Pasqua di resurrezione per i democratici
In via del Nazareno è pausa di riflessione. Quanto Renzi condiziona ancora il partito? Quanto spazio esiste per soluzioni realmente alternative, e in quale direzione? Quale dovrà essere il rapporto con il movimento Cinque Stelle? In breve: quale dovrà essere la proposta politica che sarà in grado di restituire al partito democratico la sua centralità?
Quasi tutti i commentatori che ho letto o sentito partono da un presupposto: molti voti (circa la metà) che avevano portato il partito democratico al 40% nelle ultime elezioni europee sono passati in blocco ai Cinque Stelle. Per recuperarli bisogna tornare alle origini “socialiste” abbandonando la deriva moderata imboccata disastrosamente da Renzi. Io ritengo questa analisi sbagliata.
Il successo di Renzi era dovuto proprio al fatto che i ceti moderati, orfani di un partito di riferimento che non fosse Forza Italia (ormai destrutturata e delegittimata da una leadership incapace di rinnovarsi), si erano accostati con crescente interesse al programma neo-liberale della Leopolda. Quelli che il PD ha perso non sono voti “di sinistra” ma, al contrario, voti “di centro”. Resta da capire perché una quota così rilevante di elettorato tendenzialmente centrista sia emigrata da via del Nazareno al più confortevole hotel Forum dove Grillo ha stabilito il suo quartier generale.
Che Renzi abbia compiuto degli errori è ormai quasi un luogo comune. Ma sarebbe più interessante capire quali abbiano prodotto un’emorragia così consistente.
Il job’s act? Non credo. Tutti gli imprenditori sono d’accordo che si è trattato di una buona legge, forse troppo timida ma che comunque ha conseguito alcuni risultati positivi. La mobilitazione sindacale contro alcune parti di quella legge è stata parziale (la CISL e la UIL non si sono accodate alla CGIL) e non tale da incidere sul consenso politico dei ceti medi.
Gli 80 euro? Non credo. Sarebbe stato preferibile concentrare le risorse disponibili nella riduzione del cuneo fiscale che costituisce la ragione principale dei mancati investimenti e delle delocalizzazioni, ma resta un modesto esercizio di demagogia che sarebbe stato meglio evitare ma certo non ha influito sulla decrescita del consenso. Anzi.
La riforma della scuola? Non credo. Ha aperto finalmente il vaso di Pandora di una situazione che marciva da anni e, malgrado le sue imperfezioni, ha regolarizzato migliaia di insegnanti. E’ stata ostracizzata dall’opposizione fanatica dei sindacati che per la prima volta hanno visto vacillare la loro egemonia incontrastata nel mondo della scuola; ma non credo che abbia influito più di tanto sul risultato elettorale, anche per la proverbiale indifferenza che gli italiani hanno sempre purtroppo manifestato per i problemi della scuola.
La riforma costituzionale? Certamente sì. Non per i suoi contenuti (in taluni aspetti molto discutibili, ma è materia di esperti la cui influenza elettorale è pari a zero) ma per il metodo che Renzi ha utilizzato. Il patto del Nazareno aveva una sua valenza ed era perfettamente in linea con la strategia neo-centrista del gruppo dirigente del PD se veniva portato fino in fondo, ivi compreso un accordo condiviso per la presidenza della Repubblica. L’intesa poteva essere ragionevolmente estesa ai Cinque Stelle con qualche concessione sulla legge elettorale e su alcuni temi di moralità politica che quel movimento portava avanti (e che erano apprezzati da quote crescenti dell’opinione pubblica). Così concepita la riforma non avrebbe avuto l’aspetto personalistico che Renzi invece gli ha dato e si sarebbe evitata la concentrazione del dissenso nei suoi confronti che ha rappresentato la sola ragione della sconfitta. A questi errori Renzi ha aggiunto il due di briscola: non si è dimesso da segretario del partito, ha subìto con evidente malumore e mettendo in atto qualche sgambetto (come nel caso della Banca d’Italia) l’azione di governo di Gentiloni, che invece veniva apprezzata da parti rilevanti della pubblica opinione moderata non soltanto per i suoi contenuti (in linea con il progetto politico di Renzi) ma anche per le modalità serenamente e silenziosamente “giolittiane” con cui il potere veniva esercitato, e infine ha affrontato le elezioni trasformandole ancora una volta in un voto sulla sua leadership. “Errare humanum est – dicevano gli antichi romani – perseverare diabolicum”.
