Tag Archivio per: politica estera

Continua incessante, sempre meno sotterraneo, il tentativo di delegittimare l’alleanza di fatto che si è venuta a creare tra le democrazie occidentali e la resistenza ucraina. Il modo più subdolo di farlo è confrontare i misfatti di Putin con quelli di cui si sarebbe resa responsabile in passato la NATO, quasi che ciò possa in qualche modo giustificare l’intervento russo.
Tra quanti si esercitano in queste dubbie argomentazioni ci sono alcuni liberali, ed è ad essi che mi rivolgo perché la nostra cultura mette insieme ragioni e preoccupazioni geo-politiche (che comportano inevitabilmente contatti e relazioni anche con paesi diversi da noi) e coerenza con i principi che sono alla base delle nostre convinzioni.
In sintesi:

  • credo sia innegabile che in passato, assumendosi compiti di vigilanza democratica che non rientravano nelle finalità difensive originarie, la NATO abbia compiuto degli errori; in particolare l’intervento armato in Serbia nel 1999 per consentire alla minoranza albanese concentrata nel Kossovo di rendersi indipendente, e successivamente l’occupazione dell’Afghanistan dopo gli attentati terroristici di New York del 2011. L’invasione dell’Iraq nel 2009 invece non fu effettuata dalla NATO ma da una coalizione guidata dagli Stati Uniti (di cui non facevano parte né la Francia né la Germania e in cui l’Italia dette un contributo molto marginale nell’ambito di una collaborazione militare con la Gran Bretagna). Si trattò di operazioni militari diverse anche nelle motivazioni (nel caso del Kossovo la tutela di una minoranza perseguitata, in Afghanistan per distruggere le basi del terrorismo islamico, in Iraq senza alcuna giustificazione ragionevole) e che sollevarono dubbi e perplessità nelle opinioni pubbliche europee.
  • è altrettanto innegabile che dopo il crollo dell’Unione Sovietica l’Alleanza atlantica aveva perso la sua principale ragione di essere; se guerra (fredda) c’era stata gli Stati Uniti coi loro alleati europei l’avevano vinta e quindi veniva meno la necessità di un’alleanza difensiva. Avrebbe avuto un senso mantenerla in vita trasformandola in una struttura multilaterale militare da utilizzare per stabilizzare le possibili aree conflittuali ancora presenti in Europa e in Medio Oriente in collaborazione con la Russia e non contro di essa; in questa direzione andavano l’accordo che il governo italiano promosse nell’incontro di Pratica di Mare tra la NATO e la Russia nel 2002, e, ancor prima, l’inserimento della Russia nel G7 (gruppo degli stati economicamente più avanzati, di fatto le maggiori potenze occidentali). Non si andò avanti in questo orientamento per tre ragioni: il prevalere in Russia di partiti nazionalisti e nostalgici contrari alla trasformazione del paese in una democrazia liberale; il timore dei paesi dell’Europa dell’Est di dovere fronteggiare le mire egemoniche e revansciste della Russia; l’interesse degli Stati Uniti di mantenere – attraverso il controllo della NATO – un potere di dissuasione militare che avrebbe impedito all’Unione Europea di crescere politicamente e militarmente.
  • Non è vero invece che la NATO allargandosi ad est ai paesi che avevano chiesto di farne parte abbia rappresentato un pericolo per la sicurezza della Russia, non soltanto per il carattere difensivo dell’Alleanza, ma soprattutto perché le basi militari e missilistiche presenti in Europa non erano quantitativamente comparabili con quelle russe.

Resta da capire – così stando le cose – perché Putin abbia deciso di intervenire militarmente in Ucraina, posto che un’adesione di quel paese alla NATO era ormai da escludersi e poteva facilmente essere formalizzata in un accordo complessivo insieme alla concessione di maggiori tutele alle minoranze russofone del Donbas e all’accettazione del fatto compiuto in Crimea.
L’unica spiegazione possibile è che Putin abbia deciso di scatenare una guerra preventiva per stabilire una zona di influenza russa nell’Europa dell’Est consolidando un’egemonia che a sud attraverso il controllo del mar Nero arrivasse al Medio Oriente e a nord dalla base di Kaliningrad controllasse il Baltico e gli stati neutrali che vi si affacciano (Svezia e Finlandia).
Ammetto che si tratta di una spiegazione debole a fronte dei rischi che un intervento armato avrebbe comportato e che il leader russo non poteva ignorare: isolamento internazionale (Cina esclusa), ricompattamento dell’Europa occidentale (con la pericolosa appendice di un riarmo tedesco), rafforzamento della NATO (proprio quando molti la davano per spacciata, almeno nel format attuale), danni economici rilevanti per un paese che per la maggior parte esporta gas e materie prime e importa manifattura e tecnologia. Evidentemente alcune conseguenze erano state sottovalutate a cominciare dalla resistenza accanita degli ucraini (anche russofoni anti-Putin) per continuare con la capacità americana di fornire assistenza militare e coperture tecnologiche in quantità e qualità tali da mettere in difficoltà un esercito più tradizionale come quello russo. A ciò si è aggiunta la parallela guerra della comunicazione, fondamentale nel mondo odierno, che ha visto Zelensky in netto vantaggio evidenziando l’arretratezza culturale del regime di Mosca e il suo isolamento auto-referenziale.

E allora? Se di guerra preventiva si è trattato, contro chi o che cosa?
Contro l’egemonia americana. Putin pensa a se stesso come l’angelo vendicatore della sconfitta dell’Unione Sovietica; non del comunismo, si badi bene, (di cui non ha alcuna nostalgia) ma di quella ricomposizione dell’impero zarista che, più o meno consapevolmente, l’Unione Sovietica aveva realizzato. E con le stesse mire egemoniche: Baltico, Polonia, Balcani, Medio Oriente.
Chi ostacola questo disegno? L’America. Da quando nel 1945 ha abbandonato il suo isolazionismo ed è corsa a salvare l’Europa dal nazifascismo stabilendo con essa un legame profondo derivato da origini comuni, valori ideologici condivisi, interessi economici in gran parte complementari, l’America coi suoi alleati in Oriente (Giappone, Corea, ex colonie britanniche) ha realizzato un’area di influenza socio-economica e culturale senza precedenti, all’interno della quale le regole politiche liberal-democratiche erano dominanti.
Putin ha capito che l’unico sistema realmente alternativo potenzialmente in grado di competere con l’egemonia americana è quello cinese, soprattutto da quando ha abbandonato le utopie egualitarie del marxismo rimodellando la propria economia per renderla capace di inserirsi con successo nei processi di globalizzazione capitalistica. Il presidente russo ha deciso quindi di anticipare i tempi costringendo la Cina di Xi Jinpeng a schierarsi con lui nel comune intento di ridimensionare la presenza euro-americana; ma in realtà le convergenze economiche e politiche dei due regimi sono molto limitate. La Cina difende l’autoritarismo perché lo ritiene necessario per modernizzare il paese ancora segnato da ataviche arretratezze di cui è cosparso il suo immenso territorio, Putin lo utilizza per realizzare un impossibile ritorno al passato, alle tradizioni religiose, al rifiuto della decadenza dei costumi importata dall’Occidente, per creare in sostanza un neo-zarismo paternalistico e chiuso ad influenze culturali che ritiene devianti.

Se le cose stanno così (ma la mia è soltanto un’ipotesi) tra i tanti errori che Putin ha compiuto c’è anche quello, coerente con una concezione ottocentesca dei rapporti di forza, di non aver compreso la rivoluzione comunicativa (e quindi informativa) del secolo XXI la quale – piaccia o no – offre alle popolazioni nelle loro diverse articolazioni (religiose, sociali, economiche, culturali) una capacità di intervento nella determinazione dei propri interessi che era sconosciuta in passato: contro questa rete che tutto avvolge in un’infinità di connessioni è impossibile combattere con i carri armati e i missili.

Franco Chiarenza
20 aprile 2022

Caro Franco,

ho letto il tuo “Russia: ieri, oggi, domani” e, nonostante sia un pezzo raziocinante come al solito, trovo abbia una carenza che desidero segnalarTi, convinto che un liberale, anche se ha il vezzo di qualificarsi qualunque, non possa trascurare un aspetto così essenziale per i liberali.

Al punto 3 tu richiami che, secondo gli accordi Helsinki del ’75, “i diritti delle minoranze etniche e linguistiche sarebbero stati tutelati mediante forme di autonomia da concordare“. Poi al punto 5 richiami “un’autonomia speciale alle regioni russofone del Donbass che, per la verità, non è mai stata realizzata“. Ma dal richiamo non trai le conseguenze generali (decisive nella fattispecie), con la parziale giustificazione che era scoppiata una guerra civile sostenuta dai russi. Così nel prosieguo sorvoli sulla mancata concessione dell’autonomia speciale che Putin ha reiteratamente richiesto invano anche la settimana precedente l’inizio delle attuali ostilità militari. Ma questo sorvolare non è accettabile. Primo perché il sostegno dei russi alla guerra civile nel Donbass è presunto (come quello degli ambienti Nato e della CIA dal ’14 in Ucraina o prima nelle primavere arabe o prima in Libia) ed anche successivo (d’altra parte le lotte tra filorussi e ucraini sono un retaggio storico, cioè una volontà dei popoli per usare una tua frase). Secondo perché non riflettere sui passaggi comprovanti gli interessi di Putin, è appunto il difetto di comportamento (che non a caso prescinde dal liberalismo) seguito dalla NATO e dagli ambienti super conservatori degli USA a fatica fronteggiati da Biden (e fatti trasparire con la frase di pochi giorni fa in cui Biden ha contrapposto esplicitamente le sanzioni alla terza guerra mondiale).

