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La crisi in Catalogna ha riacceso l’attenzione su un vecchio tema, già sollevato a suo tempo da Altiero Spinelli, poi riproposto sempre più debolmente in diverse occasioni, fino a scomparire dall’agenda europea negli ultimi anni: quello della cosiddetta Europa delle Regioni. L’idea su cui si fonda la proposta nasceva – non a caso subito dopo la seconda guerra mondiale – partendo dalla constatazione dei danni prodotti dall’esasperazione dei nazionalismi sfociata in due conflitti che avevano sostanzialmente emarginato l’Europa rispetto alle nuove egemonie mondiali. Ci si chiedeva se l’Europa da rifondare non dovesse articolarsi in forme diverse dagli antichi stati nazionali che in fondo altro non erano che costruzioni, talvolta arbitrarie, prodotte dalla cultura statocentrica che il Vecchio Continente aveva ereditato dalla rivoluzione francese. Una nuova Europa quindi formata da grandi entità regionali omogenee per storia, cultura, condizioni economiche, unite tra loro da una federazione modellata sostanzialmente sull’esempio americano. Il tutto però – come appunto negli Stati Uniti – accompagnato da un potere federale forte espresso da un presidente eletto direttamente dal popolo e da un parlamento strutturato in una camera che rappresenti l’elettorato e una seconda costituita dagli stati federati. Un’idea che privilegia le autonomie e che trovò accoglienza nella costituzione che gli anglo-americani imposero alla Germania (per l’evidente preoccupazione che rinascesse il nazionalismo) con la quale vennero di fatto ricostituite entità regionali (lander) in gran parte corrispondenti agli antichi stati esistenti prima dell’unificazione realizzata nel XIX secolo dalla monarchia prussiana, dotate di poteri di governo che trovano il loro limite soltanto in quelli esplicitamente attribuiti al parlamento e al governo federali.
La tendenza a trasformarsi in stati indipendenti è emersa negli anni successivi in diverse parti d’Europa: non soltanto in Spagna (Catalogna e Paesi Baschi), ma anche in Francia (Corsica), in Belgio (Fiandra), in Gran Bretagna (Scozia, Galles e Ulster). Alcuni stati come la Jugoslavia creati – per la verità un po’ artificialmente – dopo la prima guerra mondiale, sono implosi scatenando sanguinose guerre civili e dando luogo a una frammentazione che ha trovato la conclusione di secolari conflitti inter-etnici rendendo indipendenti Slovenia, Croazia, Serbia, Kossovo, Bosnia, Macedonia, Montenegro. Anche la Cecoslovacchia ha visto separarsi (per fortuna consensualmente) la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Pure l’Italia non è stata risparmiata, cominciando dai tentativi separatistici della Sicilia e dell’Alto Adige fino alle fantasiose creazioni “padane” della Lega di Bossi.
La crisi catalana sembra dimostrare che l’argomento è ancora attuale. Ma lo è davvero?

Stati-nazione, realtà ineliminabili
In realtà, malgrado le spinte separatiste, quasi ovunque (almeno in Europa occidentale) gli stati nazionali hanno risolto i problemi delle minoranze ricorrendo ad autonomie anche molto accentuate ma senza mai compromettere le competenze nazionali in politica estera, militare e di controllo sull’economia e la finanza (che, semmai, sono state devolute in parte a strutture sovra-nazionali come l’Unione Europea); anche regioni di comprovate tradizioni storiche, linguistiche, religiose, giunte molto vicine dalla secessione dagli stati in cui la storia li aveva collocati, hanno, alla fine, fatto un passo indietro.
Perché le cose sono andate così? (e andranno così probabilmente anche in Catalogna?)
Perché le motivazioni di orgoglio identitario diventano prevalenti solo quando si associano a meno nobili ragioni economiche, soprattutto quando queste ultime sono manipolate da pochi o molti demagoghi scaltri; non a caso le regioni con velleità secessioniste sono quasi sempre le più ricche. Basta far credere che chiudersi nei propri confini significhi disporre liberamente delle risorse prodotte in loco evitando che vengano utilizzate altrove o per finalità non immediatamente corrispondenti agli interessi della propria comunità. Il che è palesemente falso perché in tempi di globalizzazione non conta soltanto la ricchezza prodotta, ma anche – e forse di più – le norme che regolano gli scambi commerciali e la certezza del diritto per gli attori (sempre più mobili) dell’economia e della finanza internazionale. Nella partita che si gioca per stabilire le regole conta molto la dimensione (fisica, economica, politica, militare) dei soggetti che vi partecipano ed è inevitabile che gli equilibri vengano misurati sulla forza complessiva degli stati, formalmente tutti uguali ma dove qualcuno è più uguale degli altri. Potrebbe – per esempio – la Germania svolgere il suo ruolo egemonico in Europa se ai tavoli che contano invece della Repubblica federale sedessero come entità indipendenti la Sassonia, la Baviera, e gli altri 14 lander che la costituiscono? Qualcuno può pensare che nel direttorio della BCE il governatore della banca centrale slovacca conti quanto quello della Francia? Quanto potrebbe fare la Catalogna indipendente per difendere da sola la propria agricoltura rispetto alle possibilità di essere parte importante di un paese come la Spagna senza il cui accordo nessuna decisione può essere presa? Il mondo degli affari, la finanza, gli imprenditori, l’hanno capito da un pezzo: meglio contare all’interno di uno stato forte e autorevole che non rischiare di restare isolati e impotenti per un riguardo a tradizioni localistiche rispettabili ma oggi politicamente insignificanti ed economicamente motivate soltanto da un egoismo sociale tanto immorale quanto impraticabile. Fiscalità di vantaggio? E’ un’arma a doppio taglio se praticata in paesi che devono investire molte risorse in infrastrutture e deve fare i conti con l’Unione Europea (salvo chiamarsene fuori con tutti i problemi che ciò comporta).

