Foto: www.confedilizia.it

Molti anni fa, quando militavo e mi agitavo nella Gioventù Liberale degli anni ’50, mi telefonò un certo Sforza Fogliani da Piacenza dove dirigeva un giornale liberale, per invitarmi a tenere una conferenza; ne fui ovviamente lusingato, andai, mi trovai tra giovani motivati e molto attivi in una città dove non era facile fronteggiare le opposte egemonie politiche della sinistra comunista e della Democrazia Cristiana. Ne nacque un rapporto di reciproca stima anche se le nostre strade presero direzioni diverse sempre però riconoscendoci nella cultura liberal-democratica.
Corrado ha svolto nella sua esistenza molti ruoli prestigiosi ben oltre i limiti della sua città (dove è stato presidente della Banca di Piacenza e consigliere comunale) presiedendo tra l’altro per oltre vent’anni Confedilizia, l’associazione nazionale che tutela i diritti e gli interessi dei proprietari di case, convinto assertore della funzione sociale che svolge la proprietà edilizia (soprattutto nelle dimensioni familiari) per la costruzione di un ceto medio di massa.
Ma l’aspetto che più mi interessava della sua personalità, sin da quando lo conobbi, era il fatto che fosse cattolico osservante e non trovasse alcuna contraddizione tra questa dimensione religiosa e una dottrina politica come il liberalismo (di cui era anche un profondo conoscitore) che sulla laicità e sul rifiuto di verità dogmatiche fonda la sua identità. Non a caso il suo principale punto di riferimento era Luigi Einaudi, anch’egli, come è noto, liberale e cattolico.
Con lui scompare un altro grand commis tra i tanti che la cultura liberale ha messo a disposizione della malferma classe dirigente del nostro Paese come Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi e, da ultimo, Mario Draghi, Nel generale discredito che circonda in Italia la politica, gentiluomini corretti ed efficienti come Corrado Sforza Fogliani danno spazio alla speranza di una rigenerazione che, comunque la si definisca, non può che essere sostanzialmente liberale.

Franco Chiarenza
14/12/2022

Foto: Steve Rhodes – Flickr

C’è qualcosa in comune in ciò che sta avvenendo in parti del mondo diversissime tra loro: si nota un filo rosso che unisce soprattutto i giovani delle ultime generazioni e che riprende un’importante eredità del passato, quella della tutela dei diritti individuali. Le contestazioni che stanno agitando la Cina, l’Iran e quelle che hanno costretto gli autocrati di Mosca e della Turchia a imporre il bavaglio a ogni libera manifestazione del pensiero, sono esplose per ragioni diverse ma trovano il loro punto di sintesi nel rifiuto del paternalismo autoritario e una domanda ricorrente di restaurare lo stato di diritto dove viene platealmente negato. Sono le ragazze dei paesi islamici che rivendicano la libertà di esprimersi, i democratici turchi che si richiamano alla separazione tra stato e religione, i giovani russi che rifiutano il nazionalismo aggressivo di Putin, i nipoti di Tien An Men che cercano di liberarsi dalla gabbia oppressiva del regime capital-comunista. Non si tratta di una facile retorica liberale che ci fa sognare impossibili rovesciamenti di regimi in cui il potere è troppo consolidato per essere seriamente minacciato dall’emergere di sentimenti che non hanno ancora trovato un punto di convergenza tra loro; tuttavia si avverte un segnale chiaro di movimento delle coscienze che infatti i regimi autoritari non sottovalutano, come è dimostrato dalla violenza della loro reazione.

Un nuovo quarantotto?
Il ’48 (non il 1948 ma quello di un secolo prima, 1848) fu un movimento sotterraneo che esplose dopo un lungo processo di erosione che originava dall’onda lunga della rivoluzione francese e che l’autoritarismo clericale dell’epoca cercò invano di delegittimare e reprimere. Fu alimentato soprattutto da giovani, trovò nelle università il luogo dove organizzarsi, si sviluppò prevalentemente nelle grandi città metropolitane, attraversò trasversalmente nazioni tra loro diversissime come la Francia, gli stati tedeschi, l’impero asburgico, il Piemonte, la Toscana, il loro punto di riferimento fu la Gran Bretagna dove da due secoli si era affermato uno stato di diritto. Stanno creandosi le condizioni per qualcosa di simile? E’ una domanda e, al tempo stesso, una speranza.
Naturalmente le condizioni sono molto diverse: oggi le preoccupazioni maggiori sono legate alla questione ambientale, la rete interattiva consente un’estensione della comunicazione non paragonabile a quella che la stampa garantiva in passato. Radio e televisione sono facilmente controllabili dal potere ma trovano ascolto soprattutto nelle generazioni di mezzo mentre i più giovani comunicano prevalentemente attraverso i social-network. Ed è questa la ragione per cui la domanda di libertà si identifica oggi in maniera specifica con la libertà di espressione.
Le emergenze globali che mettono in discussione gli equilibri esistenti sono riconosciute da tutti ma proprio perchè alterano le condizioni esistenziali ereditate dal passato possono essere affrontate in due modi: cercando di contrastare i cambiamenti e quindi sostenendo regimi autoritari in grado di reprimere il dissenso anche a costo di rinunciare ai propri diritti individuali, oppure dando credito ai sistemi politici e sociali liberal-democratici confidando nella loro capacità di governare gli inevitabili processi di trasformazione con la necessaria flessibilità.
Immaginare il futuro è sempre difficile e quasi sempre non ci si azzecca; ma quello che io – da liberale qualunque avverto e che fa ben sperare – è la crescita di una domanda giovanile di autonomia e di rifiuto di ogni paternalismo. Che questo movimento abbia radici nel passato e che si identifichi col liberalismo però non va detto perchè i giovani sono da sempre presuntuosi e pensano che la storia dell’umanità cominci con loro (e hanno torto) e sono allergici ad ogni ideologia totalizzante che finisce per “ismo”, come socialismo, comunismo, cristianesimo, islamismo, nazionalismo, atlantismo, europeismo, ecc. (e forse hanno ragione).