Il sorvolare sul dato di fatto della mancata attuazione dell’accordo per l’autonomia speciale, ha la gravissima conseguenza di accettare il ritorno alla guerra fredda, con la contrapposizione tra regime della libertà e regime comunista. E quindi di far riemergere come allora il pericolo della guerra atomica. Oltretutto, essendosi dimostrato nei fatti che la fine della guerra fredda ha prodotto molti vantaggi per la libertà nel mondo.

Il punto pericoloso della carenza in tema di liberalismo, sta qui: agevolare senza battere ciglio il ritorno alla guerra fredda. Non soltanto perché comporta pure il ritorno al rischio atomico. Ma in primo luogo perché esprimere l’idea che il ritorno a quel clima favorisca le democrazie libere. Oggi è l’esatto contrario. Perché sono di più i soggetti con armi atomiche, perché sono di più e maggiormente diffusi i motivi di tensione fatti emergere dalla crescita tecnologica e del livello di vita, perché sono di più i raggruppamenti di paesi attivi a livello internazionale con interessi divaricati. E soprattutto per la questione più importante: salvo i periodi in cui si fa la guerra vera e propria, la libertà vive di conflitti democratici ma non è esportabile (e neppure creabile con interferenze esterne di vario tipo) e deve essere fatta maturare nei luoghi in tensione. Ragion per cui i liberali non stanno a guardare sognando i marchi rispettivamente attribuiti alle varie nazioni, ma si attivano per far sì che i comportamenti reali nelle relazioni tra nazioni differenti siano il meno possibile distanti quelli della libertà. Quindi, se la prospettiva non è quella di voler arrivare alla guerra, aizzare l’opinione pubblica in modo massiccio contro gli stati avversari dipingendoli assalitori perfino al di là del vero e non tenendo conto dei loro espliciti punti di vista, è intrinsecamente illiberale.

Tanto più che i primi dello scorso febbraio a Pechino, nel comunicato stampa congiunto di Xi Jinping e Putin si denunciavano i cinque consecutivi allargamenti della Nato (fatto vero) e si insisteva sulle “legittime richieste per la sicurezza russa”. Dopo questo comunicato, i governi occidentali della NATO e degli USA avrebbero dovuto precipitarsi a premere su Zelensky – che è indiscutibilmente da loro assai influenzato – per indurlo a fare subito quello che non aveva fatto fino ad allora (l’autonomia speciale al Donbass) e a smettere con gli atteggiamenti provocatori funzionali alla guerra con la Russia. Naturalmente questo avrebbero fatto se fossero stati liberali. Ma lo sono esclusivamente a parole. E si comportano con l’esplicito obiettivo di sollevare i russi contro Putin (ma non dovevano essere evitati i tentativi di destabilizzazione negli altri paesi?).

Insomma, la carenza politica da colmare presto è quella dell’accettare l’omettere la cultura liberale. Che si batte senza incertezze contro la politica fatta di pure emozioni e incline alle pratiche illiberali effettive, anche se mascherate altrimenti. L’Ucraina non è un nuovo idealismo democratico e non combatte anche per noi europei (ragionamenti che per alcuni dovrebbero portare all’arruolare volontari per la libertà in Ucraina). Concetti simili appartengono solo alle stagioni di guerra. E occorre che ci decidiamo. O si passa alla terza guerra mondiale (sarebbe una follia che però giustificherebbe tali idee dissennate e illiberali) oppure, restando in pace, ci si comporta in modo coerente non aizzando l’opinione pubblica verso la guerra (tesi della cultura liberale). Perciò i liberali debbono presidiare con fermezza quest’ultima posizione e battersi senza sognare al fine di costruire in tutto il mondo, nel tempo, istituzioni più libere mediante il diffondere la pratica degli scambi nel segno della libertà civile e del senso critico per osservare e scegliere, che negli ultimi secoli ha pure prodotto in concreto un grande sviluppo economico sociale.

Raffaello Morelli

Caro Raffaello,

innanzi tutto ti ringrazio per l’attenzione che hai dedicato al mio scritto e scusami per il ritardo nel risponderti. Confrontarsi tra noi liberali è sempre utile; farlo con te richiede attente riflessioni perchè le tue idee non sono mai banali.
Vengo ai punti di contestazione che mi pare siano sostanzialmente due: la mancata autonomia al Donbass e la campagna anti-russa pregiudizialmente ostile.

Per quanto riguarda il Donbass è innegabile che gli accordi di Minsk prevedevano la concessione di un’autonomia speciale che, di fatto, non è stata nemmeno messa all’ordine del giorno da parte del governo ucraino. Dimentichi tuttavia che la guerra civile era già in corso e non si è arrestata in seguito agli accordi; anche ammesso (e non concesso) che la Russia non fosse già direttamente coinvolta nel conflitto, resta il fatto che esso è servito come pretesto per un’invasione che è andata ben oltre la questione delle minoranze russofone, mettendo in discussione gli stessi accordi di Helsinki sulla intangibilità dei confini. Addirittura Putin ha contestato la stessa legittimità dell’esistenza di uno stato ucraino, malgrado con esso esistessero da molti anni regolari relazioni diplomatiche. Il che fa presumere che altri stati dove vivono minoranze russofone (come i paesi baltici) corrano il rischio di vedere contestata la loro indipendenza. Naturalmente l’appartenenza alla NATO fa la differenza e questo spiega almeno in parte perchè Putin abbia scatenato una guerra preventiva per impedire che l’Ucraina ne seguisse l’esempio.
In effetti questo è il punto geo-politico: ha diritto una grande potenza nucleare di limitare la sovranità di uno stato confinante per garantire la propria sicurezza? Secondo Putin evidentemente sì, ma questa convinzione apre uno scenario inquietante se la sicurezza di uno stato è valutata dal governo del paese che ritiene di essere minacciato. La sicurezza può diventare il pretesto per condizionamenti di altro tipo (politici ed economici per esempio) che di fatto limiterebbero il diritto dei popoli di scegliere il modello di società che preferiscono. E poi in cosa consiste la minaccia alla sicurezza russa? Non certo nelle forze armate ucraine o baltiche; consiste nella NATO e in particolare negli USA che nell’alleanza sono preponderanti. Questo dunque è il vero nodo della questione: la Russia vuole allontanare la NATO dai propri confini perchè la ritiene un’alleanza ostile; ma è lecito il sospetto che il timore di Putin non sia limitato all’aspetto militare (anche perchè le forze schierate sono equivalenti e semmai in favore dell’armata rossa) ma piuttosto coinvolga una sfera di influenza che comprende il sistema politico e i contesti economici e sociali, esattamente come avveniva durante il regime comunista.
E’ quindi comprensibile e legittimo che le nazioni interessate non siano d’accordo e cerchino di difendersi. Quando un paese piccolo ha la sventura di confinare con uno grande che vuole imporre la sua egemonia ha due scelte: o accettarne una sostanziale subordinazione oppure allearsi con una grande potenza alternativa che funzioni da deterrente, come fece infatti (con successo) Fidel Castro quando si alleò con l’URSS per sfuggire alla colonizzazione americana. La resistenza ucraina quindi potrebbe essere spiegata non tanto per mantenere all’interno dei propri confini la Crimea e il Donbas quanto per la volontà di differenziarsi dall’involuzione politica ed economica della Russia.
Putin ha ragione quando sostiene che la cultura russa e quella ucraina hanno molti aspetti in comune; ma non quando ne trae come conclusione che non esista un’identità nazionale ucraina, la quale invece affonda le sue radici nei ruteni che hanno fatto parte per secoli dell’impero asburgico e che, diversamente dai russi, erano prevalentemente cattolici. Fu Stalin, con metodi brutali che ricordano sinistramente quelli che sta utilizzando l’attuale autocrate russo, a stroncare la resistenza ucraina e imporre la “russificazione” del paese.

Per quanto riguarda l’inopportunità di un ritorno alla guerra fredda e al clima di reciproca delegittimazione che l’avevano caratterizzata, posso convenire con le tue preoccupazioni ma rilevo che non si tratta soltanto del risultato di una campagna mediatica occidentale ma di un preciso obiettivo di Putin (da lui chiaramente enunciato) di tornare a una contrapposizione frontale per evitare contaminazioni che contrasterebbero il suo progetto di sperimentare nuove forme di democrazia plebiscitaria in grado di prendere il posto di quelle liberali ormai superate dalla storia (sempre parole di Putin).
Non bisogna dimenticare che la guerra fredda è stata una guerra come tutte le altre, anche se non combattuta sul campo, ed è stata vinta dall’alleanza occidentale anti-sovietica, piaccia o no; il che non poteva non comportare nuovi equilibri nell’Europa dell’Est anche per rispondere a una pressante richiesta di quei governi liberamente eletti, i quali nella dimensione economica dell’Unione Europea e in quella militare della NATO intendevano tutelare la loro sicurezza che non era certo minacciata dagli americani. Oppure conta soltanto la sicurezza della Russia che in realtà viene spesso confusa con quella del regime di Putin?