Decidere da sé
A queste obiezioni gli “indipendentisti” rispondono che vogliono decidere da sé il loro destino pur ammettendo che i poteri nazionali sono ormai alquanto diluiti per effetto della globalizzazione e del decentramento, e (almeno in Catalogna), anche per questo, dicono di volere in ogni caso restare in Europa e continuare a far parte dell’Eurozona. Doversi far carico delle funzioni nazionali più impegnative e costose (politica estera, rete diplomatica, spese militari) renderebbe assai meno conveniente l’indipendenza; ignorarle contando sulla propria marginalità nella certezza che altri comunque provvederanno alla loro sicurezza toglierebbe a questi nuovi mini-stati qualsiasi credibilità (e possibilità di contare nelle sedi dove si decidono le strategie internazionali). Se, alla fin dei conti, ciò che dovrebbe cambiare riguarda l’istruzione, la giustizia, la sicurezza interna, l’ordinaria amministrazione, si tratta di materie che possono essere regolate nell’ambito di statuti regionali (come oggi già avviene).
A questo punto l’indipendenza diventa poco più che una soddisfazione sentimentale, perseguita in maniera convinta soltanto da gruppi (minoritari spesso anche all’interno degli schieramenti indipendentisti) che ritengono in una dimensione più ridotta di potere più facilmente effettuare esperimenti istituzionalmente innovativi, in senso autoritario o “socialmente avanzati”; premessa inevitabile di conflitti che possono rapidamente precipitare in un caos di cui le guerre balcaniche ci hanno dato un terrificante esempio.

Catalogna divisa
Un’ultima osservazione. I referendum hanno sempre dimostrato che le secessioni spaccano i paesi pressappoco a metà: creare un’indipendenza condivisa è in tali condizioni un’impresa assai ardua. Decenni (e qualche volta secoli) di unità statuale hanno prodotto inevitabilmente mescolanze, interessi, contaminazioni, strutture burocratiche, legislazioni comuni che è molto difficile dissolvere; il che, se l’indipendenza va in porto, determina tensioni, complicazioni, creazione di nuove minoranze dissenzienti. Lo dimostra quanto sta avvenendo in Catalogna, ma anche le vicende della Brexit; dove lo scioglimento di legami assai meno forti rispetto a quelli consolidati all’interno di stati nazionali secolari, si sta dimostrando difficile e pieno di incognite. Gli osservatori politici sono in proposito concordi: alla fine del percorso ne usciranno tutti più deboli, il Regno Unito ma anche le istituzioni di Bruxelles.