Lo scambio: libertà contro sicurezza
L’offerta di maggior sicurezza in cambio della rinuncia ad alcuni diritti individuali è sempre stata l’arma che ha consentito ai regimi autoritari di affermarsi. Oggi, a fronte di cambiamenti radicali che sconcertano anche per la loro imprevedibilità, si sostiene che per contenere il prevalere di sentimenti incontrollabili e consentire un’unità di comando più adatta ad affrontare le emergenze, i sistemi democratici pluralisti non siano in grado di fronteggiare in maniera efficace le difficoltà che si presentano. Ma si tratta di una convinzione sbagliata e pericolosa. Mai come oggi – con la diffusione di mezzi di comunicazione incontenibili – serve un bilanciamento tra i poteri dello Stato che consenta decisioni equilibrate in un sistema politico che permetta il confronto delle opinioni.
L’alternativa è un dispotismo necessariamente violento che cerca soltanto il mantenimento del potere e dei privilegi che ad esso vengono attribuiti senza alcun controllo della pubblica opinione.
Le democrazie liberali hanno molti difetti ma sono in grado di rigenerarsi, le autocrazie illiberali producono Putin, Xi Jinpeng, Erdogan, Al Sisi, ecc. La destra italiana, giunta al potere senza condizionamenti, è davanti a un bivio: o rappresentare il polo conservatore di una dialettica democratica nel quadro di comuni valori liberali, o seguire Orban e il gruppo di Visegrad sulla strada scivolosa della negazione dei diritti individuali. A parole con il discorso alla Camera di Giorgia Meloni la scelta è stata fatta; ora si tratta di tradurla in comportamenti coerenti. Non si può stare con il piede in due staffe: sulle convergenze ideologiche con movimenti che spingono verso un esercizio autoritario del potere (come Vox in Spagna, alcuni partiti populisti nei Balcani, l’estrema destra in Francia, ecc.) nell’azione di governo con le democrazie liberali. Occorre chiarezza.

Franco Chiarenza
06/12/2022

Foto di Mstyslav Chernov – Wikimedia – CC BY-SA 4.0

Salvini c’è riuscito. Riportare la questione degli immigrati al centro dell’attenzione in un momento in cui le preoccupazioni degli italiani erano rivolte altrove poteva sembrare un azzardo, ma con l’aiuto involontario delle ONG e di Macron c’è riuscito. Ha messo in difficoltà la Meloni costringendola ad arretrare sul passato, ha messo in difficoltà i rapporti con l’Europa proprio quando la presidente del Consiglio voleva ammorbidirli, ha lanciato un messaggio chiaro ai militanti della destra su chi nel governo dettava l’agenda. Una gara che fa tanto ricordare la famosa scena del film di Chaplin “Il dittatore” quando il Duce e il Fuhrer spingono in alto le poltrone da barbiere. Il che conferma che i suoi veri avversari la leader di “Fratelli d’Italia” dovrà cercarli all’interno della sua maggioranza, tanto più che dall’opposizione parlamentare per ora non ha nulla da temere. E dire che per scansare il pericolo la neo-presidente le aveva pensate tutte: allontanare Salvini dal Viminale, silenziarlo con l’atlantismo, collocarlo lontanissimo dalla Farnesina, creare un apposito ministero del mare affidandolo a un berlusconiano per impedirgli l’accesso al Papeete da dove magari tra un bagno e l’altro poteva ordinare di affondare i barchini carichi di immigrati che sbarcavano sulle coste; affidandogli le infrastrutture pensava al vecchio inoffensivo ministero dei trasporti che di fatto si occupava di ferrovie (e arrivare in treno da Roma a Mosca era complicato (dovendo passare dall’Ucraina). Ma ahimè era inciampata sui porti. Porti = navi = ong = immigrazione. L’avevano fregata.

La questione
Naturalmente nulla nasce dal nulla. Il problema degli immigrati clandestini esiste e quello dei comportamenti ambigui delle ONG che si accompagna all’indifferenza dei partner europei pure.
Covid e guerra in Ucraina con tutte le conseguenze drammatiche che ne sono derivate hanno fatto giustamente passare in secondo piano le paure irrazionali che avevano in passato terrorizzato larghi settori dell’opinione pubblica che i neri li voleva sì per coltivare i pomodori ma non gradiva vederli girare liberamente per strada spaventando i loro bambini. Ironia a parte, erano arrivati problemi più seri e degli immigrati che sbarcavano in clandestinità per due anni non ha parlato più nessuno. Ma il problema esiste e non si risolve resuscitando venti nazionalistici (che ne suscitano altrove altrettanti) ma affrontando pragmaticamente la questione partendo da alcuni dati di fatto:

  1. Gli immigrati rappresentano in prospettiva una risorsa e non un onere. Tutti gli esperti concordano che con l’invecchiamento della popolazione la nostra economia non potrà funzionare senza l’apporto di centinaia di migliaia di immigrati, neanche se le nostre donne tornassero a fare figli con la stessa intensità del secolo scorso (il che pare irrealistico, anche con gli incentivi che la Meloni, memore forse dei fasti demografici mussoliniani, promette per sostenere la maternità).
  2. La questione quindi non è se abbiamo bisogno degli immigrati ma come regolarne i flussi di entrata in modo da renderli coerenti con un dignitoso collocamento (anche nel loro interesse). Lo stesso problema hanno avuto (e hanno) Francia, Germania e Spagna anch’esse soggette a una forte pressione immigratoria.
  3. L’Unione Europea – in quanto istituzione regolata dal trattato di Maastricht e da quelli successivi che lo hanno modificato – non ha competenza in materia. Può soltanto esercitare – per quel che vale – una moral suasion accompagnandola con qualche incentivo economico.
  4. Fino ad oggi la maggior parte dei partner europei si sono dichiarati contrari ad estendere il potere regolamentare dell’Unione in materia di immigrazione. Ogni decisione in proposito passa quindi attraverso l’unanimità dei suoi ventisei membri.
  5. Ciò nonostante la Germania è riuscita cinque anni fa a coinvolgere l’Unione in un accordo con la Turchia che ha consentito di bloccare l’invasione di profughi che in seguito alle guerre in Medio Oriente stavano rovesciandosi in Europa. Un accordo costato alcuni miliardi di euro ma che – attenzione! – non riguardava una generica immigrazione economica ma il salvataggio di profughi vittime di conflitti armati che erano sotto gli occhi di tutti. Qualcosa di simile sta accadendo per i profughi ucraini che dopo l’aggressione di Putin al loro paese hanno invaso la Polonia e sono stati giustamente accolti in tutta l’Europa (Italia compresa).
  6. Un fragile accordo che prevedeva il ricollocamento di alcune migliaia di migranti economici in alcuni paesi europei, chiesto dall’Italia e accettato da Francia e Germania, aveva carattere volontario e di fatto si è risolto in un fallimento.
  7. L’instabilità politica e militare della Libia aggrava la situazione, ma non è la sola ragione di quanto avviene nel Mediterraneo. Flussi costanti di migranti provengono anche dal Magreb, dall’Egitto e dal Medio Oriente. Una politica di contenimento e di selezione da sviluppare in Africa settentrionale – come proponeva la Meloni – urta contro due ostacoli: deve essere fatta dall’Unione Europea o quanto meno in stretta cooperazione dai paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo (oltre al nostro Spagna, Francia e Grecia e altri minori), e deve trovare accoglienza e collaborazione nelle nazioni arabe interessate (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco). Di tutto ciò non si scorgono nemmeno le premesse. Gli unici soggetti che fanno politica in Africa esercitando un discreto potere di pressione sono le compagnie petrolifere (compresa, per fortuna, la nostra ENI) che sono tra loro in aspra competizione.