Non ho difficoltà ad ammettere che dopo la caduta del sistema comunista sovietico la NATO (e quindi pure noi) perse l’occasione di trasformare l’alleanza in un patto di non aggressione e di sicurezza che garantisse stabilità anche a contesti geo-politici in fase di trasformazione (Medio Oriente, Africa, ecc.). Il presupposto di tale nuova Alleanza però non poteva che essere l’accettazione dei principi di uno stato di diritto liberal-democratico (che nulla ha a che fare con l’esportazione della democrazia) almeno al proprio interno; se il progetto fallì fu responsabilità degli opposti estremismi con cui i liberali purtroppo devono sempre fare i conti.
Vi furono errori da parte della Nato? Certamente, a cominciare dall’infelice intervento contro la Serbia dopo l’implosione della Federazione Jugoslava. Ma non possono essere usati in nessun modo per giustificare quello che Putin sta facendo in Ucraina.
Se accettiamo il principio della liceità di interventi armati a tutela della propria presunta sicurezza si aprirebbe un vaso di Pandora incontrollabile: la Turchia di Erdogan contro i curdi, l’Iraq contro gli sciti, India contro Pakistan, Cina per riprendersi Taiwan. Anche noi potremmo schierare le nostre armate contro la Slovenia per riprenderci Capodistria e fare una guerra preventiva contro il Tirolo per difendere gli italiani di Bolzano! Il che guasterebbe i miei progetti di villeggiatura nel Renon.

Cordiali saluti

Franco

PS Naturalmente sarò lieto di pubblicare sul mio blog la tua lettera con la mia risposta. F.

Che nell’opinione pubblica emergano posizioni diverse nei confronti del blitz di Putin che di fatto sta annettendo alla Russia una parte dell’Ucraina non stupisce e rientra in una sana dialettica democratica. Anche perchè, come sempre in politica, non mancano argomenti validi per i favorevoli quanto per i contrari. Stupisce di più trovare tra coloro che difendono l’operato della Russia alcuni amici liberali. Soltanto per questa ragione ritengo necessario fare un po’ di chiarezza nella mia qualità di componente della tribù dei “liberali qualunque”.

  1. La guerra in corso si svolge su due piani distinti che si intersecano ma non vanno confusi: c’è un conflitto tra stati in cui una grande potenza sta cercando di sopraffare e di annettersi un paese confinante e che si esprime attraverso un duro scontro militare, e c’è una contrapposizione ideologica tra una concezione autoritaria dello Stato e quella opposta articolata in un sistema liberal-democratico. Non sempre i due piani coincidono: ci sono fautori del populismo autoritario anche nell’Unione Europea (Polonia, Ungheria), oggi silenti ma pronti a riemergere, e ci sono (per fortuna) convinti democratici anche in Russia (repressi con durezza dal regime). I liberali non possono nelle loro valutazioni non tenere conto che lo scontro ideologico è più importante di quello tra forze armate nazionali. Come d’altronde avvenne anche nella seconda guerra mondiale.
  2. Le rivendicazioni storiche di Putin non rappresentano quindi il punto della questione; inutile addentrarsi in una discussione sul patriarcato di Kiev, sulla linea di confine tra russofoni e autoctoni (sostanzialmente ruteni), sulle infinite modifiche territoriali e etniche prodotte da secoli turbolenti caratterizzati da antiche ambizioni egemoniche della Russia ma anche dai tentativi ricorrenti di molti popoli slavi di staccarsi dalla “Grande Madre”. Se dovessimo rifarci alla storia apriremmo un contenzioso infinito che coinvolgerebbe anche il nostro Paese dove esistono minoranze di lingua tedesca (Alto Adige) e che è stato privato di territori certamente in prevalenza italofoni come l’Istria del Litorale, alcune città della Dalmazia, e, cedute alla Francia per ragioni e modalità diverse, la città di Nizza e la stessa Corsica (dove la lingua ufficiale si rifaceva alla lunga dominazione dei pisani e dei genovesi.). E’ tipico delle dittature appoggiare le proprie mire espansioniste e egemoniche a rivendicazioni etniche superate dalla storia (e infatti hanno rappresentato per Hitler e Mussolini il pretesto per scatenare la seconda guerra mondiale).
  3. Per queste ragioni che riguardano quasi tutti i paesi europei vennero sottoscritti anche dall’Unione Sovietica nel 1975 a Helsinki degli accordi che stabilivano l’inviolabilità dei confini stabiliti dopo la seconda guerra mondiale, giusti o sbagliati che fossero, e che i diritti delle minoranze etniche e linguistiche sarebbero stati tutelati mediante forme di autonomia da concordare (come noi abbiamo fatto per l’Alto Adige). Putin non lo nega ma sostiene che tali accordi sono stati violati dalla Nato in occasione del conflitto in Bosnia e col riconoscimento del Kosovo sottratto nel 2008 alla sovranità serba. Il che è vero ma senza dimenticare che la complessa vicenda dello smembramento della Jugoslavia generò una vera e propria guerra che durò anni e che non si è mai completamente risolta; e comunque è stata gestita col coinvolgimento delle Nazioni Unite.
  4. Altrettanto irrilevanti sono le motivazioni fondate sull’”accerchiamento” della NATO che non ci sarebbe mai stato se le popolazioni confinanti (e non soltanto i loro governi) non temessero le mire egemoniche della Russia, ben a ragione considerando le vicende storiche del secolo scorso quando i carri armati soffocarono brutalmente ogni tentativo di riforma. Per essere credibili nel sostenere che l’odierna Russia è cosa diversa dall’URSS bisognerebbe non ricalcarne l’autoritarismo e le mire egemoniche condensate mirabilmente nella teoria brezneviana della “sovranità limitata” dei paesi confinanti.
  5. Dopo l’annessione della Crimea (russofona) con gli accordi di Minsk la Russia si era impegnata a rispettare la sovranità dell’Ucraina, in cambio di un’autonomia speciale alle regioni russofone del Donbass che, per la verità, non è mai stata realizzata, anche perché in esse era subito scoppiata una guerra civile sostenuta dai russi.
  6. Putin ha ragione quando lamenta che gli equilibri in Europa dopo la fine della guerra fredda si sono modificati a favore degli occidentali; dimentica però di dire che tali cambiamenti sono stati condivisi e sollecitati dalle popolazioni dei paesi ex-satelliti e che, venuta meno la giustificazione ideologica staliniana, la sicurezza della Russia è largamente garantita dal suo “status” di potenza nucleare e da un apparato militare perfettamente in grado di impedire eventuali attacchi alla sua indipendenza, da qualunque parte provengano.
  7. Ciò di cui non parlano i sedicenti liberali in cerca di giustificazioni per l’azione russa – quasi si trattasse di questione secondaria – è la volontà delle popolazioni coinvolte in questo conflitto. Quanto contano le intenzioni e i propositi degli abitanti dei paesi confinanti, chiamati in realtà a scegliere non tanto tra gruppi etnici differenti ma tra modelli politici e sociali tra loro incompatibili quali sono oggi quello europeo occidentale e il sistema politico instaurato a Mosca? La sicurezza che chiede Putin riguarda la Russia o non piuttosto il suo regime autocratico e repressivo ?
  8. Oggi – piaccia o no a Putin – l’Europa liberal-democratica arriva fino al confine russo. E’ un diritto inalienabile degli ucraini decidere se farne parte, come a suo tempo hanno fatto liberamente lituani, lettoni, estoni e polacchi. Il timore di Putin probabilmente non è legato alla sicurezza militare (dove la sua superiorità sul campo è schiacciante) ma alle possibili contaminazioni che potrebbero minare il suo regime come avvenne quando si dissolse l’Unione Sovietica.
  9. La Russia deve fare oggi le scelte che non fece in passato. Se consolidare un modello di democrazia plebiscitaria guidata da un autocrate, secondo una tradizione collettivista di matrice orientale che tiene poco conto dei diritti individuali (a cominciare da quello di manifestare il proprio dissenso) oppure tornare a imboccare la strada della costruzione di uno stato di diritto compatibile con quello che caratterizza le democrazie liberali occidentali. La scelta autocratica avvicinerà la Russia alla Cina pseudo-comunista, l’altro percorso la riporterebbe in Europa con la quale diverrebbe possibile realizzare forme di cooperazione anche intense e risolvere in modo pacifico ogni conflittualità con i paesi adiacenti.

