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La morte di Liu Xiaobo, prigioniero politico del regime cinese, ha riacceso i riflettori sulla questione dei diritti civili in Cina che l’Occidente inutilmente ripropone – anche se debolmente e inutilmente – da quando il grande gigante d’Oriente ha deciso di abbandonare le utopie sanguinarie di Mao Zedong e di confrontarsi apertamente con i paesi democratici che impropriamente chiamiamo occidentali (perché dobbiamo comprendervi – soprattutto in questo caso – il Giappone, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’India, la Corea del Sud ed altri). La Cina – sin dalla svolta di Deng Xiaoping – ha sfidato l’Occidente proponendo una formula che accetta le logiche internazionali dell’economia di mercato ma rifiuta le regole del pluralismo politico e dei diritti civili; la repressione di piazza Tienanmen ne rappresentò la dimostrazione più evidente.
Ma il liberalismo – politico prima che economico – ha il fiato lungo e sa attendere. Di questa certezza ha vissuto i suoi ultimi anni in carcere Liu Xiaobo, eroe di una resistenza pacifica ma risoluta che scorre sotterranea manifestandosi di tanto in tanto attraverso l’insofferenza dei giovani e degli studenti dove può e come può.
La carica eversiva del personaggio consisteva nel messaggio contenuto nel suo manifesto “Carta 08” che – tra tante affermazioni più o meno condivisibili – sosteneva la tesi che la libertà dei cinesi non poteva arrivare dall’alto, né dai vertici del partito né dalle pressioni occidentali, ma soltanto da una costante e crescente domanda che scaturisse dalla società civile. Il premio Nobel che gli venne assegnato nel 2010 forse rappresentò – da questo punto di vista – al di là delle nobili intenzioni che lo motivarono, un segnale che poteva essere percepito come un’interferenza straniera. La difesa del regime infatti affidata al “Global Times” (giornale cinese in lingua inglese) ricorda che “Liu ha vissuto in un’era in cui la Cina ha visto la crescita più rapida nella storia recente ma ha cercato di mettersi contro la maggioranza della società con l’aiuto dell’Occidente e questo ha determinato la sua tragica fine.”
Ma il liberalismo ha sempre coinciso con la difesa delle minoranze contro maggioranze ottuse e attente soltanto alle convenienze più immediate; per questo Liu Xiaobo entra a far parte a pieno titolo del pantheon dei liberali. Cessate le lacrime di coccodrillo che inondano i media e le dichiarazioni degli esponenti politici, più attenti – come è ovvio – alle esigenze della real politik piuttosto che alle questioni di principio, bisognerebbe ora monitorare con attenzione cosa avverrà a Hong Kong, dove si gioca il futuro nella cruciale partita tra la democrazia e la cultura orientale.
Non lasciamo soli gli studenti di Demosisto e cerchiamo di evitare che il prossimo Liu sia il giovane Joshua Wong che si batte per il mantenimento delle garanzie politiche e civili che la Cina ha promesso al momento di rientrare in possesso dell’ex-colonia britannica. Hong Kong rappresenta una cartina di tornasole importante: può anticipare il futuro di tutta la Cina in senso liberale se sarà la Cina – con la necessaria gradualità – ad accoglierne il modello, in senso autoritario e dittatoriale se invece Hong Kong sarà costretta ad adeguarsi al sistema comunista cinese.

 