Sic rebus stantibus
Così stando le cose non basta sperare che le cose cambino e le opinioni pubbliche della Norvegia o dell’Olanda diventino più sensibili alle nostre preoccupazioni, e nemmeno esercitare pressioni muscolari (come la chiusura dei porti) o sollevare infinite controversie di diritto sulle bandiere che battono le ONG.Dobbiamo invece predisporre un piano B (che diventerà presto l’unico praticabile) per regolare l’accoglienza e il collocamento anche senza l’aiuto dei partner europei. Si può fare cambiando alcune leggi assurde che regolano cittadinanza e residenza, modificando l’accesso ai concorsi, collaborando coi sindacati per smantellare l’economia sommersa che prospera sull’immigrazione clandestina. Si può fare ma bisogna volerlo sedendosi intorno a un tavolo, anche presieduto da Giorgia Meloni. Meglio non invitare Salvini.

 

Franco Chiarenza
16 novembre 2022

 Foto: https://www.quirinale.it/

Il neonato governo Meloni non mi preoccupa. So con questa affermazione di scandalizzare gli amici liberali e, naturalmente, quelli di sinistra; ne spiego quindi la ragione.

Le radici, la cultura politica, la storia di Giorgia Meloni sarebbero preoccupanti se davvero potessero incidere in maniera significativa sull’azione di governo; in realtà ciò non può avvenire e se di qualcosa si deve dare atto alla giovane leader è di averlo compreso sfuggendo alla facile retorica paternalistica di Salvini e Berlusconi (i quali oltretutto – e questa è una sorpresa – non ne hanno ricavato alcun vantaggio). Un governo si qualifica per tre cose fondamentali: la politica estera, l’intervento pubblico nell’economia, la sicurezza. Il resto riguarda il funzionamento ottimale della pubblica amministrazione e può essere modificato soltanto con profonde riforme di struttura che per essere valide richiedono un consenso più ampio delle effimere maggioranze parlamentari; anche perchè rischiano di essere molto costose, non tanto in termini economici, quanto di consenso elettorale: parlo di giustizia, scuola, sanità, previdenza e assistenza (ivi compresa l’annosa questione dell’età pensionabile).

La politica estera
Giorgia Meloni ha subito sgombrato il campo da ogni ambiguità: la fedeltà all’alleanza atlantica ne resta il caposaldo con ciò guadagnandosi almeno la neutralità dei sospettosi americani che non avevano gradito le frequentazioni putiniane di Salvini e Berlusconi. Per quanto riguarda l’Europa l’avversione di Fratelli d’Italia ad ogni forma di ulteriore integrazione era troppo nota per essere platealmente contraddetta, ma in un momento in cui la solidarietà europea (di cui abbiamo estremo bisogno) è messa in crisi non dal gruppo di Visegrad ma dall’asse tedesco-olandese, tutto lascia pensare che il suo sovranismo, almeno per ora, finirà abbastanza ridimensionato. La nomina di Tajani a ministro degli Esteri e il lungo colloquio con Macron che “casualmente” si trovava a Roma nel giorno dell’insediamento del nuovo governo sembrano confermare la continuità con la linea Draghi.
Il resto non conta, salvo la Libia. Ma anche lì ogni azione che non sia velleitaria passa fatalmente dall’Europa e in particolare da un comunità d’intenti con Francia e Spagna di cui finora non si è vista traccia.

L’intervento pubblico in economia
L’assegnazione a Giorgetti del ministero dell’Economia risponde a tre diverse esigenze che la scelta del nuovo presidente in qualche modo soddisfa: ridimensionare il ruolo di Salvini, evitare la nomina di un tecnico, assicurare i mercati e le imprese che si manterrà salda la barra della “governance” economica dentro i parametri fissati dall’U.E. Il nome di Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico con Draghi, offre in proposito qualche fondata garanzia.
Per il resto, al di là delle demagogiche difese dei concessionari abusivi delle nostre spiagge che ci hanno afflitto questa estate, i paletti del trattato di Maastricht sono abbastanza rigidi da rendere inoffensivo qualsiasi attacco. Ci sarà qualche sbavatura, qualche “salvinata” ad uso e consumo di elettori futuri. Ma nulla di più.

La sicurezza
E’ un problema serio per qualsiasi governo anche per i riflessi che ha sulla pubblica opinione; forse ha rappresentato un elemento decisivo nell’affermazione di un movimento con radici autoritarie.
La realtà delle cose ci dice però che in una società aperta – come per fortuna è la nostra – poco si può aggiungere a quanto già si è fatto; se Giorgia Meloni dovesse cedere a tentazioni da “stato di polizia” si avventurerebbe sul terreno scivoloso della riduzione delle garanzie individuali seguendo i pessimi precedenti che hanno portato la Polonia e l’Ungheria a restare emarginati all’interno dell’Unione. Ed è infatti sui diritti e sulle garanzie che il governo è atteso al varco. Ed è in quel momento – che non sarà domani – che si capirà se la parola “responsabilità”, tanto spesa dal premier in campagna elettorale, avrà il significato che gli elettori moderati gli hanno attribuito: la consapevolezza di guidare un paese profondamente diviso che soltanto una infelice legge elettorale gli consente di governare. Lo si può fare in due modi: o con la contrapposizione generatrice di violenza e sbocchi autoritari oppure cercando possibili intese senza venir meno al mandato elettorale della maggioranza parlamentare.

Le riforme di struttura
Che siano necessarie tutti lo dicono; sul come farle la confusione (anche metodologica) regna sovrana. Se non si vogliono ripetere gli errori commessi in passato (Renzi compreso) occorre predisporle una alla volta (evitando i “pacchetti” che uniscono inevitabilmente gli eterni avversari di ogni cambiamento), confrontarle apertamente con le opposizioni per cercare soluzioni condivise, e non attribuirsene ad ogni costo la paternità per finalità elettorali. Giorgia Meloni si era già espressa per un confronto aperto e deve insistere. A cominciare da alcune revisioni costituzionali (Senato, Regioni, legge elettorale, giustizia).
Qualcuno obietterà che si chiede alla Meloni di fare ciò che i suoi predecessori di centro-sinistra (con l’eccezione di Renzi) non hanno mai fatto. Ebbene sì; col suo curriculum la nuova presidente del Consiglio deve assumersi l’onere della prova.

Riuscirà Giorgia Meloni?
La domanda quindi è: riuscirà la giovane leader ad avviare un puzle così complesso? La sua inesperienza e le radici politiche non giocano a suo favore; ma paradossalmente, anche per il modo in cui ha saputo gestire la transizione, senza arroganza, sempre richiamandosi al principio di responsabilità, diversamente dal populismo straccione di Salvini e da quello paternalistico di Berlusconi, Giorgia Meloni si presenta chiedendo un’apertura di credito che una società liberale non può negare.
Ma – come dice il proverbio – dai nemici mi guardi Iddio, dagli amici devo guardarmi io. E lei di “amici” pericolosi ne ha tanti.