Infine due ultime considerazioni:

  1. i rapporti tra Europa e Russia sono sempre stati caratterizzati dalla consapevolezza della loro inevitabile interdipendenza; ma mentre la Russia ha bisogno dell’Europa per modernizzare le sue strutture economiche e sociali, non è vero il contrario. L’Europa ha bisogno della Russia soltanto per le risorse energetiche di cui dispone e tale dipendenza potrà essere sostituita da fonti alternative in un periodo relativamente breve, avendo gli stati europei risorse e tecnologie in grado di farlo. Gli esiti della seconda guerra mondiale hanno favorito la creazione di un’area atlantica euro-americana (con appendici importanti nel Pacifico) molto più omogenea nelle strutture economiche e sociali e nelle relazioni culturali di quanto non sia l’unità geografica dell’Europa “fino agli Urali” come un’ importante corrente di pensiero avrebbe desiderato (da Pietro il Grande a De Gaulle). Si tratta di una realtà irreversibile, soprattutto per noi liberali. Stalin (assai più di Lenin) aveva concepito il comunismo sovietico come un sistema chiuso e autoreferenziale da salvaguardare da qualsiasi contaminazione liberale, militarmente in grado di difendersi da qualsiasi attacco esterno. Dopo la breve parentesi di Krusciov (il quale invece immaginava una capacità competitiva del sistema sovietico in termini di sviluppo economico e sociale) l’URSS è tornata a chiudersi come in una fortezza assediata senza riuscire, malgrado il suo potenziale di risorse naturali, a costituire una reale alternativa al modello delle democrazie occidentali, fino a implodere anche simbolicamente col crollo del muro di Berlino. Il dilemma della Russia post-sovietica consiste appunto se tornare alla concezione staliniana della “fortezza assediata”, oppure aprire un dialogo con l’Occidente. Il quadro geo-politico però non è più quello in cui operava l’Unione Sovietica: oggi bisogna fare i conti con la Cina, il cui regime totalitario, diversamente da quello russo, è stato capace di inventare un modello economico espansivo in grado di contrastare il sistema di contenimento liberal-democratico che – analogamente a quanto fu fatto in Europa – gli Stati Uniti avevano messo in piedi in Oriente per arginare il comunismo cinese. Non c’è spazio per un terzo incomodo: il futuro della Russia si gioca su questa opzione, o con le democrazie europee (trovando un accomodamento con gli Stati Uniti) oppure con la Cina;
  2. i rapporti economici tra Italia e Russia sono sempre stati buoni anche durante la guerra fredda. Ma essi non possono riguardare soltanto valutazioni di convenienza economica, anche se la dipendenza energetica rende assai fragile la nostra posizione contrattuale; tolto l’approvvigionamento di gas il nostro interscambio commerciale è piuttosto modesto comparato a quello di altri paesi europei. La teoria business is business comporta necessariamente il mantenimento di relazioni commerciali con paesi autoritari e illiberali (come per esempio l’Egitto, la Cina, l’Iran, l’Arabia ecc.); ma la Russia affaccia in Europa e i problemi di sicurezza riguardano chi è militarmente debole (come noi) non certo una potenza nucleare come quella che Putin ha ereditato dall’Unione Sovietica.

Qualcuno ha proposto: Biden voli a Mosca, si sieda al lungo tavolo che Putin riserva agli ospiti che non vogliono sottoporsi a tamponi e gli proponga un trattato di non aggressione e la creazione di una fascia di sicurezza con i paesi confinanti (che comprenda però anche i territori russi adiacenti) con reciproci controlli. Sarebbe ragionevole se il problema fosse davvero quello della sicurezza russa, ma è davvero così? O piuttosto la vera intenzione di Putin è di ricostruire la “cortina di ferro”, ideologica prima che militare, con o senza il consenso delle popolazioni interessate?

Franco Chiarenza
27 febbraio 2022

Non è un appello sentimentale per tenere viva l’attenzione nei confronti delle uniche vere vittime della tragedia afghana, le donne, gli uomini e i bambini che da un giorno all’altro sono rimasti ingabbiati in un sistema politico e sociale diverso da quello in cui, tra attentati e difficoltà di ogni genere, erano comunque vissuti negli ultimi vent’anni. Una doccia scozzese che dura peraltro da settant’anni. Quando ci andai negli anni ’70 a Kabul regnava ancora Zahir Shah; il paese si presentava come una confusa aggregazione di tribù pressochè indipendenti ma nelle città principali funzionava un primo abbozzo di stato moderno con scuole, mercati, servizi che progressivamente tendevano a trasformare anche l’Afghanistan in una nazione moderatamente laica (come erano in quegli anni le altre del Medio Oriente).

Pochi anni dopo un colpo di stato portò alla costituzione di una repubblica socialista ispirata e sostenuta dall’Unione Sovietica; durò vent’anni finchè, incalzato dai guerriglieri armati e finanziati dagli Stati Uniti, anche il regime filo-comunista dovette rassegnarsi a soccombere senza essere riuscito a scalfire il potere medioevale delle diverse etnie locali. Al loro posto gli “studenti islamici” – gli ormai famosi talebani – che tutto sono fuorchè studenti nel senso che noi diamo alla parola, istituirono un regime fondamentalista religioso rimasto famoso per i suoi estremismi e il fanatismo dei governanti; i quali peraltro sarebbero stati lasciati in tranquilla pace (anche per la ridotta importanza geopolitica che ormai l’Afghanistan rivestiva) se non avessero commesso un errore gravissimo: ospitare e proteggere le basi del terrorismo islamico che minacciava la sicurezza del mondo occidentale.

Quando con gli attentati del 2001 e la distruzione delle torri gemelle di New York il terrorismo raggiunse il massimo livello sfidando a casa sua il paese simbolo del liberalismo occidentale, il governo americano reagì invadendo l’Afghanistan, eliminando i santuari terroristici e instaurando un sistema politico debolmente democratico; terzo tentativo di modernizzazione di un paese che ostinatamente, soprattutto fuori dalle maggiori città, sembrava rifiutare qualsiasi processo di cambiamento rispetto alle proprie tradizioni feudali. Puntualmente dopo vent’anni gli americani e i loro alleati (tra cui noi) hanno dovuto abbandonare Kabul al suo destino (né, malgrado le polemiche un po’ pretestuose, avrebbero potuto fare altro né in modo diverso, posto che un esercito e una classe dirigente coltivati per vent’anni si sono liquefatti in pochi giorni).

Il problema adesso è un altro: non dimenticare Kabul non significa abbandonare a sé stessi quegli afghani che avevano creduto nella protezione degli occidentali, entro i limiti in cui ciò sarà possibile e sperando che comunque qualche seme abbia attecchito; e soprattutto confidando nelle pressioni che potranno esercitare quei regimi autoritari confinanti (come Russia, Cina, Iran) interessati per ragioni geo-politiche a una trasformazione moderata del regime talebano.

Significa invece non dimenticare la lezione che arriva a noi occidentali dal fallimento dell’ennesimo tentativo di trapiantare i nostri valori in paesi che li rifiutano per ragioni culturali e religiose che a noi sembrano incomprensibili e indifendibili, scordandoci che per alcuni aspetti esse sono assai simili a quelle che vigevano anche in Europa prima che i grandi scismi del cristianesimo e il razionalismo illuministico consentissero la nascita degli stati liberali moderni ispirati al principio laico della separazione tra Chiesa e Stato (e quindi tra fede religiosa e diritti individuali). Senza tali evoluzioni non si sarebbe mai sviluppata l’egemonia occidentale (la quale, oltre che militare ed economica, è stata soprattutto culturale) ma siamo ormai talmente abituati alla velocità dei processi di trasformazione che dimentichiamo come i cambiamenti culturali siano graduali e debbano esserlo se si vuole che siano duraturi.

La questione riguarda soprattutto i paesi musulmani per diverse ragioni: per una resistenza relativamente maggiore di una religione strutturata intorno a un libro sacro che è un vero e proprio codice di comportamento, per la storica contrapposizione con il cristianesimo nel bacino del Mediterraneo (che riguarda essenzialmente noi europei), per il possesso e il controllo delle principali fonti energetiche (soprattutto gas e petrolio) di cui il Medio Oriente e l’Africa settentrionale sono ricchi.

Non vorrei essere frainteso: non dico che il mondo occidentale deve rinunciare ai propri valori adottando una lettura deviante del relativismo culturale, sostengo, al contrario, proprio perchè convinto della loro superiorità morale, che bisogna attendere pazientemente che essi maturino anche nei paesi di cultura islamica attraverso processi graduali come quelli che abbiamo attraversato noi. Certo, oggi ci sono strumenti che consentono accelerazioni fino a ieri non immaginabili, la globalizzazione contribuisce a ridurre gli spazi geopolitici e aumenta le contaminazioni culturali – soprattutto nei più giovani – e tutto ciò permetterà sviluppi più rapidi; internet sarà probabilmente ricordata in futuro per l’importanza che avrà rivestito in tale evoluzione, paragonabile a quella che la stampa ha avuto in Europa nel XVII secolo.

Ma per affondare le radici nelle coscienze e cambiare le tradizioni bisogna attendere passaggi generazionali ineludibili: le stesse diverse “chiese” islamiche comprendono ormai quanto sia inevitabile fare i conti con una concezione non teocratica dello stato, pretendendo però di controllare i processi di cambiamento non soltanto per renderli compatibili con le prescrizioni coraniche ma anche, più prosaicamente, per mantenere un potere di controllo sociale che garantisce privilegi politici ed economici che altrimenti perderebbero (come è avvenuto nel mondo cristiano). L’esempio più evidente è dato dall’Iran modellato da Khomeini come uno stato ibrido al cui interno sono stati mantenuti alcuni limitati spazi dialettici, il che però non ha impedito a un clero onnipresente e invasivo di controllare tutte le articolazioni politiche e sociali di quel paese, bloccando ogni tentativo di liberare le migliori energie che emergevano spontaneamente nelle università e nella società civile dall’opprimente tutela dell’islamismo scita (la più strutturata e potente tra le diverse confessioni musulmane).