 

Franco Chiarenza
25 ottobre 2017

Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri, insieme ad altri (tra i quali spiccano Mario Monti, Francesco Rutelli ed Emma Bonino), hanno lanciato un appello per il rafforzamento dell’unità europea, denominato “Forza Europa”. A parte il dubbio gusto di scegliere uno slogan che ricorda troppo da vicino il berlusconiano “Forza Italia”, l’appello giunge in un momento in cui la popolarità dell’Unione Europea è scesa a livelli preoccupanti. In poco più di dieci anni l’Europa è passata nell’immaginario collettivo da un’aspirazione salvifica che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi a un’attribuzione di responsabilità per la crisi che stiamo vivendo, altrettanto irrazionale. Leggere su face-book le proteste, le dichiarazioni contrarie, e talvolta purtroppo anche gli insulti contro l’appello di Della Vedova suscita stupore prima che indignazione per l’inconsistenza degli argomenti addotti e per la percezione sbagliata che si ha dell’Unione Europea anche negli interventi più equilibrati.

Perché no
Le ragioni di tanta avversione possono essere riassunte in alcuni slogan ricorrenti:

  • “L’Europa salva le banche e i banchieri invece di occuparsi delle reali emergenze”. Si continua a pensare alle banche come istituti che fanno soltanto gli interessi dei banchieri (visti come orribili sfruttatori) e si dimentica che un sistema bancario efficiente e sicuro rappresenta una garanzia per i risparmiatori, per gli investitori e quindi per la creazione di posti di lavoro. Se il nostro sistema bancario, in alcune sue parti, non corrispondeva a questi criteri, la colpa è nostra non dell’Europa.
  • “L’Europa fa solo gli interessi della Germania”. Il che in parte può essere vero ma si dimentica che la Germania già da anni ha fatto quei “compiti a casa” che le hanno consentito di crescere e di guadagnare credibilità mentre noi ci siamo fermati ogni qualvolta si trattava di fare riforme incisive, continuando così ad aumentare il debito pubblico che è tra i più elevati del mondo. In queste condizioni sono i tedeschi che vogliono liberarsi della nostra zavorra e se ce ne andassimo molti a Berlino accenderebbero fuochi d’artificio per festeggiare. Dopodiché i conti con la Germania dovremo continuare a farli ma in condizioni molto più deboli che non all’interno di un partenariato europeo dove, almeno formalmente, il nostro voto conta quanto quello tedesco.
  • “L’Europa ci toglie la sovranità”. Come dire che da soli risolveremmo meglio i nostri problemi. A prescindere dal fatto che l’Europa toglie sovranità a noi nella stessa misura in cui la toglie agli altri e che i trattati che lo prevedono li abbiamo sottoscritti perché far parte di un mercato ampio e senza dogane era molto conveniente per un paese come il nostro fondamentalmente esportatore, quello che è criticabile (ed è largamente condiviso) è il fatto che la perdita di sovranità sia avvenuta a vantaggio di organismi sostanzialmente intergovernativi (come la Commissione e il Consiglio) senza un significativo controllo democratico (affidato soltanto in parte al Parlamento Europeo). Il che dovrebbe spingere a completare la costruzione dell’unità europea, non a smantellarla. Ma poi: vogliamo tornare al protezionismo? Non conviene a nessuno, men che meno all’Italia.
  • “Bisogna uscire dall’euro e tornare alla lira manovrando sul cambio per facilitare le esportazioni”.
    Restare o uscire dall’Eurozona è motivo di dibattito, ma è cosa diversa dall’uscita dall’Unione. Tuttavia sono abbastanza vecchio per ricordare cosa significavano le “svalutazioni competitive”: necessità di confrontarsi con altre monete anch’esse soggette a variazioni di cambio, tornare alle transazioni in dollari americani, e, soprattutto, alimentare l’inflazione (che infatti, negli anni “felici” delle svalutazioni arrivava a superare il 10% l’anno). L’adozione dell’euro ci ha consentito un decennio di stabilità dei prezzi, ci ha obbligato a contenere la spesa pubblica, ha costretto l’industria a puntare sull’innovazione di prodotto, ha facilitato gli scambi internazionali. Ci sono delle criticità? Certamente sì, lo riconoscono anche i banchieri centrali. Ma anche in questo caso si tratta di andare avanti, per esempio armonizzando i sistemi fiscali. Il che significa che il nostro Paese, allineandosi alla media europea degli oneri fiscali, avrà meno gettito disponibile da spendere e il nodo delle mancate riforme di struttura (che ci fanno perdere decine di miliardi l’anno) tornerebbe ad essere fondamentale. Perché le riforme vanno fatte e non è colpa dell’Europa se non le abbiamo fatte; al contrario, è l’Europa che ce le chiede da molti anni.