 

Franco Chiarenza
31 ottobre 2022

Foto: sito www.fratelli-italia.it

La vittoria di Giorgia Meloni è stata netta e inequivocabile, inutile girarci troppo intorno.
Vale la pena invece fare qualche riflessione sulle ragioni del suo successo e sui rischi che presenta questo nuovo quadro politico per una società che noi liberali vorremmo aperta e integrata nelle istituzioni europee.
E non a caso dico “vittoria di Giorgia Meloni” e non del suo partito Fratelli d’Italia perché credo che in questo caso la specificità della leadership sia stata determinante.

Perché ha vinto
Tutti (compresi i suoi alleati dello schieramento di destra) attribuiscono la ragione principale del successo di FdI al fatto di essere rimasto sempre all’opposizione, anche nell’intera scorsa legislatura quando si è passati disinvoltamente attraverso maggioranze multicolori tra loro ideologicamente poco compatibili. L’opposizione paga sempre e certamente anche in questo caso il suo peso è stato fondamentale; ma bisogna essere ciechi per non vedere che c’è dell’altro, anche perché la storia, le radici, i punti di riferimento culturali della Meloni sono assai più netti di quelli espressi da movimenti effimeri come i Cinque Stelle, Italia Viva, e la stessa Lega che da “partito del nord” si era trasformata in un movimento populista nazionale. Certamente Giorgia Meloni ha saputo destreggiarsi nei labirinti della politica con maggiore abilità del suo più diretto concorrente Matteo Salvini il quale ha infilato una serie impressionante di errori a partire dal Papeete del 2019 fino alle ambiguità che hanno caratterizzato la partecipazione al governo Draghi, nei cui confronti invece la leader di FdI aveva costruito un rapporto di opposizione responsabile che ricordava il fair play della prassi parlamentare britannica (chiaramente apprezzata dal presidente del consiglio). Anche i Cinque Stelle, concentrando sul reddito di cittadinanza e sugli inceneritori buona parte della loro identità, hanno perso nel centro nord più consensi di quanti ne abbiano mantenuti al sud, lasciando campo libero alla Meloni che i suoi punti di forza in Lombardia li ha sempre avuti. In questo modo si è prodotto un incredibile rovesciamento dei ruoli che ha confinato la Lega “nazionale” a simbolo di un estremismo plebiscitario e sovranista (che fino a poco tempo prima pareva appartenere soprattutto all’estrema destra post-fascista) mentre il movimento fondato da Meloni, Crosetto e Larussa sulle ceneri di Alleanza Nazionale indossava un più rassicurante abito moderato (anche se qualche strappo di fanatismo nostalgico fuori controllo ogni tanto spuntava fuori). Una trasformazione che una parte consistente dell’elettorato leghista delle regioni settentrionali ha colto immediatamente esprimendo col voto alla Meloni il suo dissenso nei confronti di un estremismo anti-occidentale che di colpo era diventato la nuova carta d’identità della Lega nazional-populista; persino nell’aspetto fisico Salvini con la volgarità dei suoi social, con gli slogan di cartapesta insignificanti per chiunque avesse un livello conoscitivo medio, sembrava ricordare il Mussolini dei primi tempi. Anche Berlusconi ha fatto la sua parte: la consistenza parlamentare di Forza Italia deriva dagli accordi preliminari con i partner di destra ma il suo fallimento come punto di raccolta della destra moderata è dovuto alle ambiguità filo-putiniane e alla mancanza di un progetto in cui i ceti medi che avevano appoggiato il governo Draghi potessero riconoscersi. Alla fine la fermezza “senza se e senza ma” con cui la Meloni ha proclamato la fedeltà all’alleanza atlantica è risultata vincente perché rappresentava un’affidabile dimostrazione di serietà.
Molti hanno rilevato l’importanza del fattore “donna”, e hanno ragione. La novità (per l’Italia) di un capo del governo declinato al femminile ha certamente orientato il voto di molte donne soprattutto perché contrapposto al maschilismo volgarmente esibito da Salvini e Berlusconi.

Chi l’ha votata?
Le analisi del voto sono quasi unanimi: pensionati, anziani, prevalentemente ceto medio, distribuiti in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale; pochi giovani. Ma in un paese di vecchi come sta diventando l’Italia tanto basta, anche al netto dell’effetto trascinamento che, come sanno gli esperti della materia, si produce quando un partito è percepito come possibile vincente e che trasforma un successo elettorale in un trionfo. Con la fine dei partiti ideologici e l’affermazione delle leadership personali il fenomeno si è accentuato determinando spostamenti di milioni di voti: è successo con Berlusconi, con Renzi, con Grillo, con Salvini e oggi si ripete con Meloni. Voti però molto fluidi, non ancorati a ideologie né a radicamenti storici, senza chiare e definite priorità politiche e sociali, e quindi instabili e pronti a defluire in altre direzioni. Un contesto in cui i sondaggi contano più delle maggioranze parlamentari e di cui anche la Destra dovrà tenere conto.

Quali rischi?
Non credo che la nostra democrazia e i pochi elementi di liberalismo in essa contenuti corra pericoli nell’immediato. L’interesse di Giorgia Meloni è di proseguire nella strategia rassicurante che l’ha fatta vincere: ne avremo conferma nella composizione del governo dove cercherà di limitare le pretese identitarie di Salvini, nella collaborazione con Draghi per la gestione della fase di transizione (soprattutto per quanto riguarda il PNRR e i rapporti con la BCE), nell’apertura di un tavolo per le riforme costituzionali aperto all’opposizione e nella consapevolezza che le sue radici costituiscono un limite alla possibilità di avviare un rapporto costruttivo con le parti sociali (sindacati, Confindustria, ecc.).
Non temo quindi grandi cambiamenti nella politica economica; l’Italia è inevitabilmente vincolata ai trattati europei e il suo debito pubblico troppo dipendente dalla tolleranza dei partner per consentire colpi di testa che la farebbero finire in bancarotta. Chiunque occuperà il posto di Daniele Franco lo sa e dovrà tenerne conto al di là degli slogan “Italia first” e simili con cui la Meloni ha condito la parte demagogica inevitabile in ogni campagna elettorale (peraltro con molta prudenza in tema di bilancio).
I veri problemi sorgeranno in un secondo tempo quando, consolidata la sua leadership, la Meloni dovrà affrontare questioni che più attengono ai diritti individuali, sapendo che una parte importante del suo nuovo elettorato non si riconosce nell’ideologia familistica, anti-abortista e nazionalista che cova nella pancia identitaria del suo partito. Non saranno certo l’indifferenza narcisistica di Berlusconi, né una Lega a guida salviniana cosparsa di rosari e santini a frenare pericolosi scivolamenti verso i modelli polacchi o ungheresi; al contrario. Quello sarà il momento in cui l’opposizione di sinistra e ancor più un centro depurato dai personalismi e rifondato su una carta liberale che riproponga i valori di una società aperta potranno svolgere un ruolo determinante.

Franco Chiarenza
28 settembre 2022

Quali sono le possibili scelte elettorali di un liberale qualunque? Mi è stato chiesto.

Percorro l’offerta disponibile.