Il quadro che ci proviene dal variegato mondo musulmano è quindi complesso e non si presta ad affrettate semplificazioni: prescindendo dall’Iran, si va dal confronto più diretto con le democrazie occidentali (mutuandone le prospettive politiche e culturali) come avviene nel Magreb (e soprattutto nel Marocco), passando attraverso regimi militari autoritari ostili al radicalismo islamico (Egitto, Giordania, Pakistan, ecc.), per finire in realtà ancora diverse come l’Indonesia (che contiene il maggior numero di musulmani pur mantenendo, almeno in linea di principio, un certo pluralismo religioso). Ho l’impressione, da diversi segnali, che per accelerare la transizione sarà decisiva la rivoluzione femminile che lentamente sta maturando anche nei paesi islamici. Lo sanno anche i talebani di ieri e di oggi e ciò spiega l’accanimento sulla subalternità femminile che li ossessiona.

Insomma, non tutto l’Islam somiglia ai talebani e sarebbe bene non fare di tutt’erbe un fascio. A Kabul l’Occidente ha perso una battaglia ma la guerra tra valori liberali e fondamentalismi di ogni colore continua: bisogna imparare ad attendere e nel frattempo aprire le porte, sollecitare il confronto, inchiodare gli estremisti alle loro contraddizioni, nella speranza che i nostri migliori alleati verranno dalle prossime generazioni musulmane.

 

Franco Chiarenza
19 ottobre 2021

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Forum della rivista Paradoxa.

Nel 1939 il pretesto per l’avvio della seconda guerra mondiale fu la questione di Danzica, il porto prussiano sul Baltico che il trattato di Versailles aveva assegnato alla Polonia per assicurarle uno sbocco al mare ma di cui, per ragioni storiche ed etniche, la Germania rivendicava la restituzione già prima dell’avvento del nazismo. “Morire per Danzica?” fu la domanda retorica che i pacifisti europei ponevano ai loro governi quando la Francia e la Gran Bretagna, alleate della Polonia, furono costrette a intervenire per arginare le spinte aggressive di Hitler. Per nostra fortuna l’interrogativo rimase senza risposta perché non era per Danzica che le democrazie occidentali mandavano i loro figli a morire ma per salvaguardare in futuro la loro libertà.
E’ passato molto tempo; oggi, sollecitati dalle immagini drammatiche che arrivano dall’Afghanistan, ci chiediamo se possediamo ancora motivazioni ideali talmente forti da giustificare il sacrificio della vita; senza di che – sostiene Galli della Loggia nell’articolo che ha dato il via a questo dibattito – la proposizione del nostro modello politico e sociale perde credibilità nei confronti di chi è ancora riluttante ad adottarlo.
La questione è apparentemente semplice. Viviamo in una società che si riconosce abbastanza stabilmente in alcuni valori: stato di diritto, parità di genere, rispetto delle minoranze, libertà di espressione, servizi pubblici (più o meno estesi ma comunque presenti), scambi commerciali aperti (seppure regolati da norme che tutelino la concorrenza), ecc. Siamo pure convinti (anche se lo diciamo sottovoce per non sembrare politicamente scorretti) che la civiltà che abbiamo costruito tra grandi difficoltà e contraddizioni in tremila anni, a partire dalla filosofia greca fino alla rete internet, sia superiore ad ogni altra, almeno dal punto di vista dei risultati raggiunti in termini di libertà individuali e tenore di vita. Da tale convinzione scaturisce come logica conseguenza che abbiamo il diritto (e forse il dovere) di trasferire anche ai popoli che non hanno percorso il nostro processo di sviluppo non soltanto le tecniche che ci hanno consentito di aumentare il nostro benessere ma anche i valori che l’hanno accompagnato. Si tratta di un riflesso condizionato ben noto agli studiosi del colonialismo unanimi nel convenire che questo aspetto di “promozione culturale” ha avuto grande importanza nella giustificazione morale dell’espansione europea in Africa e in Asia. Persino lo sfruttamento delle materie prime, che era la vera ragione di molte conquiste coloniali, veniva spiegato come un vantaggio reciproco per l’incapacità delle popolazioni indigene di valorizzarlo. D’altronde il fatto stesso che insieme alle occupazioni militari gli europei “esportassero” attraverso le “missioni” anche le loro religioni (cattoliche nelle colonie francesi, italiane, belghe e portoghesi, protestanti o anglicane in quelle inglesi o olandesi) dimostra l’importanza che veniva data all’aspetto culturale di un fenomeno che, nel bene o nel male, ha comunque cambiato la storia di grandi territori che erano rimasti esclusi dal nostro modello di civilizzazione.

Fino a che punto?
Dopo la seconda e la terza (mancata) guerra mondiale è cambiato tutto ma negli Stati Uniti, usciti vincenti dal confronto, è rimasta molto radicata l’idea che i cardini su cui si fonda la nostra civiltà abbiano una validità universale e pertanto sia giusto favorirne l’espansione ovunque possibile. I risultati sono stati ambivalenti: India, Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno percorso, seppure con le necessarie modifiche, la strada maestra delle democrazie liberali; altri paesi hanno creato sistemi ibridi dove la preesistente cultura tribale (prevalentemente musulmana) si è adattata ai modelli occidentali consentendo in qualche misura un certo pluralismo politico e religioso (come in Pakistan e in Indonesia). Insomma si può dire che in molti stati sorti dalle ceneri della colonizzazione bene o male sono stati avviati processi di modernizzazione che, anche quando non hanno prodotto sistemi liberal-democratici, rientrano comunque in un processo di sviluppo compatibile coi modelli occidentali. La stessa Cina – come è ben noto – si dibatte tra l’accettazione dell’economia capitalistica e il rifiuto dei suoi presupposti liberali che trovano nello stato di diritto la loro espressione; una contraddizione che sta emergendo con la crescita del potere personale di Xi Jinpiang e l’accantonamento della teoria della convivenza di modelli politici e sociali diversi all’interno di un unico stato comunista.
Le maggiori resistenze alla modernizzazione si sono manifestate in Medio Oriente attraverso il fondamentalismo islamico che contesta un principio essenziale del nostro modello comunitario, la distinzione tra Stato e religione (oggi ampiamente riconosciuto ma al quale anche l’Occidente è pervenuto attraverso lotte e conflitti durati tre secoli). Il fondamentalismo, basato su una lettura integralista del Corano (peraltro contestata da parti consistenti dell’Islam), è riuscito a imporsi in due paesi molto importanti (per popolazione, risorse energetiche, posizione geografica), l’Iran e l’Arabia Saudita. Nel primo il clero scita ha creato uno stato islamico che, pur tentando in una certa misura di conciliare limitate forme di democrazia con le prescrizioni coraniche, di fatto resta una teocrazia appena mascherata da un pallido pluralismo, nel secondo soltanto da qualche anno la dinastia regnante sta cercando di uscire dalla frammentazione tribale e accantonare la fede wahabita su cui ha fondato il suo potere.
In altre nazioni (prevalentemente arabe) il fondamentalismo religioso ha tentato a più riprese di conquistare il potere trovando soltanto nell’esercito un ostacolo insuperabile (per esempio in Egitto, Algeria, Giordania). Spesso però la tutela militare si esprime attraverso regimi autoritari che certamente non corrispondono ai modelli democratici occidentali; e tuttavia, piaccia o no (e ai puristi del politically correct non piace) le ridotte laiche in campo musulmano sono sempre state presidiate dalle dittature militari e dove esse sono venute meno si è immediatamente riaffacciato l’estremismo islamico. Già dagli anni ’50 i regimi militari hanno comunque consentito (anche per effetto della diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione) una penetrazione della cultura occidentale che ha prodotto intermediazioni sociali che contestano l’integralismo islamico, come avvenne per il “socialismo arabo” promosso da Nasser in Egitto. Le stesse “primavere arabe” del 2010, seppure fallite nel tentativo di creare forme di democrazia compatibili con i nostri valori, hanno lasciato un’eredità laica di sensibilità ai diritti umani di cui ogni successivo governo ha dovuto tenere conto, soprattutto nei grandi centri urbani dove le nuove generazioni riescono in certa misura a imporre cambiamenti culturali significativi.

