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Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella davanti al Parlamento in seduta comune per la cerimonia di giuramento
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Non c’è che da scegliere: da destra a sinistra passando per i talk show apparentemente neutrali è tutto un fiorire di lamentazioni sulla incapacità dei partiti, sulla loro inarrestabile crisi, sullo “spettacolo indecoroso” offerto dai mille grandi elettori, sui ritardi incompatibili con una seria democrazia, e chi più ne ha più ne metta. Dall’alto dei miei anni (pari a quelli di Mattarella) resto un po’ stupito e divertito. Scopriamo adesso che i partiti – almeno nel formato ideologicamente compatto di cinquant’anni fa – sono in crisi? E, dopo avere inveito contro la partitocrazia che toglieva autonomia ai rappresentanti del popolo, adesso che è successo ce ne lamentiamo? E quante volte l’elezione del presidente della Repubblica è avvenuta attraverso accordi di segreteria? Pochissime, mi pare. Tempi lunghi? Uno dei presidenti più popolari della storia repubblicana – Sandro Pertini – fu eletto alla sedicesima votazione. Ho l’impressione – ma forse sbaglio io – che le cose siano andate diversamente da come la raccontano tanti commentatori ed esperti delle vicende politiche.

Facciamo il gioco alla rovescia. Qual era il vero problema politico che rendeva importante questa elezione più di quanto sia avvenuto in passato? Il fatto che la presenza di Draghi era indispensabile per la sopravvivenza del governo – nessun altro essendo in grado di prenderne il posto con la stessa autorevolezza – e che quindi non era opportuno trasferirlo da palazzo Chigi al Quirinale. Molti giornalisti si sono lasciati influenzare dalla disponibilità espressa da Draghi ma in realtà si trattava soltanto di una mossa tattica che serviva a portare allo scoperto le manovre di chi voleva affossarlo non come candidato al Quirinale ma come inquilino di palazzo Chigi; il silenzio di Letta, il blocco degli astenuti, preludevano a un chiarimento definitivo sul governo non sulla presidenza della Repubblica. La manovra infatti ha messo in gravi difficoltà Salvini il quale da un lato non voleva lasciare alla Meloni il monopolio della rappresentanza degli umori populisti e sovranisti (per i quali personalmente ha molta simpatia) ma dall’altra doveva tenere conto del cosiddetto “partito dei governatori” (Zaia, Fontana, e Fedriga, con Giorgetti dietro le quinte) schierato nettamente a favore dell’orientamento filo-europeo e filo-atlantico del governo.
Ma se Draghi era indispensabile a palazzo Chigi (almeno per ora) chi al Quirinale? Qualcuno che presumibilmente non lo tenesse occupato per l’intero settennato e che desse garanzie di continuità con la politica di Mattarella. E chi meglio di Mattarella stesso?
La verità è che sulla sua riconferma erano tutti d’accordo, salvo la Meloni che vedeva così naufragare il suo progetto di affondare Draghi ricattando Salvini e conseguire il duplice obiettivo di fare fallire il PNRR e andare a elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale che gli consentirebbe di assicurare a una destra egemonizzata da Fratelli d’Italia la maggioranza nel nuovo parlamento. C’era però un problema che riguardava la persona di Mattarella, non tanto per i suoi scrupoli costituzionali quanto per la necessità di spiegare all’opinione pubblica che l’opzione della riconferma nasceva da una impossibilità di trovare altre soluzioni condivise.
Per questa ragione Letta e Salvini (con Letta zio, cioè Gianni come arbitro?) hanno giocato a porte chiuse una partita di ping pong rimbalzandosi candidature reciprocamente inaccettabili. La Meloni l’aveva capito e candidando la Casellati (e poi la Belloni) cercava di mettersi di traverso; tuttavia la presidente del Senato era per molte ragioni impresentabile (ed è stata infatti cecchinata all’interno del centro-destra) e la Belloni era troppo poco conosciuta per rappresentare una candidatura credibile (e tuttavia si trattava di una mossa abile che non a caso Renzi ha cercato subito di “sterilizzare” con l’accusa pretestuosa della sua permanenza nei servizi segreti).
Fallita la manovra della Meloni, Salvini ha fermato l’ascensore col quale stava salendo da lei a metà strada e invece di imboccare il suo ufficio si è ritrovato in quello di Letta per l’ accordo definitivo.

Fantapolitica? Forse soltanto politica che da sempre passa anche attraverso espedienti tattici purché funzionali alle finalità strategiche (che in questo caso investono il futuro del Paese che non lo sa ma è davanti a un bivio: o con Macron e Scholz verso l’integrazione europea o con Orban e Kaczynski verso la sua dissoluzione).