Escludo l’estrema sinistra (Fratoianni, Speranza, ecc.) non per avversione pregiudiziale ma per il semplice fatto che la radicalità socialista e statalista a cui essa fa esplicito riferimento, anche se velleitaria e di fatto irrealizzabile, non è accettabile per un liberale. Non nego che sul tema dei diritti alcune convergenze sarebbero possibili ma non mi sembra che questo sia al momento il punto centrale.

Il partito democratico, soprattutto in alcune sue componenti, può invece essere considerato uno schieramento dove alcune istanze liberali hanno trovato in passato e possono ritrovare oggi uno spazio adeguato. Recentemente però Enrico Letta e il gruppo dirigente del partito (che già dalle sue origini liberale non è mai stato, essendo nato dalle ceneri del partito comunista e di quello cattolico di sinistra) hanno orientato la sua immagine verso un’identità che in qualche momento non mi è più sembrata compatibile con la cultura liberale dello stato di diritto, non a caso privilegiando un’alleanza organica col sovranismo populistico dei Cinque Stelle. Quanto basta per escluderlo dalle mie preferenze, malgrado la presenza nel suo “campo largo” anti-fascista di personaggi come Emma Bonino (+Europa) e Cottarelli i quali certamente vanno ricompresi nella tradizione radical-liberale.

Il movimento Cinque Stelle, oggi guidato da Giuseppe Conte, è tornato a identificarsi con un volgare assistenzialismo paternalistico su cui contenere la perdita di credibilità su cui i sondaggi hanno impietosamente insistito. Non ho dubbi che dopo le elezioni, misurati i rispettivi rapporti di forza, Conte tornerà ad allearsi col PD in una piattaforma dove la demagogia rappresenterà la bussola di ogni scelta (specularmente a quanto ha fatto il partito della Meloni con il governo Draghi per raccogliere il consenso degli scontenti). Sempreché, come è già avvenuto in passato, non riemerga dalla nebbia l’imperscrutabile “Elevato” con qualche imprevedibile alzata di testa. So bene che alcune istanze dei Cinque Stelle (come la lotta alla corruzione e ai privilegi ingiustificati della classe politica) non lasciano indifferenti i liberali, i quali però contestano i mezzi e gli strumenti utilizzati che hanno inciso sull’equilibrio dei poteri, fondamento ineludibile dei sistemi liberal-democratici. Non è il caso di affidarsi a un movimento che fa dell’incompetenza la ragione della sua esistenza e respinge la meritocrazia.

Forza Italia, al cui interno molti liberali hanno esercitato in passato un ruolo importante, ha accentuato il suo carattere di “partito padronale” che ne costituì il limite sin dalle origini, e rappresenta oggi soltanto le velleità di rivalsa del suo vecchio leader. Invece di cogliere l’occasione per trasformarsi in una destra moderata al cui interno una parte dei ceti medi avrebbe potuto trovare un punto di riferimento, FI resta un partito di corte arroccato intorno a un “sovrano” delegittimato dai suoi ambigui rapporti internazionali, dai conflitti con la magistratura, dall’incapacità di prospettare un progetto credibile per la stabilizzazione del sistema politico. Io non l’avrei comunque votato perchè non dimentico il passato ma constato con amarezza che il suo crollo toglie alla destra un pilastro che avrebbe potuto arginare le tentazioni sovraniste e demagogiche delle sue componenti più estreme.

La Lega, pur attraversando una crisi di consensi nei confronti del suo leader Salvini, resta, soprattutto al nord, una forza radicata sul territorio ancora legata ad aspirazioni autonomistiche che ne costituirono molti anni fa la ragione del successo iniziale. La demagogia volgare di Salvini e le sue compromissioni di politica internazionale creano imbarazzo nel suo stesso partito ma soprattutto fanno temere azioni di governo che spingerebbero il Paese alla bancarotta e all’ uscita dall’Unione Europea e dall’alleanza atlantica per scivolare in un ambiguo neutralismo funzionale alla politica espansionista di Putin. Tanto basta per escludere che un liberale possa votare per la Lega, almeno fin quando essa si riconoscerà nella leadership sgangherata e pericolosa del suo capo. Ometto per brevità alcune considerazioni sulla mancanza totale di attenzione per i diritti umani esibita da Salvini che sembra ispirarsi a una visione arcaica e autoritaria della società che non appartiene alla cultura liberale.

Fratelli d’Italia costituisce il fenomeno emergente dell’attuale stagione politica. Nato dall’eredità post-fascista del MSI, il movimento raccoglie quanti sono sopravvissuti ai suoi traumatici passaggi attraverso l’Alleanza Nazionale di Fini e il “Popolo delle libertà” di Berlusconi. Una destra confusa che funge da bacino di raccolta di istanze non sempre compatibili tra loro la quale dagli errori altrui (compresa la Lega) si trova oggi sospinta alle soglie della responsabilità di governo. La sua leader, Giorgia Meloni, è riuscita abilmente a costruirsi una credibilità personale (non giustificata dalla sua storia), che le consente di apparire in Italia e all’estero interlocutrice affidabile – di destra certo, ma non diversa dai movimenti populisti che anche nel resto d’Europa si stanno affermando in contrapposizione ai modelli liberal-democratici fino ad oggi prevalenti. Illiberale per definizione, difensore dell’autoritarismo plebiscitario di Orban e di Erdogan, atlantista per opportunismo (e per non tirare troppo la corda col potente alleato americano, almeno finché i democratici saranno al potere), il “fraterno” movimento nazionalista non può essere nemmeno preso in considerazione da un liberale. Eppure sono certo che non mancheranno coloro che sosterranno il contrario; ci furono anche cent’anni fa quando il fascismo colse l’occasione degli errori altrui per proclamarsi difensore degli interessi dei ceti medi e insediarsi al potere.

Resta il “terzo incomodo” o meglio l’assemblaggio di quanti vorrebbero esserlo per non restare schiacciati dall’alternativa padella-brace. Si tratta naturalmente di quel terzo polo costituito frettolosamente intorno ad Azione (il movimento di Calenda), Italia Viva (Renzi) e un po’ di profughi provenienti da Forza Italia (Gelmini, Brunetta, Carfagna, ecc.); strutturalmente debole è caratterizzato più dal rifiuto della polarizzazione che da un chiaro indirizzo programmatico. Ma per quel che è stato possibile mettere insieme esso presenta un indirizzo liberal-democratico abbastanza netto anche se venato da sfumature stataliste più social-democratiche che liberali. Comunque convince la filosofia del “fare” che Calenda persegue da quando osò sfidare il PD nelle amministrative a Roma ottenendo un discreto successo (20%). Manca un adeguato impianto politico ideologico che offra indicazioni sulla politica internazionale, sulle scelte energetiche, sulle grandi riforme liberali che il Paese attende da cinquant’anni; il “buon governo” sui singoli problemi è un metodo valido per superare le pregiudiziali ideologiche ereditate dal passato ma non basta a segnare una nuova identità che le nuove generazioni possano considerare attraente.
Ma tant’è: malgrado i passi falsi che ne hanno minato la credibilità voterò Calenda e Renzi e altrettanto dovrebbero fare a mio avviso i liberali qualunque che me lo hanno richiesto.