Che fare?
Fin qui, si potrebbe dire, nulla di nuovo che già non si sapesse. Dove sta il problema messo in luce con tanta preoccupazione da Galli della Loggia? Nel fatto che con l’abbandono dell’Afghanistan l’Occidente scopre la sua fragilità e, finalmente, si interroga sulle vere cause che la determinano e comincia a temere della solidità del suo modello e soprattutto della sua capacità di difenderlo senza ricorrere a sua volta a fondamentalismi intolleranti contrapposti (come vorrebbero alcuni “neo cristiani” che brandiscono il crocefisso come una clava).
Galli della Loggia ci ricorda che le grandi idealità per essere credibili vanno difese mettendo in gioco la vita; e, in effetti, le grandi religioni monoteiste si sono affermate anche perchè la loro narrazione dell’Aldilà facilitava il sacrificio di esistenze spesso miserabili e ingenue. Inutile qui ricordare i martirologi cristiani; anche i kamikaze musulmani vengono chiamati martiri.
I processi di secolarizzazione in Occidente hanno fortemente attenuato tale narrazione e la vita, unica e inimitabile, è tornata al centro dell’attenzione, talvolta anche in forme quasi ossessive per prolungarne la durata oltre il limite dell’autocoscienza. La vita è oggi da tutti considerata un valore che non può essere messo in gioco neanche per difendere idealità forti come ancora furono quelle che hanno animato le due guerre mondiali. Gli americani che morivano in Europa per difenderla dal nazifascismo erano convinti di sacrificarsi per un ideale alto e condiviso, quello della libertà.

Dove si colloca dunque l’asticella oltre la quale val la pena morire?
La risposta tentata dagli americani quando il problema ha cominciato ad evidenziarsi nella guerra del Vietnam (che fu vinta a Washington più che a Saigon quando gli studenti americani, sostenuti da una parte consistente dell’opinione pubblica, rifiutarono di andare a combattere) è stata di carattere tecnologico. Oggi la guerra si può fare senza sacrificare vite umane attraverso nuovi armamenti sempre più sofisticati, e dove fosse assolutamente necessario tramite l’impiego di mercenari ben addestrati e che hanno messo in conto (con laute ricompense) il rischio di perdere la vita.
Ma le contraddizioni di questa soluzione sono subito apparse evidenti per i danni collaterali che provocava nelle popolazioni civili, ma soprattutto quando il “nemico” si presentava allo scontro con motivazioni ideali e religiose talmente forti da non temere il sacrificio della vita; quando cioè i nemici sono i kamikaze, i terroristi, quei poveri disgraziati che si immolano per la loro fede ignorando che difendono semplicemente gli interessi e i privilegi dei loro sceicchi (i cui figli non mi risulta si siano mai fatti saltare in aria).
Come può difendersi un Occidente che ha mandato in soffitta con la leva obbligatoria gli eserciti popolari, passaggio obbligato in passato per costruire un’identità nazionale condivisa? Anche noi liberali salutammo come doveroso il superamento della “ferma”: anni buttati, non servono a nulla, bisogna immettere nella vita lavorativa i figli più presto possibile. E’ stata la scelta giusta per loro e per il Paese?
Domande inutili: tornare indietro è impossibile. Altre risposte vanno quindi cercate, ma quali?

Apriamo una seria riflessione possibilmente esente da ipocrisie e strumentalizzazioni. Al fanatismo di minoranze irresponsabili si risponde con la diffusione delle conoscenze che i nuovi mezzi di comunicazione, utilizzati correttamente, consentono coma mai in precedenza. Tempi lunghi; e nel frattempo?

Franco Chiarenza
05 settembre 2021

TIZIANA FABI / AFP

La “Dichiarazione sull’avvenire dell’Europa” sottoscritta pochi giorni fa da sedici partiti nazionalisti di destra (tra cui la Lega e Fratelli d’Italia) è stata analizzata da Sergio Fabbrini in un interessante articolo sul “Sole 24 ore. L’autore ha rilevato come elementi positivi (e certamente lo sono) il fatto che per la prima volta partiti nati contestando l’integrazione europea ammettano la necessità di un’unione europea e di una sua collocazione nei valori occidentali euro-americani, il che non era scontato, considerando certi ammiccamenti nei confronti di Putin. Ed è quindi certamente importante e positivo che la critica alle istituzioni europee si muova nell’ambito di un riconoscimento della sua esistenza. Ma gli aspetti positivi della Dichiarazione si fermano qui.

Il punto nodale di questa sorta di “patto” tra nazionalisti è la supremazia delle sovranità nazionali su ogni altra considerazione e, di conseguenza, il rifiuto di qualsiasi cessione di poteri e competenze che non siano revocabili; il che di fatto significa respingere qualunque ipotesi di federazione, comunque configurata. Il corollario di tale impostazione ha un inequivocabile contenuto ideologico: “proteggere la cultura e la storia delle nazioni europee, il rispetto dell’eredità giudeo-cristiana dell’Europa dei valori comuni che uniscono le nazioni europee”. Il che significa in pratica non riconoscere altri principi di riferimento che non derivino dalla tradizione “giudaico-cristiana”, con tanti saluti ai diritti umani, alla laicità dello Stato e alla tutela del pluralismo. Una sorta di riedizione della “Santa Alleanza” del 1815 in funzione di sostegno all’autoritarismo; non a caso i modelli a cui i partiti sovranisti guardano sono quelli che si sono insediati in Polonia e in Ungheria e che sono ormai in aperto conflitto con l’Unione Europea. Anche Orban e Kaczynski però devono affrontare sulla questione europea ostacoli non indifferenti: all’interno per il prevalere di posizioni europeiste e liberal-democratiche nelle grandi città (non a caso sia Varsavia che Budapest hanno amministrazioni “liberal”), nei rapporti con l’Unione che si sono irrigiditi e potrebbero provocare contraccolpi economici pericolosi per la stabilità politica dei loro regimi, per quanto puntellata da una gestione autoritaria del potere.
Quella espressa dai movimenti nazionalisti è oggi una posizione minoritaria in Europa (in quanto non condivisa da popolari, socialisti, liberali e verdi) che però non va sottovalutata. Essa potrebbe infatti saldarsi con una diversa rivendicazione del primato della sovranità nazionale, molto diffusa in Scandinavia, per la quale la salvaguardia dei diritti umani e le protezioni sociali sarebbero meglio garantiti dal mantenimento di una piena autonomia degli stati nazionali, rieccheggiando in qualche modo alcune delle ragioni che in Inghilterra hanno fatto prevalere la Brexit.

In tale situazione, mentre nel resto del mondo si stanno ridefinendo i rapporti di forza tra Stati Uniti, Russia e Cina, l’Europa dei “piccoli passi” appare velleitaria e impotente, costretta ancora una volta a rifugiarsi sotto le ali protettive di Washington che, con la presidenza Biden, le ha aperte fin troppo generosamente.
Da questa situazione di dipendenza obbligata non si esce con le parole e i proclami, occorre fare un salto coraggioso; chi lo vuole compiere ben venga, prima o poi l’intendence suivra. Comunque vadano le elezioni in Germania a settembre e in Francia nella primavera prossima, toccherà ai vecchi fondatori della Comunità Europea (Francia, Germania, Benelux e Italia), integrati dai paesi iberici e da altri che lo vorranno, segnare modi e tempi di una ripartenza che senza ambiguità metta insieme le politiche estere e militari completando l’unione economica di fatto già operante tra i paesi che hanno adottato la moneta comune. Non c’è più tempo da perdere. L’asta per effettuare il salto con successo potrebbe essere rappresentata in questo momento dall’Italia di Mario Draghi; Salvini però ci faccia capire da che parte sta, se con la dichiarazione dei sovranisti o con un’Europa che parli all’esterno con una voce sola. E prima di rispondere si consulti con Giorgetti e Zaia.

Franco Chiarenza
20 luglio 2021

Con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca il “grande gioco” planetario ha assunto un nuovo aspetto. Alla strategia ambigua di Trump fondata sulla supremazia degli interessi americani declinata soprattutto in termini di vantaggi a breve termine (non propriamente isolazionista perché non escludeva interventi e alleanze bilaterali), è subentrata una diversa visione degli equilibri mondiali che in certa misura si rifà alle concezioni di Obama (del quale – non si dimentichi – Biden è stato vice-presidente per otto anni).
Di questo cambiamento hanno dovuto prendere atto i leader delle principali potenze globali, in particolare la Russia e la Cina che avevano “tarato” la loro politica estera sulla possibilità di trattare con gli Stati Uniti in termini di scambi ed equilibri puramente commerciali. Ciò che ha colto di contropiede è stata la rapidità della svolta, che ha contraddetto le previsioni di tutti i commentatori politici i quali avevano immaginato una sostanziale continuità di politica estera almeno per i primi mesi.
Non è stato così: la nuova presidenza ha voluto subito mettere alla prova i grandi players mondiali rovesciando i tavoli delle intese di basso profilo (fondate su scambi bilanciati in una dimensione prevalentemente  bilaterale) e riprendendo il concetto della superiorità morale delle democrazie liberali come bussola obbligata di un nuovo multilateralismo entro il quale ricondurre tutte le diversità nazionali e culturali: una strategia che un po’ forzatamente definirei neo-kennediana. Il messaggio è chiaro: Mosca e Pechino dovranno misurarsi con obiettivi che vanno ben oltre la dimensione economica. La sfida torna ad essere ideologica, un terreno su cui i democratici americani si trovano più a loro agio.