Franco Chiarenza
15 luglio 2017

Con la scomparsa di Stefano Rodotà la cultura giuridica e politica del nostro Paese subisce una grave perdita, comunque si possano condividerne o meno le idee.
Di formazione liberale (era politicamente cresciuto nella Gioventù Liberale) aveva abbandonato il PLI insieme a Giovanni Ferrara nel corso della lunga storia di divisioni e ricomposizioni che ha caratterizzato la storia del partito di via Frattina prima della sua definitiva scomparsa come soggetto politico e parlamentare negli anni ’90.
L’ho conosciuto, ho avuto occasione di discutere con lui e di apprezzarne la sottile intelligenza giuridica che ne accompagnava l’impegno politico, dalla militanza radicale fino all’elezione in parlamento come indipendente nelle liste del partito comunista. Malgrado tale discutibile approdo la sua ideologia era quanto di più lontano si possa immaginare dal modello comunista, almeno nella dimensione storica che ha assunto nelle sue principali realizzazioni in Unione Sovietica e in Cina. Come molti altri (a cominciare da Gobetti) Rodotà immaginava che ogni autentica rigenerazione liberale non potesse prescindere dalla concreta estensione dei diritti di cittadinanza (che egli immaginava assai vasti e concretamente ancorati a condizioni economiche soddisfacenti) a tutti coloro che non erano in grado di esercitarli. Da qui la sua attenzione per i partiti che – a suo giudizio – meglio ne rappresentavano gli interessi (e quindi per i comunisti, soprattutto dopo il crollo dei regimi autoritari coi quali si erano identificati).

L’importanza di Rodotà tuttavia non era connessa alla sua disponibilità a porre il suo impegno politico al servizio di chiunque in qualche misura ne condividesse gli obiettivi (variamente strumentalizzato, in ultimo anche dal movimento Cinque Stelle) ma nel ruolo che egli ha svolto nella filosofia dei diritti. Ha speso la vita a studiarne le infinite connessioni allargandone la sfera oltre il limite in cui – almeno da un punto di vista liberale – la loro tutela comporta per le libertà individuali rischi non commensurati ai diritti che si intendono garantire; e ciò per l’evidente allargamento dell’intervento pubblico che tale tutela comporta. Né vale la distinzione tra lo Stato e altre forme di organizzazione collettiva che comunque aumenterebbe lo spazio comunitario a spese di quello dell’iniziativa privata fino a sfiorare pericolosamente la riproposizione di uno stato etico. Leggendo i suoi libri più recenti – sempre acutamente argomentati – non si può sfuggire all’impressione che le soluzioni proposte da Rodotà comportino inevitabilmente un dirigismo statale onnipotente, sia pure riorganizzato attraverso complicate formule di partecipazione democratica elaborate essenzialmente al fine di sanare la contraddizione di cui egli stesso si rendeva perfettamente conto.
Tutto ciò comportava alcune conseguenze che uno studioso della sua intelligenza non poteva mancare di cogliere: a cominciare da un sostanziale ridimensionamento del sistema rappresentativo parlamentare ereditato dalla tradizione liberale fino alla messa in discussione del diritto di proprietà. Si finisce così per ricadere in un utopico comunismo liberale (che d’altronde è facile rintracciare anche in alcuni scritti di Marx e di Engels, fino a risalire a Saint Simon). Un utopismo che di fatto finisce per essere utilizzato per strangolare le libertà concrete di oggi – in via transitoria, naturalmente – in attesa di renderle più complete domani.
Ma – come scriveva Isaac Berlin – per troppo tempo si è giustificata la rottura delle uova per realizzare una meravigliosa frittata; di uova se ne sono rotte tante ma la frittata non si è vista, o meglio, quella che si è vista non valeva certo – nemmeno in minima parte – le sofferenze e gli stermini che aveva prodotto.

 