Su queste elezioni, qualunque ne sia il risultato, incombe il fantasma di Mario Draghi. Inquietante per i partiti che devono prendere atto del consenso che ha suscitato nel Paese la sua azione di governo (65%, un record assoluto dopo un anno di scelte difficili e spesso divisive), imprescindibile per chiunque ne prenderà il posto a palazzo Chigi. Draghi ci lascia la nostalgia di un metodo di governo efficiente, di un prestigio personale costruito nel tempo, di una coerenza testarda nelle cose che contano. Noi liberali lo ricorderemo come raro esemplare di quei servitori dello Stato (grand commis, dicono i francesi) che nelle grandi democrazie liberali dell’Occidente hanno sempre rappresentato il telaio su cui i veri statisti possono realizzare i progetti di cambiamento di cui sono portatori. In Italia sono sempre più rari ma anche di statisti degni della definizione ne vedo pochi.

Franco Chiarenza
20 settembre 2022

Quelli che sul conflitto russo-ucraino la pensano come il mio amico Marcello sono coloro che in buona fede ritengono che il prezzo che stiamo pagando per sostenere la resistenza ucraina sia sproporzionato rispetto alle buone ragioni degli ucraini e che la real politik tanto spesso utilizzata dai paesi occidentali per tutelare i propri interessi avrebbe richiesto una maggiore comprensione del movente che ha spinto i russi ad agire. Anche perché interrompere i rapporti commerciali con la Russia è controproducente e inviare armi sofisticate all’Ucraina un’inutile provocazione che apporta sempre maggiori sofferenze alla popolazione civile. Insomma, al di là di qualche doverosa protesta verbale, bisognava lasciare che gli ucraini si arrangiassero e gli artigli della NATO mollassero la presa. Io non la penso così e ne spiego sinteticamente i motivi.

  1. I casi sono due: o il conflitto è nato perché le minoranze russofone del Donbass erano perseguitate, oppure si tratta di una guerra scatenata per altre ragioni.
    Nel primo caso una violazione così clamorosa del diritto internazionale come un intervento armato è assolutamente esagerato rispetto all’obiettivo dichiarato e comunque non avrebbe dovuto essere esteso a tutto il territorio ucraino. Ne consegue che le vere ragioni sono altre né, per la verità, Putin lo ha nascosto più di tanto. Si tratta di capire quali sono e se siano tali da giustificare la reazione dei paesi occidentali.
  2. La prima motivazione è la “sicurezza” della Russia che verrebbe minacciata dalla presenza della NATO (che è peraltro un’alleanza militare con finalità difensive) nei paesi confinanti. Il problema sorge infatti per l’Ucraina che non fa parte della NATO (ma vorrebbe) e non – almeno per ora – per gli altri paesi di frontiera (Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia, Romania) già coperti dall’ombrello NATO. La Finlandia e la Svezia, sempre portate a esempio di una possibile neutralità, sono rimaste talmente sconvolte dall’azione aggressiva della Russia da precipitarsi a chiedere l’adesione alla NATO. Resta il dubbio se stiamo discutendo della sicurezza russa da un’aggressione della NATO o piuttosto della sicurezza di piccoli paesi confinanti minacciati dalle velleità neo-imperiali di Putin.
  3. Comunque, a prescindere dalle preoccupazioni che l’espansionismo russo suscita nel Baltico, l’intervento a gamba tesa di Putin avrebbe – secondo i suoi sostenitori – un carattere sostanzialmente preventivo al fine di ottenere la neutralizzazione forzata dell’Ucraina. Ma se solo di questo si trattasse era possibile trovare una soluzione concordata sulla base degli accordi di Minsk che l’Ucraina non ha mai escluso e che lo stesso Biden (a quanto risulta dalle recenti rivelazioni di Macron) era disposto a discutere prima dell’invasione.
  4. La seconda ragione addotta dagli aggressori è il fatto che l’Ucraina faceva parte dell’Unione Sovietica e che la sua identità etnica è poco dimostrabile al di fuori della grande storia pan-russa anche prima dell’URSS. Affermazione discutibile ma che comunque non può essere addotta per infrangere i trattati internazionali senza produrre inevitabili effetti a cascata nei tanti casi in cui i confini nazionali non corrispondono, in tutto o in parte, con quelli etnici e linguistici. L’esistenza dell’Ucraina come stato indipendente non è mai stata messa in discussione nemmeno ai tempi dell’URSS, tanto che sin dalla fine della seconda guerra mondiale essa ha un suo rappresentante all’ONU al pari delle altre nazioni che ne fanno parte.
  5. Veniamo infine alla vera motivazione di questa assurda guerra decisa freddamente a tavolino quando c’erano tutte le condizioni per evitarla; la si può ricavare dal discorso di Putin a San Pietroburgo in occasione delle celebrazioni dello zar Pietro il Grande nel quale le intenzioni della nomenklatura russa sono emerse in maniera esplicita. La guerra in Ucraina è solo il primo passo per restituire alla Russia quel rango di grande potenza che dopo il crollo dell’Unione Sovietica aveva perduto e, conseguentemente, per ridimensionare l’egemonia occidentale fondata sull’asse euro-americano. Da qui l’alleanza con la Cina e l’ostilità manifesta nei confronti di tutti i paesi che hanno sviluppato sistemi politici e sociali ispirati ai principi liberal-democratici, considerati veicoli ideologici al servizio della potenza americana. Perché questo è il problema: non la Russia ma l’autocrazia plebiscitaria illiberale e nazionalista con cui l’autocrate di Mosca ha cercato di riempire il vuoto lasciato dal comunismo leninista.
  6. Qui sta il punto: tu (e chi la pensa come te) sei critico nei confronti della civiltà euro-americana, ne sottolinei continuamente le incongruenze e le contraddizioni che sono spesso innegabili, sostieni che la democrazia dei paesi occidentali è fittizia e non rappresentativa degli interessi popolari; ma poiché non posso immaginare che tu sia un sostenitore del regime di Putin (altrimenti non saresti mio amico), devo dedurne che sei un nostalgico di quella “terza via” tra capitalismo (ovviamente selvaggio) e dittatura in nome del proletariato che era tanto di moda tra gli intellettuali di sinistra (socialisti e cattolici) ai tempi della nostra gioventù. Capisco che in tale contesto psicologico un robusto ridimensionamento dell’egemonia americana non ti dispiacerebbe.
  7. Ma per sostituirla con che cosa? Soltanto all’interno di uno stato di diritto (che non significa uno stato dove sempre si rispettano i diritti ma soltanto che riconosce almeno in linea di principio i diritti individuali fondamentali) si può costruire una democrazia in grado di correggere i suoi difetti, a partire dalle distorsioni prodotte dai mercati globalizzati. Non credo che la Russia o la Cina abbiano in proposito qualcosa da insegnarci; se hai dei dubbi puoi chiedere informazioni ai ragazzi di Hong Kong o ai dissidenti arrestati a Mosca.