Conclusioni amare
L’ondata di fango sull’Europa, ampiamente alimentata dai mass-media (penso soprattutto ad alcuni talk-show superficiali e demagogici), non è giustificata. Capisco che dipende in gran parte da pulsioni incontrollabili che riflettono la preoccupazione di una crisi che non finisce mai e che produce disoccupazione, compressione dei ceti medi, aumento della povertà. Molti pensano che la strada imboccata sessant’anni fa con l’apertura dei mercati, la globalizzazione, le istituzioni sovranazionali, fosse sbagliata. I liberali degni di questo nome sono convinti del contrario: se non avessimo scelto quella strada staremmo molto peggio. I non liberali, liberi cittadini comunque, hanno il diritto di pensare diversamente, ma quel che emerge dalle reazioni all’appello di Della Vedova è ben altro, molto più preoccupante:

  • ignoranza diffusa sull’Unione Europea: come funziona, quali sono i suoi organismi, qual è il livello di partecipazione italiana.
  • scarsa conoscenza delle più elementari leggi dell’economia e anche della reale composizione della struttura sociale del nostro Paese.
  • completa disinformazione sui benefici che provengono dall’Europa (libertà di circolazione, sovvenzioni di progetti, scambi culturali, coordinamento delle politiche commerciali, ecc.)
  • nostalgia del passato (peraltro ignorato nella sua realtà) e ritorno al protezionismo, anche quando (o soprattutto perché) esso protegge l’inefficienza, la mediocrità, la corruzione.
  • rifiuto della globalizzazione immaginata come causa dell’immigrazione incontrollata, della disoccupazione e dei cambiamenti sociali che hanno modificato il tenore di vita di parti consistenti della popolazione.

Al netto degli insulti, che servono soltanto a mascherare l’incompetenza e l’ignoranza, c’è davvero da preoccuparsi. Conoscere per deliberare, diceva Luigi Einaudi. Non è che la scuola, estraniandosi da qualsiasi insegnamento di educazione civica, ha per caso qualche responsabilità?

 

Franco Chiarenza
21 marzo 2017

Si chiamano Angela (Merkel), Francesco (Hollande), Mariano (Rajoy) e Paolo (Gentiloni). Hanno stretto un patto di ferro: andare avanti nell’integrazione europea come unica risposta possibile all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione e alle turbolenze del nuovo presidente americano che investono a fasi alterne anche l’Europa. Un primo forte segnale di discontinuità lo hanno dato al consiglio europeo imponendo la riconferma alla presidenza del polacco Tusk malgrado l’opposizione del governo polacco oggi guidato dai suoi avversari conservatori e nazionalisti. Ma l’impegno più significativo è atteso dal vertice straordinario convocato a Roma per celebrare i 60 anni della nascita della Comunità Europea dal quale dovrebbe scaturire l’atto di nascita di un’Europa a due (o più) velocità. Resta però il fatto che tutti e quattro i “moschettieri” potrebbero non essere più al loro posto di qui a pochi mesi.
Il caso della Merkel è quello che preoccupa meno: la competizione elettorale di ottobre in Germania non dovrebbe dare grandi sorprese, e anche nel caso che vincesse il socialista Schultz l’impegno per l’Europa non verrebbe certamente meno (Schultz è stato per molti anni presidente del parlamento europeo).
Hollande non sarà invece sicuramente più presidente e le elezioni francesi rappresentano la maggiore incognita per il futuro dell’Europa; se dovesse vincere Marina Le Pen il discorso si chiuderebbe prima ancora di cominciare, anche con Fillon è lecito qualche dubbio sulla sua tenuta europeista, i socialisti sembrano fuori dai giochi. Soltanto una miracolosa vittoria di Macron darebbe garanzie certe per un rilancio dell’unità europea.
Rajoy è un presidente precario senza una maggioranza certa; da un momento all’altro i socialisti potrebbero rovesciarlo e anche in Spagna nuove elezioni presentano forti rischi di instabilità. Se dovessero aumentare i consensi dei “podemos” (una variante iberica dei “cinque stelle”) il discorso europeo sarebbe seriamente compromesso.
Quanto a Gentiloni lo sappiamo bene; arriverà fino alla scadenza della legislatura ma dopo le elezioni è molto improbabile che sarà ancora lui a guidare il governo. Se gli succederà Renzi dobbiamo prendere atto che nel suo discorso congressuale al Lingotto l’unificazione europea è tornata al centro dell’attenzione, e in generale tutto il PD è su posizioni europeiste. Se invece i “cinque stelle” o l’estrema destra di Salvini e Meloni divenissero determinanti il primo siluro partirebbe certamente per affondare i progetti di rafforzamento delle istituzioni europee.

