Un bilancio di legislatura

La legislatura si è conclusa. Qual è il bilancio che ne trae il liberale qualunque? Ombre e luci, naturalmente, da cui trarre come sempre qualche insegnamento.

Nel nome di Renzi
Anche se la vittoria delle precedenti elezioni è stata solo parziale non vi è dubbio che la legislatura si è svolta all’insegna del partito democratico e del programma riformista disegnato da Renzi e dal suo gruppo nel convegno fiorentino della Leopolda. Quanto di quel programma, che aveva convinto parti importanti dell’opinione pubblica e che il “liberale qualunque” (depurandolo di qualche smagliatura demagogica e velleitaria) aveva sostanzialmente condiviso, è stato realmente realizzato?
Alcune cose sono state fatte: mi riferisco sostanzialmente alla riforma della legislazione del lavoro (il cosiddetto jobs act) e alla riforma della scuola; entrambe parziali e insufficienti ma abbastanza orientate in senso liberale. La prima per la diminuzione dei vincoli e una maggiore flessibilità, condizioni necessarie per rendere più attrattivi gli investimenti nel nostro Paese e quindi contrastare la disoccupazione; la seconda per avere dato un taglio significativo al precariato dei docenti, avere regolarizzato i concorsi, avere spinto l’ordinamento a ritrovare quei principi di responsabilità e di meritocrazia che sono fondamentali per una concezione liberale della scuola.
Difetti, insufficienze? Molti, ma considerevoli anche le resistenze corporative che, come sempre, hanno trovato nei sindacati (e nella minoranza del PD) un sostegno a oltranza.
A favore dell’azione di governo possiamo mettere un altro paio di cose: la gestione dei beni culturali da parte del ministro Franceschini, il quale è riuscito a scuotere le inerzie di una macchina burocratica farraginosa attuando una riforma che – al netto di polemiche qualche volta pretestuose, talvolta anche fondate per taluni aspetti – ha comunque dato risultati positivi, a cominciare dal rilancio di Pompei e di Caserta. Pure Carlo Calenda ha dato buona prova al ministero dello Sviluppo economico, anche a costo talvolta di prendere le distanze da Renzi. Ad essi va aggiunto Marco Minniti, al quale Gentiloni ha affidato il difficile compito di affrontare e contenere il flusso degli immigrati; una gatta da pelare che l’ex-comunista ha cercato di risolvere con decisione, sollevando naturalmente critiche come avviene sempre per chi fa qualcosa. Sta di fatto che l’ondata degli sbarchi è diminuita, l’intervento (anche militare) italiano in Africa è stato accettato a livello internazionale, e se il processo di stabilizzazione della Libia andrà avanti lo si dovrà anche alla presenza italiana.
Merita inoltre molta comprensione il ministro Padoan per la pazienza di cui ha saputo dar prova dovendo contenere le intemperanze di Renzi e contemporaneamente far quadrare il cerchio di un bilancio su cui grava sempre più pesantemente un debito pubblico che non si riesce a diminuire.

Cosa invece non ha funzionato?
Parrà strano ma ciò che non ha funzionato è stato proprio il leader protagonista di questa stagione – Matteo Renzi – il quale ha dato prova non soltanto di arroganza e di presunzione (difetti che si possono anche perdonare a fronte di risultati positivi) ma soprattutto di incapacità politica. Erratica e sbagliata si è dimostrata la sua strategia di comunicazione, dilettantesca è stata la gestione del patto di non belligeranza con Berlusconi, spavaldamente sottovalutate le opposizioni interne. La riforma costituzionale – che di tutto il disegno renziano doveva rappresentare il punto centrale – è stata portata avanti malissimo: non si è cercato un accordo (anche formale) con l’opposizione (almeno con Berlusconi), e, in mancanza di esso, invece di procedere a piccoli passi (che avrebbero messo in difficoltà gli avversari costringendoli a misurarsi sui contenuti senza consentire la loro aggregazione su pregiudiziali politiche), cominciando dai punti su cui un accordo era possibile (riforma del Senato, soppressione del CNL, revisione dell’ordinamento regionale) si è cercato lo scontro frontale. Questa idea, un po’ “mussoliniana”, di sfidare tutti con la presunzione che bastasse metterci la faccia per travolgere ogni dissenso ha trasformato il referendum sulla riforma costituzionale in un voto su Renzi, il che ha consentito ad ogni forma di opposizione, anche le più diverse tra loro, di sommarsi ai rancori suscitati da una gestione personalistica del governo e di affondare insieme alla riforma lo stesso Renzi.

Nel nome di Gentiloni
Inutile negarlo: Paolo Gentiloni, succeduto a Renzi in punta di piedi con l’umiltà di chi si riconosce nel suo leader e si limita a raccoglierne l’eredità con una discreta e breve ordinaria amministrazione in attesa del ritorno del Capo, ha sorpreso tutti. Ha governato con uno stile opposto a quello del suo predecessore ma non per questo meno efficiente; il suo ministero doveva durare poche settimana ed è arrivato alla scadenza della legislatura, ha assicurato una presenza internazionale dell’Italia dignitosa e meno volubile di quando Renzi pretendeva di guidarla da palazzo Chigi, ha portato a compimento una difficile legge di bilancio stretto tra la pressione pre-elettorale dei partiti e le preoccupazioni della Commissione di Bruxelles. I sondaggi hanno visto progressivamente aumentare il suo gradimento nella pubblica opinione, a dimostrazione che non è poi tanto vero che oggi la politica si debba fare a colpi di twitter e cercando sempre di alzare i toni fino a raggiungere la provocazione.
Gentiloni ha saputo abilmente schivare anche le trappole che Renzi gli ha messo tra i piedi quando ne ha visto crescere la popolarità, a cominciare dall’infelice vicenda della Banca d’Italia; ha dovuto promuovere una brutta legge elettorale con un voto di fiducia del tutto anomalo, ma questo era un prezzo da pagare alle preoccupazioni del partito democratico.

Nel nome di Letta
L’ho messo per ultimo anche se il governo di Enrico Letta, promosso dal presidente Napolitano dopo l’impasse delle elezioni del 2013, è stato il primo della legislatura. Aveva le carte in regola per svolgere una funzione di transizione verso un nuovo assetto istituzionale; una triangolazione tra palazzo Chigi, Quirinale e Nazareno (con Renzi alla segreteria del partito) avrebbe rappresentato una cornice politica e istituzionale in cui incardinare la riforma costituzionale già disegnata per sommi capi dal gruppo di lavoro che il presidente della Repubblica aveva costituito con esperti di diverso orientamento politico. Le modalità della brusca destituzione di Letta nel 2014 sono state rivelatrici dell’arroganza di Renzi e della sua scarsa attitudine a rispettare le regole del pur necessario “galateo” istituzionale; nella sua voglia infantile di rottamare il passato il sindaco di Firenze ha rischiato di rottamare il Paese, e comunque ha finito per rottamare se stesso.

 

Franco Chiarenza
7 gennaio 2018

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