Jus soli, jus sanguinis, jus culturae. E se pensassimo a uno jus ragionevole?

Personalmente non sono di quelli che si rammaricano della mancata approvazione della legge che concede la cittadinanza ai minori immigrati; e ciò per molte ragioni che proverò a spiegare nella speranza di potere continuare a frequentare anche i salotti buonisti della “buona società” (naturalmente di sinistra). Definire una legge discutibile come “scelta di civiltà” significa dare degli incivili a coloro che non la condividono e questo in un dibattito tra gente civile è inaccettabile. Naturalmente bisognerà lasciare passare la campagna elettorale per potere ragionare in maniera distesa perché è chiaro che l’argomento da qui a marzo sarà estremizzato dandogli una valenza che obiettivamente non ha.

Cittadinanza e nazionalità
Il concetto di cittadinanza confina strettamente con quello di nazionalità e in quanto tale dovrebbe essere una cosa seria da non concedere – al di fuori di coloro che la ricevono jure sanguinis per essere figli di almeno un cittadino italiano – a nessuno se non a precise condizioni che, implicando un’assunzione di responsabilità, non possono riguardare i minori. Basti pensare che la cittadinanza è condizione primaria per esercitare i diritti elettorali.
Per la verità proprio la destra – quando era al governo – per convenienze elettorali e sulla base di motivazioni altrettanto demagogiche di quelle oggi sostenute dalla sinistra – aveva già snaturato il concetto di cittadinanza concedendola indiscriminatamente agli italiani all’estero, anche quando da molte generazioni non vivevano in Italia. Ma il fatto che si sia compiuto un errore non significa che si debba ripeterlo, sia pure per convenienze rovesciate.

Riforme condivise
Le vicende della riforma costituzionale di Renzi dovrebbero averci insegnato che quando si tratta di questioni fondamentali che attengono alle regole dello stare insieme è necessario ottenere la massima condivisione possibile. Anche le buone ragioni, se imposte con la violenza di maggioranze parlamentari spesso motivate da ragioni politiche che prescindono dai contenuti delle leggi, finiscono per perdere la loro validità.
La legge sullo jus soli spacca l’opinione pubblica in due parti quasi uguali e basterebbe questo a imporre un supplemento di ragionamento. La legge sul testamento biologico, per esempio, ha invece ottenuto un largo consenso, non soltanto in parlamento ma anche nel Paese (come attestano tutti i sondaggi) e perciò può davvero essere definita una “scelta di civiltà” in quanto non impone nulla e consente una libera scelta anche sulla propria morte.

Cittadinanza e diritti
L’argomento più utilizzato dai fautori del cosiddetto jus soli riguarda l’opportunità che i figli degli immigrati possano fruire degli stessi diritti degli italiani, almeno quando sono nati e cresciuti nel nostro Paese; e, in effetti, certe legislazioni straniere lo prevedono (sia pure ad alcune condizioni). Ma si è sempre trattato di fenomeni quantitativamente limitati e che scontavano di fatto (spesso anche con norme specifiche) una rapida e facile omogeneizzazione culturale.
Nel caso degli immigrati in Italia la domanda è: esistono altre modalità per garantire ai loro figli gli stessi diritti che spettano ai nostri? Davvero non si può più ragionevolmente disporre, laddove ancora non avvenga, una loro generale estensione senza disturbare concetti gravidi di conseguenze politiche e morali come la cittadinanza e la nazionalità?
Una domanda alla quale la legge sullo ius soli cercava di rispondere in modo sbagliato: restringendo in modo considerevole le condizioni per ottenere la cittadinanza, con ciò creando nuove discriminazioni tra minori con genitori “regolarizzati” e consenzienti, ed altri che non rientrano nella previsione legislativa o i cui genitori non intendano rinunciare alla loro nazionalità. A forza di pensare agli immigrati ci si è dimenticati che le nostre scuole pullulano da anni di studenti americani, inglesi (molto numerosi a Roma e Milano) romeni, albanesi, ecc. per i quali il problema non si è mai posto e che, se vogliono, chiedono la cittadinanza italiana al compimento della maggiore età ottenendola senza grandi difficoltà. Conosco personalmente molti casi.
Elena, figlia di una domestica romena a servizio da conoscenti, ha studiato in Italia con ottimi risultati e senza particolari traumi. A diciott’anni ha chiesto e ottenuto la cittadinanza ed è felice e contenta. Costantino, figlio di un operaio romeno che lavora in una ditta che svolge lavori di ristrutturazione edilizia, ha studiato in Italia con ottimi risultati e senza particolari traumi. A diciott’anni non ha voluto chiedere la cittadinanza ma vive in Italia come tanti altri, felice e contento.