Naturalmente la storia non finisce qui: Mattarella non potrà restare al Quirinale per altri sette anni, lo sanno tutti a cominciare da lui. Il problema si riproporrà quindi tra un anno. Dopo le elezioni, dicono i soliti “quirinalizi”. Ma, mi permetto di osservare, perché mai? Se l’obiettivo sarà a quel punto di portare Draghi finalmente in sicurezza in cima al Colle, meglio farlo con questo parlamento dove esiste un’obiettiva convergenza sull’opportunità di garantire attraverso la sua persona le relazioni con l’Europa e le alleanze internazionali piuttosto che correre il rischio di nuovi rapporti di forza che potrebbero scaturire dal prossimo parlamento. Non vi pare? Oppure sto confondendo i miei desideri con una realtà del tutto diversa?

Franco Chiarenza
06 febbraio 2022

Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Il teatrino cui stiamo assistendo in questi giorni mostra quanto in basso sia caduta la nostra stampa; giornali considerati a suo tempo autorevoli alimentano un gossip senza fine sulle intenzioni di voto dei circa mille grandi elettori chiamati a gennaio a scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Pronostici senza senso si intrecciano con manovre poco trasparenti per rendere ancora più difficile una decisione che, per un insieme di circostanze, assume un’importanza maggiore che in passato.
La scadenza del settennato di Mattarella coincide infatti con un passaggio fondamentale dell’azione di governo di Draghi, quello in cui l’Unione Europea avrà i primi elementi per verificare la credibilità del nostro Paese nell’utilizzazione dei fondi straordinari (PNRR) che vengono messi a disposizione per avviare incisive riforme di struttura. A questo si aggiunge una difficile fase della politica internazionale in cui gli Stati Uniti sono passati dall’isolazionismo di Trump all’attivismo di Biden, con le conseguenti tensioni in Ucraina e a Taiwan, mentre l’Europa dopo la costituzione del nuovo governo tedesco attende di conoscere il risultato delle elezioni francesi l’anno prossimo per capire se attraverso una saldatura strategica tra Germania, Italia e Francia essa potrà tornare ad avere voce in capitolo. Al centro di questi intrecci, decisivi per il nostro futuro, c’è Mario Draghi, il solo che ha il prestigio internazionale per fare dell’Italia, per la prima volta da molti anni, un protagonista della partita e non una semplice comparsa.

Di tutto ciò nessuno dubita. Il problema è: da quale palazzo Draghi potrà meglio svolgere il ruolo che le circostanze gli impongono?
La risposta più logica porta a scegliere il Quirinale soprattutto per le garanzie di stabilità e di indipendenza che i sette anni di mandato garantiscono al Capo dello Stato; ma chi potrà con la stessa autorevolezza prendere il suo posto a palazzo Chigi, dove comunque, a costituzione invariata, si attuano le strategie politiche nazionali?
Attualmente, stando ai sondaggi più credibili, nuove elezioni non sarebbero in grado di assicurare maggioranze stabili: il Paese è diviso in due schieramenti contrapposti entrambi al di sotto della soglia di governabilità, il che prefigura uno scenario di variabilità politica come quello che già abbiamo vissuto recentemente con Conte e le sue maggioranze intercambiabili. Uno scenario che ci farebbe perdere tutta la credibilità internazionale faticosamente conquistata.
La soluzione migliore sarebbe quindi che Draghi restasse a palazzo Chigi il tempo sufficiente per avviare la seconda fase del Recovery Plan e il suo trasloco al Quirinale venisse rinviato alla fine dell’anno prossimo quando di fatto il governo sarà comunque paralizzato dalle divisioni tra i partiti impegnati nella campagna elettorale. Un trasferimento che potrebbe servire anche ad accelerare di qualche mese la scadenza elettorale.
Ma per ottenere questo risultato Mattarella dovrebbe accettare una rielezione che andrebbe incontro al desiderio di gran parte della pubblica opinione ma che il Capo dello Stato ha però, a più riprese, escluso, lasciando intendere che la soluzione va trovata a Montecitorio dove i partiti devono decidere – di fatto – se procedere nell’esperimento Draghi (lasciandolo a palazzo Chigi e individuando una candidatura accettabile e più defilata per il Quirinale) oppure “resettare” la maggioranza di governo imbalsamando Draghi al Quirinale. Questo, per lo meno è ciò che sembra, ma non è detto che le cose stiano davvero così.
Sergio Mattarella infatti è un uomo politico di lungo corso, conosce le trappole e i sentieri meno visibili dell’arte di governo, e sa che la carta di un’eventuale rielezione per essere attendibile va giocata all’ultimo momento, quando si è verificato sul campo che non vi sono alternative possibili e non deve scaturire da un accordo preventivo tra i partiti. Non prima quindi della quarta votazione a Montecitorio.