Il futuro del partito democratico quindi non passa certamente – almeno per ora – da Matteo Renzi, il quale ha dimostrato di non avere la stoffa dello statista; la quale non è fatta soltanto di idee (per buone che siano) ma anche della capacità di realizzarle con determinazione ma senza strappi che non si sia sicuri di potere riassorbire, e soprattutto evitando comportamenti arroganti e presuntuosi come quelli che il giovane leader ha manifestato in diverse occasioni, anche per colpa di quel maledetto “cerchio magico” che i nostri uomini politici creano sempre intorno a sé e che serve soltanto ad alimentare diffidenza e disinformazione.
Il futuro del PD non passa nemmeno attraverso l’inseguimento del populismo demagogico dei Cinque Stelle, ma ciò non significa che non debba prendere atto di alcuni sentimenti che Grillo ha saputo abilmente sfruttare e che peraltro hanno una loro validità simbolica. Avere sottovalutato l’insofferenza popolare nei confronti dei tanti inammissibili privilegi di cui si è circondata la classe politica è stato il più grave degli errori compiuti dal PD; dalla farsa delle “macchine blu” ai vitalizi dei deputati, dalle consulenze fittizie alle assunzioni fuori concorso (ma dentro i partiti), sono anni che la pubblica amministrazione viene percepita come una grande mangiatoia che moltiplica i costi e frena l’iniziativa privata. La corruzione imperante (ormai certificata anche a livello comparato: il doppio della Francia, cinque volte più della Germania) è percepita come generalizzata, e quando emerge a livello giudiziario appare soltanto come la punta di un iceberg, mentre la stessa giustizia perde credibilità per i suoi tempi e talvolta quando mostra di essere condizionata da pregiudizi politici (o almeno ideologici). Insomma: i Cinque Stelle hanno assorbito una quota crescente del consenso dei ceti medi più per la rabbia prodotta da queste disfunzioni che per le loro ricette di politica sociale, alcune delle quali (non tutte) chiaramente demagogiche ed evidentemente irrealizzabili. Quando la gente si incazza arriva fatalmente il Savonarola di turno a dare un po’ di soddisfazione.
Dunque per prima cosa il PD deve tranquillamente dire di sì ai provvedimenti che i pentastellati propongono per moralizzare la vita pubblica. Senza complessi e senza paura di ammettere che su questo tema arrivano in ritardo.
Altre sono le tematiche su cui i democratici devono chiedere un serio confronto, mettendo in difficoltà le ambiguità di Grillo e Di Maio. Cominciando dalla politica estera e in particolare da quella europea: dove si collocano i Cinque Stelle? Dentro un progetto di maggiore integrazione (con tutti i cambiamenti necessari, anche negli equilibri tra i partner mediterranei e quelli del nord) a fianco di Macron e del nuovo governo tedesco dove i socialisti hanno assunto responsabilità crescenti? A favore del progetto isolazionista di Trump (con la guerra commerciale che ne consegue) o contro la destrutturazione di tutti gli strumenti multinazionali nati per governare la globalizzazione (WTO, alleanze regionali, ecc.) che il nuovo presidente tenta di mettere in atto?
E in politica economica: si deve puntare su nuovi investimenti mobilitando le risorse per diminuire il cuneo fiscale delle imprese oppure dare la precedenza a misure assistenziali generalizzate, come certamente è stato percepito da vasti settori dell’elettorato meridionale il cosiddetto “reddito di cittadinanza”? A fronte dei gravissimi problemi che nei prossimi anni colpiranno il nostro Paese per effetto della questione demografica e dell’applicazione di nuovi processi produttivi automatizzati nella produzione industriale vogliamo insistere sull’abolizione della legge Fornero e sull’idea di buttare a mare i profughi africani, o preferiamo affrontare il futuro in modo più coordinato e più serio?
E così via. Perché è sul modo di porre i problemi oltreché sulle soluzioni che si propongono che un partito di centro-sinistra, come Veltroni l’aveva concepito, rivendica la propria centralità. Senza arroganza, dialogando con tutti sulle cose e non sugli slogan. Altrimenti questo ruolo di interlocutore affidabile parti crescenti del Paese lo riconosceranno a Luigi Di Maio; il quale, con buona pace di De Luca, non può essere accusato di “parentopoli”, almeno finora.
Franco Chiarenza
5 aprile 2018
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