Mi pare di essere seduto su un vulcano che conosco bene, l’Etna. Quando comincia a brontolare si sa che sta per eruttare ma non si sa mai a quale altezza e in quale direzione. Se apre le sue bocche sulla valle del bove tutti tirano un respiro di sollievo: non farà danni e dopo essersi sfogato tornerà in letargo. Ma quando le lingue di fuoco escono dalla parte dei paesi e della stessa città eretta sotto la montagna la lava può distruggere tutto ciò che è stato costruito e ci vogliono decenni per ricominciare. E’ già successo; al centro della piazza del Duomo a Catania un antico elefantino in pietra lavica sta lì a ricordarcelo.

Franco Chiarenza
14 marzo 2017

Inutile girarci intorno: questo è il problema. Oggi come mai in precedenza, perché l’inattesa svolta americana ci rivela che l’Europa, di cui – piaccia o meno – rappresentiamo una componente importante, è il re nudo della famosa favola di Andersen.

Europa sì
Uno dei luoghi comuni ricorrenti è che l’Europa è nata male perché concepita soltanto sulla dimensione dell’economia di mercato, senza una “testa” politicamente responsabile e senza sensibilità sociale. La verità è che l’Unione Europea non poteva probabilmente che nascere così; nella storia nulla è casuale e ci sono motivazioni reali e profonde perché le cose siano andate nel modo in cui sono accadute malgrado gli sforzi di una classe dirigente che nei principali paesi del continente non mancava occasione per dichiararsi europeista. Ma anche così, con regole cogenti per regolamentarne i mercati e certamente sbilanciata sul piano politico e militare a favore dell’ombrello protettivo americano, la Comunità Europea ci ha consentito di crescere come mai in precedenza, di assicurare alla maggioranza della popolazione un tenore di vita tra i più elevati al mondo, di creare una rete complessa di rapporti interdipendenti che hanno permesso ai giovani di sentirsi europei a prescindere dalle differenze di lingua, di culture, di religioni. Non succedeva dai tempi dell’illuminismo quando sulla spinta del rinnovamento umanistico e rinascimentale l’Europa riaffermò la propria egemonia culturale sostanzialmente unitaria, al di là dei conflitti militari e dei conflitti politici che la dividevano.
Il trattato di Schengen ha aperto i confini di molti paesi consentendo a uomini e merci di muoversi liberamente senza visti e passaporti, come in una sola nazione; il progetto Erasmus ha permesso a centinaia di migliaia di giovani di viaggiare e fare esperienze in paesi diversi dal proprio.
L’unificazione monetaria ha assicurato ai paesi che hanno aderito all’Eurozona anni di stabilità nei prezzi eliminando le crescite fittizie fondate sulle manovre del cambio e costringendo la nostra industria manifatturiera a realizzare innovazioni di prodotto che l’hanno resa più competitiva; se non ha conseguito a pieno gli effetti positivi che ha avuto in altri paesi la colpa è soltanto nostra. Abbiamo sottovalutato l’importanza delle infrastrutture in una economia globalizzata dove i fattori della competizione non riguardano soltanto il costo del lavoro ma anche (e forse soprattutto) le infrastrutture: siano esse quelle culturali (scuole e università), dei servizi (soprattutto giustizia e servizi legali), dei trasporti (ferrovie, porti, autostrade), del credito (banche e strutture di sostegno agli investimenti), della pubblica amministrazione, della sicurezza; tutti settori in cui siamo rimasti indietro, condizionati dai ricatti elettorali di corporazioni variamente costituite che hanno sempre ostacolato qualsiasi cambiamento radicale. Con chi ce la vogliamo prendere? Siamo arrivati al punto di perdere cospicui finanziamenti pur di non adeguarci alle rigorose regole anti-corruzione pretese da Bruxelles, mentre in altri paesi (vedi Spagna) si rimettevano a nuovo coi soldi europei (e quindi anche nostri). Colpa della Merkel, brutta (il che è vero) e cattiva (il che non è vero)?