Cari saluti, Franco Chiarenza.

Il 12 giugno, in coincidenza con il rinnovo di alcune amministrazioni comunali, si vota anche per i referendum proposti dai radicali per modificare l’ordinamento giudiziario. Il liberale qualunque vota sì e spiega perché.
Innanzi tutto per dare un segnale forte di protesta che prescinde dai singoli quesiti e dalle inevitabili tecnicalità che non sono alla portata di tutti; una protesta che riguarda l’inefficienza del sistema sia nella giustizia civile che in quella penale. Una giustizia lenta e inaffidabile non è soltanto ingiusta ma costituisce soprattutto un danno per l’intero “sistema Paese” perché compromette il funzionamento dello stato di diritto, fondamentale non soltanto per la tutela dei diritti individuali ma anche per assicurare la certezza dei diritti e delle regole in una sana e competitiva economia di mercato. Introdurre nell’ordinamento elementi di valutazione sulla produttività dei magistrati consentendo a rappresentanti dell’ordine forense e docenti di diritto di far parte degli organi a ciò preposti servirebbe a ridurre scompensi che penalizzano i tanti magistrati che fanno il loro dovere al meglio delle loro possibilità.
Ci sono poi due punti che ad ogni liberale stanno a cuore: la separazione delle carriere che sancisce competenze diverse e non intercambiabili tra le procure e i giudici, assicurando a questi ultimi quella terzietà tra accusa e difesa che è alla base del diritto penale nella più moderna tradizione giuridica occidentale. Lo sosteneva anche il più grande dei nostri magistrati inquirenti, quel Giovanni Falcone al quale innalziamo statue per meglio ignorarne gli ammonimenti.

In proposito sarebbe necessaria una riforma più radicale che seppellisse definitivamente l’eredità della scuola giuridica tedesca che, al contrario di quella anglosassone, si è sviluppata nell’Ottocento sul principio della superiorità dello Stato su ogni diritto individuale e alla quale dobbiamo il codice fascista di Alfredo Rocco, ancora in gran parte vigente. Ma questo va oltre i referendum di cui discutiamo.
L’altra questione che sta a cuore ai liberali è l’abuso della carcerazione preventiva, spesso utilizzata dalla magistratura inquirente (i pubblici ministeri, tanto per intenderci) come strumenti di pressione per ottenere “collaborazioni” assai poco spontanee e spesso rivelatesi poi inaffidabili.
Vi sono altre questioni, in parte affrontate dalla riforma Cartabia che dovrà essere votata in parlamento nei prossimi giorni: le “porte girevoli” tra politica e magistratura (chi sceglie la politica resti lontano da funzioni giudiziarie), il protagonismo mediatico che incrina seriamente il principio costituzionale della presunzione di innocenza, la violazione sistematica del segreto istruttorio, ecc.
A queste deficienze strutturali denunciate inutilmente da anni si sono poi accompagnate le “rivelazioni” di Luca Palamara che non aggiungono nulla a quanto già si sapeva ma sono gravissime perchè provengono da un protagonista che si auto-denuncia e per il silenzio imbarazzante che le ha accompagnate. Il sì ai referendum significa anche questo: basta a un sistema che ha prodotto danni gravissimi al prestigio della magistratura coprendo sistematicamente corruzione, privilegi, parzialità, trasformandola in un potere occulto su cui i cittadini non riescono ad esercitare alcuna forma di controllo.

L’obiezione principale che i fautori del no oppongono ai referendum riguarda la necessità di affrontare una questione complessa come certamente è la riforma della giustizia in sede parlamentare con tutte le cautele necessarie; il che sarebbe giusto se il parlamento, facendo proprie le resistenze corporative dell’associazione dei magistrati, non avesse sempre rinviato sine die ogni tentativo di trovare soluzioni ragionevoli quali possono scaturire soltanto da un confronto serio e partecipato. I referendum abrogativi che cercano di risolvere le carenze legislative attraverso complicati “taglia e cuci” delle norme esistenti non sono mai auspicabili ma rappresentano l’unico modo di interpretare i sentimenti della pubblica opinione quando il Parlamento non svolge i compiti che la Costituzione gli assegna. La stessa Corte costituzionale non fa che richiamare le Camere ai loro doveri, rifiutando giustamente un ruolo di supplenza che il principio della divisione dei poteri non gli consente.
Naturalmente il passaggio parlamentare sarà ineludibile ma altro è arrivarci con alle spalle un referendum che ha chiaramente indicato i punti critici che vanno affrontati e come risolverli, diversa cosa dare il pretesto per rimettere di nuovo tutto nei cassetti delle burocrazie di Montecitorio e palazzo Madama e ivi lasciarle ammuffire. Come si è fatto in passato.

Franco Chiarenza
9 giugno 2022

Un libro – questo di Gianna Radiconcini – quasi postumo, finito di scrivere pochi giorni prima di concludere la sua lunga attivissima esistenza. Si tratta di una straordinaria testimonianza di vita per almeno tre ragioni: la prima è certamente la singolarità del personaggio che ha attraversato un periodo di cruciali trasformazioni politiche e sociali senza mai perdere l’occasione per sentirsi partecipante attiva di quei cambiamenti. Il secondo motivo di interesse sta nel modo in cui ha vissuto la sua condizione femminile e le complicazioni familiari facendole diventare battaglie per la liberazione della donna in un contesto politico e giuridico che rendeva problematico anche alle più preparate di loro di svolgere un impegno attivo in un mondo ancora fortemente maschilista. La terza, non ultima, ragione di interesse si connette alla sua professione giornalistica che esercitò con scrupolo e passione e che le ha consentito di assistere a molti eventi epocali “in diretta”.
Gianna Radiconcini era una donna d’azione, non soltanto per avere militato dopo la guerra nel partito d’azione (seguendo poi, al momento della scissione, la scelta compiuta da Parri e da La Malfa), ma soprattutto per il suo modo di concepire la politica sempre come impegno militante al quale apportava un entusiasmo “ragazzesco” che sfiorava l’ingenuità. Il che le ha anche consentito di svolgere un ruolo di pressione sul suo partito perchè si facesse carico in sede di governo delle due grandi tematiche che l’appassionavano: la riforma del diritto di famiglia (ancora fermo alle norme fasciste del codice) e la causa dell’unità europea nella visione federalista di Altiero Spinelli di cui era stata grande ammiratrice. L’Europa del trattato di Maastricht con le sue estenuanti mediazioni che si celebravano tra Bruxelles e Strasburgo non poteva soddisfare i suoi slanci idealistici, ma ciò non le impediva di svolgere il suo lavoro di corrispondente della RAI con correttezza e serietà, sempre giustamente denunciando la scarsa attenzione che la politica italiana in quegli anni sembrava dedicare a una questione tanto importante.
Gianna Radiconcini era sempre indignata (e chi, come me, la conosceva, lo sapeva bene) contro qualcuno o qualcosa che violava i principi di moralità politica in cui si riconosceva e, di conseguenza, era poco propensa alla virtù liberale della tolleranza. Non stupisce quindi che il libro rifletta il suo carattere, che certi profili siano tagliati con l’accetta, certi fenomeni vengano interpretati in modo severo e senza attenuanti; il che nulla toglie alla straordinarietà di una testimonianza che percorre quasi un secolo, aprendosi coi ricordi della Resistenza a Roma nel 1944 andando avanti tra alti e bassi sempre in attesa che si realizzi una vera unità europea che invece non arrivava mai.
Sempre attiva fino all’ultimo ha scritto questo libro – gradevolissimo da leggere – in punta di penna, con una vena ironica che non trascende mai nel pessimismo. Lo dovrebbero leggere i più giovani (tra quei pochi che ancora lo fanno) per capire con quanta intensità si può vivere la propria esistenza quando la si considera al servizio degli altri, avendo come guida le proprie idee e la capacità di confrontarle con tutti. Per questa passione un po’ ingenua ma trascinante aveva sempre successo quando andava a parlare nelle scuole; tra ragazzi ci si intende.