Responsabilità e minore età
Da liberale aggiungo una considerazione: ai minori non dovrebbe essere imposta alcuna scelta, a cominciare dal battesimo, dalla comunione e dalla cresima. Ogni opzione, religiosa, politica, sociale, dovrebbe essere espressa al conseguimento della maggiore età, previa adeguata preparazione (come giustamente pretende la Chiesa nei casi di conversione) che accerti – quando si tratta della cittadinanza – l’esistenza dei requisiti linguistici, culturali, e di conoscenza dei diritti e dei doveri dello Stato di cui i richiedenti si accingono a far parte.
Basterebbe questa considerazione per spingere un liberale ad opporsi a una legge pasticciata, demagogica, irrilevante ai fini che dichiara di perseguire, come quella che aveva approvato la Camera.

Torniamo dunque a ragionare. L’obiettivo di far venir meno ogni discriminazione legale per i figli degli immigrati che studiano e crescono nel nostro Paese può essere largamente condiviso soprattutto per quanto attiene il diritto allo studio e alla salute. Lo stesso vale per l’attenzione alla loro formazione affinché possano liberamente compiere le loro scelte quando saranno giuridicamente in grado di farlo, rendendo automatico il diritto di conseguire la cittadinanza alla maggiore età quando tali condizioni siano rispettate.
Per quanto invece riguarda le discriminazioni che di fatto si registrano in molte scuole si tratta di un problema – ben noto a tutti gli esperti – molto grave che però non si risolve con norme e prescrizioni legali. I traumi scolastici derivanti dall’esclusione costituiscono d’altronde una realtà ben precedente all’arrivo dei barconi dall’Africa; chi non ricorda le discriminazioni che hanno colpito i figli degli immigrati meridionali (italiani) nelle scuole del nord Italia? Le ragioni del rifiuto dei giovani (e soprattutto dei giovanissimi) ad accettare le diversità hanno motivazioni culturali complesse che affondano le loro radici nelle famiglie e nella società; non è certo con un certificato di cittadinanza da sventolare ai compagni che i pochi studenti che riusciranno a conseguirlo potranno eliminare il disagio. Anzi forse otterranno l’effetto contrario.
Io penso che sia molto più educativo poter dire: “Io sono del Ghana e tu mi devi rispettare non perché fingo di essere italiano ma perché sono un essere umano che vive in questo Paese. Anche a prescindere dal fatto che abbia o meno genitori che lavorano qui, che pagano le tasse qui, che partecipano dei diritti e dei doveri di cui ogni residente dovrebbe disporre.”
Altrimenti finirà che, magari tra dieci anni, ci sarà qualche giovane del Ghana o dell’Eritrea che giunto alla maggiore età rifiuterà orgogliosamente la cittadinanza che gli hanno pretestuosamente affibbiato quando non era in grado di decidere, per riprendersi legittimamente la propria.

Così la penso io. Ma il mio punto di vista resta sempre aperto alle ragioni di chi la pensa diversamente. L’importante è che smettiamo di trattare cose serie con la solita faziosità a cui il nostro modo di fare politica non riesce a sottrarsi: si può essere contrari allo jus soli senza essere fascisti e razzisti, si può essere favorevoli senza essere comunisti che non rispettano l’identità nazionale.
Si potrebbe invece ragionare senza pregiudizi.

Franco Chiarenza
30 dicembre 2017

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