Europa no
In Europa contiamo sempre meno. L’asse franco-tedesco, perno essenziale degli equilibri continentali, è sempre più inclinato verso Berlino mentre i problemi del Mediterraneo (non ultimo quello dell’immigrazione selvaggia) sono vergognosamente trascurati. Il trattato di Schengen andava bene quando riguardava essenzialmente gli europei, è diventato un disastro quando ha consentito a centinaia di migliaia di immigrati clandestini di sfuggire a qualsiasi controllo. E infatti è stato precipitosamente sospeso da molti paesi quando l’invasione ha assunto dimensioni senza precedenti.
L’euro forte favorisce la Germania e le sue esportazioni, e se anche fosse vero che il suo surplus commerciale è il risultato di scelte di politica economica virtuose (al contrario delle nostre) come faremo a risalire la china senza concrete misure di sostegno incompatibili con i severi vincoli del trattato di Maastricht?
Per queste ragioni i sostenitori del ritorno alle piene “sovranità nazionali” ritengono che la flessibilità necessaria ai paesi mediterranei (Italia, Grecia, Spagna) si possa ottenere soltanto abbandonando l’Eurozona e tornando al controllo nazionale dei cambi. Politiche sociali di sostegno per il lavoro possono essere realizzate soltanto tramite politiche protezionistiche variamente calibrate in base ad accordi bilaterali, come Trump si propone di fare per correggere gli squilibri commerciali con la Cina, il Giappone e la Germania responsabili delle delocalizzazioni industriali e dei problemi sociali connessi. I vantaggi di un’Europa unita sono stati reali ma rappresentano un’eredità del passato che oggi non corrisponde più alle convenienze di paesi come il nostro. La Brexit e la vittoria di Trump in America hanno contribuito a rafforzare queste tesi; è sempre più difficile convincere le opinioni pubbliche (una volta prevalentemente europeiste) della convenienza a restare in un’Unione Europea fondata sull’asse Berlino – Francoforte. Il fatto che per ora – ma non ancora per molto – la Banca Centrale Europea sia governata da un italiano attutisce ma non elimina il problema.

Europa forse
Il fatto è che la costruzione europea rappresenta una sfida. Vere o sbagliate che siano le ragioni dell’exit o del remain occorre esaminare il problema adottando ottiche diverse, se non si vogliono compiere errori irrimediabili.
Innanzi tutto bisogna considerare realisticamente se tornare indietro sia possibile, quanto ci costerebbe e se sarebbe davvero conveniente; aspetterei di vedere cosa succederà con la Gran Bretagna che pure era assai meno integrata di noi nell’Unione.
Poi occorre capire se le svalutazioni competitive rappresenterebbero davvero quella panacea che alcuni immaginano per risolvere i problemi dell’occupazione mantenendo tutte le nostre cattive abitudini (che è il vero sogno di tanti italiani). Perché le condizioni del mercato internazionale non sono più quelle di tanti anni fa e perché il rischio delle ritorsioni protezionistiche è assai più elevato.
Se riavere il controllo sulla propria moneta significa – come mi pare pensino molti fautori dell’Italexit – aumentare la spesa pubblica per sostenere i bisogni sociali, occorre capire se ciò comporterebbe una ripresa dell’inflazione come già la conoscemmo in passato. L’inflazione – insegnava Einaudi – è la più ingiusta delle tasse perché grava in maniera inversamente proporzionale su ricchi e poveri.
Se però restare in Europa significa lasciare le cose come stanno gli svantaggi per l’Italia potrebbero aumentare e rischieremmo, come la Grecia, un avvitamento verso il basso che ci renderebbe sempre più periferici negli equilibri continentali. Bisogna quindi restare in Europa e cambiarla. Questa è la vera sfida.
Trump forse ci aiuterà; ritirando l’ombrello a stelle e strisce ci costringerà a fare i conti con noi stessi. E i conti sono presto fatti: ci conviene essere una piccola parte di un’Europa grande e potente in grado di fare valere le sue (e nostre) ragioni, piuttosto che restare soli a cercare alleanze bilaterali che somiglierebbero pericolosamente a quelle tra un topo e un leone ?
Ma perché l’opinione pubblica si convinca di questo occorre fare sul serio; il passo compiuto dalla cancelliera Merkel in direzione di un’Europa forte tra chi ci sta, va nella giusta direzione.
Ma resta da definire come, in quali tempi, con quali passaggi, verso quali conclusioni. Dovremo attendere le elezioni francesi e tedesche per capire meglio? Forse sì; un’Europa senza la Francia e la Germania non è nemmeno immaginabile.

Franco Chiarenza
13 febbraio 2017