Biden
Cosa sta facendo in sostanza Biden (affiancato dal segretario di Stato Blinken)? Sta cancellando l’immagine trumpiana di una potenza attenta soltanto ai propri interessi economici e quindi disponibile a ignorare ogni altra considerazione di carattere politico e ideologico, per sostituirla con quella vecchia e collaudata di paese guida non soltanto per la sua superiorità economica e militare ma soprattutto simbolo di una concezione neo-liberale fondata sui diritti umani fondamentali, naturalmente aggiornati alle sensibilità delle nuove generazioni (parità di genere, ambientalismo, rifiuto delle discriminazioni etniche). Puro ideologismo strumentale, rozzo tentativo ormai logoro di contrabbandare gli interessi per valori universali? Forse; ma anche consapevolezza che i veri interessi americani a lungo termine passano attraverso la proposizione di un modello più rispondente alle esigenze del futuro dell’umanità, vincendo la sfida sul piano dei valori oltre che dei rapporti di forza, come è avvenuto nel secolo passato prima nei confronti del totalitarismo nazifascista poi di quello comunista sovietico. Una contrapposizione che in realtà non è mai venuta meno anche dopo il crollo del muro di Berlino per la scarsa affidabilità del regime russo che era succeduto a quello comunista e, per quanto riguarda la Cina, dopo la tragedia di Tien An Men che segnava limiti invalicabili alla liberalizzazione del sistema maoista.
Perché questa strategia di Biden abbia successo occorrono però due condizioni: la prima è la credibilità di chi la propone che si misura sulla capacità del nuovo gruppo dirigente di rassicurare il ceto medio americano della sostenibilità di tale politica anche nei tempi brevi; ci sono soltanto due anni di tempo perché le elezioni di metà mandato nel 2022 potrebbero cambiare le maggioranze alla Camera e al Senato. La seconda è di produrre in tempi brevi alcuni effetti di politica estera non soltanto confermando le tradizionali alleanze (come la NATO) e i rapporti con le nazioni amiche in Oriente (a cominciare dal Giappone e dalla Corea del Sud) ma anche rinnovandone i principi ispiratori, superando la dimensione del contenimento politico e militare nei confronti della Russia e della Cina e approfondendone la caratterizzazione ideologica, anche a costo di mettere in evidenza certe palesi contraddizioni di alcuni paesi come la Turchia di Erdogan, la Polonia di Kazinski e l’Ungheria di Orban che nell’assoluta indifferenza di Trump hanno continuato a scivolare verso una trasformazione autoritaria e illiberale delle loro nazioni in aperto contrasto con i valori che furono alla base dell’alleanza atlantica (e soprattutto con quelli che dovrebbero caratterizzarla in futuro).

Putin
Tutti gli osservatori diplomatici si sono chiesti quanto ci fosse di incidentale o di premeditato nell’accusa lanciata da Biden contro Putin di essere “un assassino”. Resta il fatto che nulla ha fatto l’amministrazione americana per ridurre la portata dell’incidente mentre sorprendente è stata la reazione molto contenuta del presidente russo che si è limitato al “richiamo” dell’ambasciatore a Washington mentre nella replica veniva inserito l’invito a un incontro tra i due presidenti. Putin si trova evidentemente in imbarazzo di fronte al rovesciamento della politica estera americana: il ritorno in primo piano della questione ideologica, in un momento in cui la credibilità democratica del presidente russo è seriamente messa in discussione dal caso Navalny mentre il conflitto con l’Ucraina sembra lontano da una composizione, non lascia molti margini al governo di Mosca. Per di più la pressione americana rischia di destabilizzare i rapporti tra Russia e Germania (gasdotto Nordstream) e crea inquietudine nei paesi scandinavi (facendo riaffacciare la possibilità di un’entrata della Svezia nella NATO). Anche in Medio Oriente e in Libia il ritorno sulla scena degli Stati Uniti cambia la situazione rimettendo in difficoltà il regime siriano mentre mutano radicalmente i rapporti con l’Arabia Saudita, segnata dall’incredibile scandalo dell’omicidio dell’oppositore Kashoggi.
Naturalmente Putin sa bene che le vere difficoltà per Biden vengono da Israele, abituato a ricevere da Trump un appoggio incondizionato, e dai rapporti con l’Iran da cui dipende in larga misura la stabilizzazione di tutta l’area, e in questo nuovo scenario la Russia ha ancora molte carte da giocare. E’ probabile che sarà proprio questo il terreno d’incontro per una parziale intesa tra le due grandi potenze quando ricominceranno a parlarsi.

Xi Jinping
La Cina non è abituata ai cambiamenti rapidi che talvolta caratterizzano le democrazie occidentali. I suoi rapporti con gli Stati Uniti erano già deteriorati nell’ultimo biennio della presidenza di Trump ma probabilmente Xi contava su una sostanziale continuità che avrebbe consentito di trovare un soddisfacente compromesso bilaterale fondato su un maggiore equilibrio della bilancia commerciale. L’indifferenza di Trump per le intese multilaterali aveva consentito al governo cinese di mettere a segno un ottimo colpo nel 2020 con l’accordo di libero scambio tra quindici paesi orientali, ivi compresi alcuni tradizionalmente legati alle alleanze occidentali come il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda. La nuova politica americana inaugurata nel vertice cino-americano di Anchorage in Alaska poche settimane fa ha mostrato chiaramente l’intenzione di Biden di confrontarsi a muso duro, ma ciò che preoccupa maggiormente la dirigenza comunista di Pechino è il capovolgimento dei parametri del confronto con gli Stati Uniti decisi a ripercorrere la strada della contrapposizione ideologica, facendo tornare al centro della scena mondiale i diritti umani violati a Hong Kong, nel Xinjiang e soprattutto rimettendo in discussione lo “status” di Taiwan, che la Cina continua a considerare parte integrante del suo territorio. Un ritorno al passato, reso ancor più drammatico dalla repressione militare in Birmania (notoriamente legata alla Cina), che inquieta i cinesi i quali ovviamente avrebbero preferito tenere separate le ragioni della finanza e dell’economia da quelle politiche e ideologiche. La possibilità che si ricostituisca quella catena di contenimento della Cina che partendo dalla Corea arriva all’Indonesia, non può che preoccupare il regime comunista di Pechino. Naturalmente, pure in questo caso, Biden andrà incontro a molte difficoltà anche perchè – proprio per il fatto di essere politicamente condizionato – il portafoglio cinese è molto più generoso di quello americano. Ma in ogni caso i giochi sono di nuovo aperti e la nuova dirigenza di Washington tenta di stabilirne le nuove regole: che, per diversi motivi, non sono quelle che Putin e Xi avrebbero preferito.

E l’Europa?
Chiamata, non risponde, come già lamentava Kissinger negli anni ’70. E Biden pazientemente la richiama alla coerenza delle alleanze mentre si accinge a sottolinearne tutta la fragilità concedendo qualche migliaia di vaccini anti-Covid non utilizzati in America e promettendo la riapertura dei mercati che Trump aveva parzialmente chiusi nell’illusione di riequilibrare la bilancia commerciale tra le due sponde dell’Atlantico. Perché Biden e Janet Yellen (responsabile della politica economica nella nuova amministrazione) sanno bene che il deficit americano è un prezzo politico che, entro certi limiti, gli Stati Uniti devono accettare per mantenere stabile l’Europa, in attesa che l’Europa faccia da sé. Anche in questo caso back to the past!

Franco Chiarenza
28 marzo 2021

 

Presi dalle inevitabili usanze natalizie e dalle restrizioni da Covid che le hanno rese un po’ più originali del solito non ci siamo quasi accorti dell’unica cosa importante di questo fine d’anno: raggiunto in “zona Cesarini” un accordo, dal 1 gennaio la Gran Bretagna non farà più parte dell’Unione Europea. Trovare un’intesa in tempo utile sembrava ormai impossibile, e il no deal (cioè l’uscita senza accordo) pareva inevitabile. Poi, dopo il volo improvviso di Johnson a Bruxelles, il barometro ha volto al bello e la convenzione che consentirà di mantenere un’area di libero scambio tra tutti i 27 paesi è stato firmato. La domanda è: come mai? E quella successiva: chi ci ha guadagnato (e chi ci rimette)?

Accordo necessario
La prima risposta è relativamente semplice: un no deal avrebbe messo in forti difficoltà Johnson, soprattutto nei tempi brevi. Troppe circostanze giocavano contro di lui: il timore di un’improvvisa impennata dei prezzi di alcuni generi di prima necessità importati dal continente (erano già cominciati gli accaparramenti, migliaia di autocarri sostavano a Calais per raggiungere l’Inghilterra prima che i dazi si facessero sentire), l’allarme della finanza che continuava a traslocare dalla City di Londra in cerca di siti più accoglienti, le nuove fibrillazioni indipendentiste della Scozia, la stessa elezione di Biden che faceva venir meno l’asse preferenziale (più presunto che vero) con Trump. In tali circostanze il volo di Johnson tra le braccia di Ursula von der Leyen sembrava quasi una disperata richiesta di aiuto.
Tuttavia la risposta alla seconda domanda è in netta contraddizione con la prima perchè, almeno in apparenza, chi esce vincente dal compromesso è proprio Johnson, il quale, non a caso, ha subito lanciato messaggi trionfalistici.
Le questioni ancora sul tappeto dopo un anno di trattative erano infatti tre: la frontiera irlandese, i diritti di pesca nel mare del nord e le regole del libero scambio per evitare che di fatto gli operatori britannici potessero fruire di un vantaggio non concorrenziale (come un fisco più favorevole, eventuali aiuti di Stato o normative meno onerose in campo ambientale, ecc.). Di questi problemi il più importante è il terzo (non certo la pesca che interessa una percentuale trascurabile degli scambi) e la soluzione trovata che esclude la competenza giurisdizionale dell’UE rimettendo eventuali (inevitabili) controversie a un indefinito “arbitrato internazionale” sembra accogliere le richieste britanniche. Johnson sembra quindi avere ottenuto quanto voleva: il mantenimento di una zona di libero scambio (che conviene al Regno Unito, importatore netto) senza regole vincolanti per gli imprenditori britannici che non siano passate da Westminster. C’è di più: un accordo così favorevole mette in crisi il progetto secessionista degli indipendentisti scozzesi per la difficoltà di dimostrare la convenienza di tornare a far parte dell’Unione. Perchè dunque tanta improvvisa accondiscendenza da parte della von der Leyen (e, dietro di lei, dell’asse Macron – Merkel) nei confronti del governo di Londra?
L’ovvia risposta che un’intesa qualsivoglia conviene a tutti i partner non spiega perchè se ciò è vero non si sia chiusa l’intesa molto prima. Resta da capire se qualcosa di nuovo è intervenuto e in tal caso di che si tratti.