Franco Chiarenza
15 giugno 2017

Con la morte di Piero Ottone il giornalismo italiano perde uno dei suoi pochi protagonisti che interpretarono la loro professione con il distacco elegante ma penetrante che caratterizza la tradizione dei grandi giornali inglesi e americani. Sapeva osservare, conosceva l’arte della non partecipazione diretta, riusciva a distinguere ciò che conta da ciò che è superfluo (anche se talvolta inevitabile).
Pier Leone Mignanego (questo il vero nome di Ottone) raggiunse la vetta del giornalismo italiano andando a dirigere il Corriere della Sera in un periodo cruciale dopo l’ondata del ’68 – tra il 1972 e il 1977; Giulia Maria Crespi rappresentante autorevole della proprietà, protagonista indiscussa in quei salotti milanesi che civettavano con “le ragioni” dei terroristi rossi (anche quando non ne condividevano i metodi di lotta), lo aveva scelto per dare una svolta all’organo di stampa più autorevole della borghesia lombarda e spingerlo su posizioni meno conservatrici, quelle, per intenderci, che vedevano sin dagli anni ‘50 in Indro Montanelli e nel suo intransigente anticomunismo un simbolo inossidabile. E fu proprio con lui che Ottone aprì un duro confronto che portò nel 1973 alla rottura da parte di Montanelli e di altre firme prestigiose che fondarono – in aperta e polemica contrapposizione col Corriere – un nuovo quotidiano, “Il Giornale”, molti anni prima che la “discesa in campo” di Berlusconi negli anni ’90 lo trasformasse in organo del nuovo movimento di destra che si candidava alla guida del Paese; una destra molto diversa da quella “risorgimentale” che Montanelli pensava di rappresentare e che costrinse il giornalista lombardo ad emigrare ancora una volta fondando un nuovo quotidiano – La Voce – il quale però, schierato su posizioni anti-berlusconiane, dimostrò col suo fallimento l’inconsistenza politica del suo progetto.
Quando Montanelli fu ferito dalle Brigate Rosse nel 1978 il Corriere ne dette notizia senza nominarlo nel titolo di prima pagina e ciò creò una frattura che in realtà non si ricucì mai anche perché Ottone e Montanelli rappresentavano due modi di concepire il giornalismo se non antitetici certamente assai diversi: distaccato e attento alle trasformazioni sociali in atto il primo, militante e aggressivo il secondo. Lo dimostra, tra l’altro, la collaborazione di Pier Paolo Pasolini al Corriere della Sera tra il ’73 e il ’75 che certamente il Montanelli di allora non avrebbe gradito.

Conobbi Ottone quando accettò di presentare alla sala convegni della Federazione della Stampa a Roma il libro che avevo scritto insieme a Giuseppe Corasaniti e Paolo Mancini (“Il giornalismo e le sue regole. Un’etica da trovare” – Etas Libri 1992). Lo aveva letto attentamente (cosa che non tutti i presentatori fanno) e gli era piaciuto tanto da affermare nel dibattito che si trattava di uno degli scritti più pregevoli sul tema tra quelli di cui era venuto a conoscenza, giudizio duramente contestato da Vittorio Feltri – anch’egli tra i “discussants” – che accusò il libro di essere un panegirico inaccettabile del modello giornalistico di “Repubblica”. Certo, riletto dopo più di vent’anni il libro – che ebbe una scarsissima diffusione anche per l’aperto boicottaggio nei suoi confronti operato dall’Ordine dei Giornalisti – mostra tutti gli acciacchi dell’età, ma si capisce benissimo perché Ottone lo avesse apprezzato. Il fulcro del discorso era infatti costituito dal sottotitolo “un’etica da trovare” perché l’informazione è un’arma essenziale per difendere la democrazia liberale ma è pur sempre un’arma; se gestita senza regole, a cominciare da un’etica della comunicazione fondata sul suo ruolo di “guardiano del potere” nell’interesse dei cittadini e non dei partiti, nel rispetto delle idee anche le più diverse, nel rifiuto di svolgere una funzione di propaganda che non dovrebbe mai coinvolgerla, diventa – come tutte le armi usate senza controllo – un pericolo, anche per quella stessa democrazia che si pretende di difendere.

Ciao Ottone. Restano coloro che tu hai formato – ne conosco tanti e sono tutti bravi – a tenere alta la bandiera di un’informazione corretta, che non vuol dire piatta e priva di sentimenti ma, al contrario, viva, polemica quando occorre, ma sempre attenta e consapevole della sua forza, più simile quindi a una missione piuttosto che a un mestiere. A loro tocca un compito molto difficile, quello di affrontare il rapporto tra la comunicazione digitale in tutte le sue forme e il diritto/dovere di garantire un’informazione corretta e responsabile. Da far tremare i polsi ovunque, ma in Italia più che altrove.

Franco Chiarenza
18 aprile 2017