si risolvono meglio tenendo chiuse porte e finestre e che quello che succede fuori non ci riguarda, almeno finché non tocca direttamente i nostri specifici interessi. Come se la pulizia delle strade, una circolazione ordinata, la sicurezza pubblica, il funzionamento della scuola e degli ospedali e quant’altro riguarda i rapporti di convivenza di una qualsiasi comunità non dovesse interessarci purché la nostra casa sia ordinata e pulita al suo interno.
Si tratta di una percezione tanto diffusa quanto sbagliata perché con la globalizzazione dobbiamo fare i conti necessariamente con le esigenze di tutti; ed è questo che mette paura per il timore che ciò possa mettere in pericolo quelle sicurezze individuali che riteniamo di avere acquisito per sempre.
Come si traduce questa pericolosa tendenza? Nella separazione. Ognuno per sé, Dio (per chi ci crede) per tutti. Questo significa dazi per rendere più onerose le importazioni, restrizioni alla libera circolazione di persone e merci, monete flessibili per speculare sulla variabilità delle valute (con relativi cambi forzosi), e via discorrendo; un ritorno alle condizioni d’anteguerra. Quel che sorprende è che questo “ritorno al passato” sia sostenuto in paesi, come il nostro, che sulle esportazioni hanno fondato il loro sviluppo e che si troverebbero assai svantaggiati da un generale inasprimento dei dazi che non potrebbe in alcun modo essere compensato dalle manovre sui cambi adottate in passato in un contesto assai diverso e comunque con effetti transitori e facendone pagare il costo ai più deboli attraverso un’inflazione che minava alla base il potere d’acquisto dei consumatori (Luigi Einaudi scrisse in proposito pagine indimenticabili).
Con una moneta debole (come sarebbe una nuova lira), con un mercato interno oggettivamente limitato, resterebbe soltanto il turismo come partita attiva della bilancia commerciale; con grande soddisfazione di chi vorrebbe l’Italia ridotta al ruolo di una “Disneyland” permanente.
Che Trump scommetta sul protezionismo ha un senso, almeno a breve termine, perché può disporre di un mercato interno di dimensioni gigantesche e di una moneta che resterebbe – tolto di mezzo l’euro – l’unica valuta di riferimento per il commercio internazionale; anche se una politica fondata sulla forza economica e militare può risultare controproducente nei tempi lunghi essa nel breve termine può produrre dei vantaggi per la middle class che si sente sacrificata dagli effetti della globalizzazione. Poco importa a Trump e ai suoi consiglieri se in una prospettiva più lontana i consumatori americani potrebbero restare danneggiati da un aumento dei prezzi e dall’indebolimento di un’egemonia che non è stata soltanto militare ma anche culturale e politica e che tanta importanza ha avuto anche nello sviluppo dell’economia americana. Per questo la partita che si gioca all’interno degli Stati Uniti è decisiva per tutte le democrazie liberali dell’Occidente; il venir meno della vision fondata sulla concezione di “società aperta” avrebbe conseguenze gravissime in tutte le parti del “sistema” che essi stessi avevano creato dopo gli stermini bellici della prima metà del secolo XX.

Dal multilateralismo alle intese parziali
Che però siano “sovranisti” paesi che hanno fondato il loro sviluppo proprio sull’apertura dei mercati come molte nazioni europee è quasi paradossale. Quale mai “sovranità” reale (e non puramente formale) potranno esercitare paesi come l’Ungheria, la Polonia, l’Austria e la stessa Italia a fronte di potenze globali in possesso di strumenti di pressione commerciali, finanziari, militari come quelli di cui dispongono i grandi blocchi continentali come gli Stati Uniti, la Cina, la Russia? Sarebbero inevitabilmente fragili vascelli destinati ad accodarsi se non vogliono restare schiacciati da flotte d’acciaio.
Si replica sostenendo che intese parziali, accordi bilaterali, possono benissimo prendere il posto di alleanze multinazionali, col vantaggio di mantenere la sovranità in casa propria; ma si tratta di una menzogna che nasconde purtroppo un’altra amara verità. Essere svincolati da regole internazionali che hanno il loro fondamento nel riconoscimento dei principi liberali dello stato di diritto significa avere via libera nel processo di regressione da democrazie liberali in democrazie plebiscitarie sostanzialmente autoritarie. E’ incredibile che proprio quei paesi che hanno potuto sviluppare la propria economia uscendo da secolari situazioni di minorità anche e soprattutto grazie all’appartenenza all’Europa e al sostegno che da essa hanno ricevuto, come alcuni paesi dell’Est europeo, abbiano avviato una pericolosa strategia politica di distacco dai valori fondanti dell’Unione Europea, cercando i modelli di riferimento nella Russia di Putin o nella Turchia di Erdogan.
A questo punta Salvini? E i Cinque Stelle che ne pensano?

 

Franco Chiarenza
22 giugno 2018

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