Europa a due velocità
Forse la vera risposta arriverà nel corso del prossimo anno e consistere nel rilancio di un’Europa a due velocità: da una parte una zona di libero scambio molto ampia (che potrebbe comprendere anche paesi che oggi non fanno parte dell’Unione come la Norvegia, la Svizzera, l’Ucraina, la Serbia, l’Albania) con istituzioni in grado di regolarne gli scambi commerciali, dall’altra una più solida confederazione politica e militare, dotata di una moneta comune e di una autentica costituzione fondata sul riconoscimento delle regole dello stato di diritto (tale quindi da spingere paesi esplicitamente illiberali e intolleranti come la Polonia e l’Ungheria a decidere definitivamente da che parte stare). Se di questo si tratta si capisce meglio perchè anche un accordo apparentemente vantaggioso per il Regno Unito può essere accettato dall’Unione Europea. Tanto più se – come ci si augura – l’amministrazione Biden rilancerà il multilateralismo democratico non soltanto rafforzando la NATO ma anche costruendo nuovi rapporti di alleanza con i paesi che in Occidente e in Oriente si riconoscono nei principi dello stato liberale e che non sono soltanto quelli legati da tradizioni di origine anglosassone (come nel caso di Canadà, Australia, Nuova Zelanda) ma anche altri che hanno ormai da molto tempo inserito quei valori nelle proprie culture politiche e sociali.

 

Franco Chiarenza
28 dicembre 2020

La vittoria di Biden sembra, a tutti gli effetti, la rivincita di Obama. Non a caso l’ex-presidente aveva esercitato tutta la sua influenza per fare prevalere nelle primarie la candidatura di Biden, suo vice presidente, nella sfida epocale contro Trump; una sfida tanto più difficile in quanto un presidente uscente è sempre avvantaggiato nel rinnovo del mandato e, per di più, per ragioni complesse che tutti gli analisti hanno abbondantemente illustrato, in un contesto di ripresa economica solo in parte compromesso dall’epidemia Covid 19.
Certo, immaginare la presidenza di Biden come una semplice prosecuzione di quella di Obama, mettendo tra parentesi i quattro anni di Trump, è una semplificazione provocatoria che non va presa troppo sul serio: la storia non conosce parentesi e nessun presidente ricalca fedelmente le orme dei propri predecessori, anche quando appartengono allo stesso partito. Ma non vi è dubbio che le loro radici culturali e politiche siano molto convergenti e che dietro la figura del nuovo presidente molti elettori hanno individuato la proiezione carismatica di Obama. Le prossime scelte del nuovo presidente nella formazione del governo mostreranno in che misura ciò sia vero ma sin d’ora i nomi che circolano sembrano in gran parte confermare un orientamento di sostanziale continuità con l’amministrazione Obama, anche se l’inversione di rotta rispetto alle strategie di Trump non sarà così netta come molti osservatori europei ritengono, non soltanto perché i repubblicani mantengono posizioni predominanti in molti stati e potrebbero confermarsi in maggioranza nel Senato, ma anche per ragioni obiettive che spingeranno il nuovo presidente a seguire in parte le orme del suo predecessore soprattutto sul punto cruciale dei rapporti con la Cina. Ci sarà tempo per analizzare i nodi più importanti che Biden dovrà sciogliere in politica estera (oltre la Cina, la NATO, l’ Europa, l’Afganistan, il Medio Oriente) e in politica interna (riequilibrio fiscale, politica energetica, conflitti etnici, ecc.). Per ora cerchiamo di capire cosa hanno significato per la tenuta della democrazia americana queste elezioni che hanno visto la più elevata partecipazione di sempre.

La frattura

Si è sempre detto che gli Stati Uniti rappresentano un modello di democrazia liberale non soltanto per averne recepito i principi fondamentali riassunti nel Bill of Rights ma anche per essere riusciti a contenere la necessaria dialettica politica e sociale dentro i parametri invalicabili di valori condivisi. Da questa diffusa convinzione discendeva la tolleranza per comportamenti non sempre coerenti con i presupposti ma comunque ispirati a un fair play istituzionale che non era un orpello formale ma il contenitore obbligato delle mediazioni che un sistema politico fondato sull’equilibrio dei poteri rendeva necessarie. La presidenza di Trump è stata vissuta con preoccupazione (non solamente nell’ establishment tendenzialmente democratico), non tanto per il rifiuto provocatorio dei codici del politically correct quanto per essere percepita come un tentativo di rovesciamento dei principi basilari su cui l’America aveva – soprattutto dopo la seconda guerra mondiale – fondato la propria immagine: democrazia partecipata, economia di mercato regolata, multilateralismo per governare la globalizzazione. Il rozzo sovranismo di Trump prefigurava un modello opposto: rifiuto di qualsiasi vincolo internazionale, trasformazione della democrazia partecipata in democrazia plebiscitaria, soppressione di ogni regolamentazione del mercato e ritorno a un capitalismo aggressivo. Intendiamoci: queste due Americhe sono sempre esistite e, quando non hanno trovato un ragionevole terreno di incontro, hanno mostrato anche in passato quanto aspra possa essere la loro conflittualità (basti ricordare in proposito le tensioni istituzionali durante le presidenze di F.D. Roosevelt nella prima metà del secolo scorso). Tuttavia gli apparati dei due partiti maggiori sono sempre riusciti a trovare un accettabile compromesso garantito da un’alternanza che rendeva conveniente a entrambe le parti rispettare il fair play istituzionale.

La tenuta
Con la presidenza di Trump il compromesso è saltato e il tycoon ha cercato di rovesciare il tavolo delle regole trasformando la dialettica politica in una guerra a oltranza, in modo da produrre ferite profonde negli assetti istituzionali. Ci è riuscito? Per ora sembra di no; i suoi tentativi di condizionare la giurisdizione (attraverso il controllo della Corte Suprema), le forze armate, i mass media, le prerogative degli Stati, non sono andati in porto e la macchina istituzionale ha rapidamente archiviato i suoi eccessi come bizzarrie da non prendere troppo sul serio. Malgrado tutto quindi, nonostante quattro anni dedicati a delegittimare il check and balance americano e a trasformarlo in una lotta senza quartiere resa aspra da fanatismi irragionevoli, il sistema ha retto e l’alternanza ha potuto esprimersi salvaguardando l’essenza della democrazia liberale.
La mobilitazione elettorale senza precedenti ha dimostrato che gli americani, o gran parte di essi, hanno capito che la posta in gioco questa volta implicava la credibilità del modello americano e che le motivazioni economiche (ragione principale in passato degli orientamenti elettorali) dovevano segnare il passo a fronte di ragioni che coinvolgevano la natura stessa dello stato di diritto. Anche quella parte di classe media bianca che, secondo molti analisti, aveva riversato le sue frustrazioni sul voto a Trump quattro anni fa, si è resa conto che, al netto di alcuni vantaggi che certamente ne ha ricavato, una presidenza così violentemente antagonista rischiava di trasformarsi in un boomerang incontrollabile. La mancanza di sensibilità istituzionale di Trump, dimostrata anche in occasione della sua sconfitta elettorale, fa parte del gioco ma non costituisce la parte più preoccupante della situazione.

E adesso?
Anche se il sistema istituzionale ha retto altro discorso è quello che attiene alla sostanza delle politiche di Trump, sulle quali il consenso popolare è evidentemente rimasto molto elevato. Ed è questo il punto: confermata la “tenuta” degli assetti istituzionali (almeno per ora) non è tempo di facili illusioni: Trump non è la causa della frattura americana ma la conseguenza di una strategia politica inadeguata che il partito democratico (e i repubblicani moderati) hanno portato avanti in questi anni. Detto in altri termini: forse Trump è finito ma il trumpismo è vivo e vegeto e trascurarne la rilevanza sarebbe un ennesimo errore. Per questo, ferme restando le affinità politiche e culturali, la presidenza di Biden non potrà essere una semplice prosecuzione di quanto le presidenze di Obama avevano lasciato in sospeso.

Franco Chiarenza
16 novembre 2020