Franco Chiarenza

Gianna Radiconcini: Profili a memoria. (La Lepre Edizioni – Roma 2022 – pag.222, euro 16)

Foto di Алесь Усцінаў : https://www.pexels.com/it-it/foto/dopo-l-esplosione-a-kiev-11477798/

Non è il ritorno alla guerra fredda (che era incruenta, almeno in Europa), non è (ancora) una calda guerra mondiale, ma è un conflitto che può durare a lungo e avere conseguenze cruciali per il futuro. Come finirà? A breve termine quasi certamente con la sconfitta dell’Ucraina sottoposta a uno strangolamento progressivo che ne minerà le capacità di resistenza. Le potenze occidentali si troveranno nell’impossibilità di agire per aiutarla più di quanto hanno già fatto per tre ragioni: l’impossibilità di attivare gli strumenti militari della NATO senza rischiare un conflitto nucleare (al di là delle ragioni formali che non impedirono l’intervento nel Kossovo contro la Serbia), le difficoltà crescenti di molti paesi europei sotto ricatto energetico (a cominciare dalla Germania), la scarsa efficacia delle sanzioni in tempi brevi.
Dotare l’Ucraina di armi tecnologicamente avanzate è stato certamente ciò che ha prodotto sorpresa e sbandamento nella prima fase della guerra, costringendo i russi a ripiegare sul Donbass, ma è una strategia che trova due limiti: la mancanza di una adeguata copertura aerea (no fly zone) che gli Stati Uniti non vogliono attivare per evitare una ulteriore escalation, e il timore che nuovi armamenti sofisticati cadano nelle mani dei russi nella fase conclusiva del conflitto (come è avvenuto in Afghanistan ma con la differenza che a Kabul si trattava di armamenti poco più che tradizionali e che comunque i talebani non erano in grado di utilizzare, mentre con i russi sarebbe tutt’altra storia).
Per quanto attiene il ricatto energetico, malgrado gli sforzi di Draghi e di Scholz, per almeno due anni le forniture russe resteranno indispensabili e ciò rende la pace – checchè se ne dica – un obiettivo da conseguire rapidamente. Ad ogni costo? Certamente no e Putin dovrà necessariamente tenere conto che per fronteggiare le sanzioni occidentali la Russia ha bisogno di vendere il proprio gas e soltanto l’Europa (e in particolare la Germania e l’Italia) sono in grado di acquistarlo a prezzi elevati (specialmente se pagati in rubli rivalutati).
Le sanzioni infine. Rappresentano certamente per la Russia un danno non indifferente ma non tale da provocarne il collasso economico, almeno fin quando continueranno le vendite di gas all’Europa. Anche perchè al di fuori delle grandi città più “occidentalizzate” (Mosca e San Pietroburgo soprattutto) l’immensa periferia russa è abituata a consumi contenuti ed è sensibile al richiamo nazionalista dell’orgoglio autarchico (una carta che giocò con successo il fascismo quando l’Italia fu sanzionata per avere aggredito e invaso uno stato indipendente come l’Etiopia; direi che qualche analogia con l’Ucraina è riscontrabile).
Nulla quindi, in tempi brevi, potrà fermare la Russia e si tratta soltanto di capire fino a che punto Putin voglia spingersi; il che dipende da considerazioni che vanno ben oltre l’Ucraina e le rivendicazioni territoriali. Se, come molti analisti sostengono, questa è soltanto l’anteprima di un conflitto tra Russia e Stati Uniti che ha come obiettivo il controllo dell’Europa, tanto benestante economicamente quanto fragile politicamente, la partita sarà lunga e coinvolgerà la Cina, finora piuttosto riluttante a impegnarsi in Europa e in Medio Oriente. Per ridurre l’egemonia americana Xi Jinpeng punta altrove le sue carte (in Estremo Oriente, in Africa, ecc.).

Nei tempi lunghi invece la guerra scatenata da Putin rischia di essere un boomerang per diversi motivi: innanzi tutto perchè con l’adesione della Svezia e della Finlandia all’alleanza atlantica si è favorito quello che per l’autocrate russo è l’accerchiamento occidentale, ridando nuova vitalità (anche militare) alla NATO che pareva ormai destinata alla rottamazione (tre anni fa Macron l’aveva definita “in stato di morte cerebrale”). Inoltre ha dato il via senza più remore al riarmo della Germania senza vincoli europei che costituisce comunque – al di là del ricordo storico – un’alterazione non secondaria degli equilibri militari nel vecchio continente. In secondo luogo perchè la ridefinizione dei confini occidentali con l’incorporazione “manu militari” della Crimea, del Donbass e di altre regioni ucraine determinerà una conflittualità irreversibile (ovviamente alimentata dall’Occidente) che potrebbe protrarsi a lungo; il che renderebbe semi-permanenti le sanzioni e l’isolamento economico e finanziario della Russia con un danno – al netto di acquisti decrescenti di gas – molto più rilevante di quanto ne subisca l’ Europa. Infine Putin sottovaluta l’importanza della “guerra mediatica” che ha accompagnato quella militare; Zalewsky è stato molto abile nel promuovere in tutto il mondo l’immagine dell’Ucraina martire della violenza russa la quale difende con le unghie e con i denti la propria indipendenza, mettendo in difficoltà quei partiti e movimenti occidentali che il regime russo ha favorito e sostenuto in funzione anti-americana (per esempio Le Pen in Francia, Salvini in Italia, Orban in Ungheria, ecc.). Quand’anche la guerra cessasse con la sconfitta militare dell’Ucraina dal punto di vista morale ne uscirebbe vincente la Resistenza ucraina e la ferita inferta alle relazioni russo-ucraine potrebbe restare aperta per intere generazioni.
Ecco perchè la domanda resta sempre la stessa: ne valeva la pena?

Franco Chiarenza
28 maggio 2022