I giochi di Kim

Che, prima o poi, la provocazione nucleare del dittatore nord-coreano Kim Il jong avrebbe mostrato la sua sostanziale inconsistenza era prevedibile; che però avvenisse con un dietro-front così spettacolare lascia perplessi. Che senso ha quello che è successo ? Quali le finalità di Kim? E cosa ha concretamente ottenuto anche considerando i costi dell’operazione, tali certamente da non essere sopportabili da una delle economie più povere del pianeta?

Prima del clamoroso annuncio della sospensione degli esperimenti nucleari erano avvenuti tre fatti importanti: il disgelo tra Corea del nord e Corea del sud in occasione dei giochi olimpici invernali (che si sono svolti in Corea del sud), la strana visita di Kim a Pechino, l’entrata in campo del Giappone.
Il disgelo tra le due Coree dovrebbe trovare conferma nel vertice già previsto tra i due presidenti; capiremo meglio in quell’occasione se davvero ci troviamo davanti a una concreta possibilità di uscire da un regime armistiziale che dura da settant’anni e a quali condizioni.
La visita di Kim in Cina il 28 marzo non è strana per sé, anzi era prevedibile per lo stato di tensione che si era creato tra i due paesi (almeno in apparenza) dopo la performance missilistica nord-coreana, ma per le circostanze che l’hanno caratterizzata e il modo in cui è stata resa pubblica. Treno blindato con a bordo una delegazione foltissima, molta attenzione alle forme e in particolare al riconoscimento “paritario” del leader nord-coreano, conferma ufficiale dell’incontro (con relativa diffusione delle immagini) soltanto alcuni giorni dopo quando Kim era rientrato a Pyongyang. Non si capisce la ragione di tanta cautela. Ma non bisogna dimenticare che nella cultura orientale i simboli e le formalità hanno un valore sostanziale: si tratta di decifrarli correttamente.
Nel frattempo si consolidava un’intesa tra il primo ministro giapponese Abe e il presidente sud-coreano Moon finalizzata a intensificare gli sforzi per una soluzione pacifica della crisi, intesa anche come avvio a un superamento della contrapposizione frontale tra le due Coree.
In tutto questo movimento il presidente americano Trump è parso estraniato. Vero è infatti che una visita segreta di Pompeo (attuale segretario di Stato) nella capitale nord-coreana aveva gettato le basi per un futuro incontro tra Kim e Trump, ma tutto ciò che è avvenuto in questi giorni non si è verificato per una spinta americana ma per processi spontanei che trovano forse la loro origine più a Pechino che a Washington.

Qual è dunque l’obiettivo di fondo di Kim (e forse dei cinesi)? Si possono soltanto formulare alcune ipotesi. La più probabile è che gli errori compiuti da Trump in Estremo Oriente (ormai riconosciuti da lui stesso nel riconsiderare la decisione di “stracciare” il trattato di libero scambio tra i paesi dell’area del Pacifico) abbiano spinto la leadership cinese a ritenere il momento adatto per modificare gli equilibri dell’Estremo Oriente a proprio favore. In tale contesto era necessario tranquillizzare il Giappone e la Corea del sud garantendo che l’affievolirsi della presenza americana non avrebbe comportato pericoli per i loro assetti politici ed economici e che anzi uno sblocco della situazione avrebbe potuto arrecare loro considerevoli vantaggi. Restava però da sciogliere il nodo coreano. E’ probabile che la dirigenza di Pyongyang si sia resa conto dell’impossibilità di mantenere ancora a lungo una situazione di stallo come quella che si protraeva dalla fine della guerra; per uscirne Kim ha adottato la tattica della minaccia aggressiva preventiva dimostrando di avere la possibilità di colpire gli interessi americani indipendentemente dalla Cina. Ciò avrebbe consentito al dittatore nord-coreano di giocare la partita da protagonista avendo chiaro l’obiettivo di fondo: il ritiro degli americani dalla Corea del Sud. Ed è questo che probabilmente Kim chiederà a Trump offrendo in cambio l’avvio di un graduale e prudente processo di unificazione delle due Coree (che trova molti sostenitori anche a Seul) e l’apertura della Corea del Nord all’economia di mercato. La visita a Pechino e la sua pubblicizzazione trionfalistica serviva forse a dimostrare che le mosse successive erano perfettamente coerenti con il disegno strategico cinese.

Difficile immaginare come andrà a finire. Certamente una presidenza americana confusa, pasticciona e pericolosamente insidiata dalle vicende del “Russiagate”, non appare la più adatta a gestire una situazione tanto delicata. Forse Trump comincia a capire che “America first” se significa disimpegno generalizzato può rappresentare un danno irreversibile per l’egemonia americana, una rinuncia a dettare le regole della globalizzazione col rischio che siano altri a farlo con conseguenze certamente non positive per l’America stessa. Insomma ci sono dei prezzi da pagare se si vuole mantenere quella funzione di predominanza politica, economica e ideologica che l’America ha imposto dopo la seconda guerra mondiale e consolidato dopo la caduta del muro di Berlino. Noblesse oblige.

 

Franco Chiarenza
22 aprile 2018

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