In effetti, al momento attuale, non si vede una candidatura che abbia serie possibilità di riuscita: non Berlusconi che sa di non potere contare su molti voti della destra, al di là di quelli che dovrebbe raccogliere nel magma confuso dei Cinque Stelle; non Marta Cartabia che sconta l’avversione del “partito dei giudici” nascosto ma presente in tutto il centro-sinistra; non Giuliano Amato per ragioni anagrafiche ma soprattutto per quel “fumus” di craxismo che non lo rende simpatico al PD e ai Cinque Stelle; non Gentiloni, la cui presenza a Bruxelles è in questo momento di cruciale importanza. Né vedo tra le “soluzioni B” di cui parlano i giornali altre candidature in grado di superare la soglia fatidica necessaria all’elezione; senza contare che un presidente eletto faticosamente dopo molte votazione apparirebbe una soluzione inadeguata alla gravità del momento.

I frequentatori delle prime dei teatri lirici non rappresentano certo la realtà del Paese, ma le ovazioni della Scala e del San Carlo con la richiesta di un bis che non riguardava gli spettacoli in scena forse sono più significative di quanto possa sembrare; ci sono stati nella nostra storia altri momenti in cui le platee teatrali hanno indicato la strada da percorrere, come il nostro presidente sa bene.

 

Franco Chiarenza
30 dicembre 2021

Di Sconosciuto – [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15871438

Il fascismo è stato molte cose. Innanzi tutto un regime fondato sull’autoritarismo carismatico di un dittatore e su una concezione razzista della società che ha governato in alcuni paesi europei (Italia, Germania, Spagna) nella prima metà del secolo scorso. Esso fu il prodotto di un disagio profondo che attraversò l’Europa dopo la prima guerra mondiale infrangendo i precedenti equilibri politici e sociali. La sua ideologia derivava da una lettura deformata delle filosofie di Nietzsche e di Sorel e si esprimeva ostentando sentimenti di radicale ostilità nei confronti dei sistemi liberal-democratici, ragion per cui essa si iscrive a giusto titolo (insieme al comunismo leninista e al radicalismo islamico) nelle teorie totalitarie che pretendono di permeare ogni aspetto della vita civile come in una gigantesca caserma abitata da automi obbedienti.

Ma al di là di questi aspetti “culturali” che – almeno in Occidente – sono stati sepolti dalle rovine della seconda guerra mondiale, è rimasto ed è tuttora vitale un metodo di fare politica che dal fascismo deriva e che riesce ancora oggi a esercitare una certa attrazione nelle persone più fragili, nelle minoranze smarrite che popolano i margini di ogni sistema sociale strutturato su regole di convivenza, nei giovani abbagliati dal mito della forza fisica e dalla voglia di comparire ad ogni costo perchè solo così si sentono vivi. E’ il metodo fascista e resta tale chiunque lo utilizzi, destra, sinistra, centro, a prescindere dalle motivazioni, quasi sempre peraltro ambigue e confuse. E’ il ritorno alla barbarie cavernicola dell’età della pietra quando per prevalere le diverse tribù si spaccavano le rispettive teste, fin quando scoprirono – come ricordava ironicamente Einaudi – che piuttosto che rompersele reciprocamente era meglio – per risolvere i conflitti – contarle. Ed è da allora che cominciò la lunga marcia delle democrazie e dello stato di diritto dove le controversie sono regolate dalle leggi e il governo trae la sua legittimità dal principio di maggioranza (che i liberali hanno temperato, per contrastare possibili deviazioni populiste, con i diritti personali imprescindibili).

Quello che è successo in molte città italiane – a cominciare da Roma – non è una novità. Esistono gruppi organizzati di facinorosi che spacciano la violenza teppistica per rivoluzioni politiche (che sono altra cosa perchè indirizzate a rovesciare regimi illiberali e oppressivi) pronti a cogliere ogni occasione per contrapporsi al potere legittimo dello Stato. Cambiano nome (black block, gilet gialli, naziskin, combattenti proletari, ecc,), indossano divise di colore diverso, ma sono tutti metodologicamente fascisti perchè non tollerano il pluralismo delle idee e le regole che lo governano.

Contro costoro, comunque si chiamino, qualunque sia il pretesto di cui si servono, lo Stato ha il diritto e il dovere di intervenire senza remore, e i partiti devono smettere di denunciare i gruppi eversivi soltanto quando la loro presunta ispirazione ideologica è lontana dalla propria. Il fascismo rosso non è diverso da quello nero e i movimenti che legittimamente mobilitano i loro militanti dovrebbero fare attenzione a non consentire mai ai provocatori in servizio permanente di strumentalizzare le loro ragioni. Basterebbe questo e i teppisti resterebbero isolati nel loro narcisismo criminale mentre la giustizia farebbe il suo corso senza la preoccupazione di alimentare un ingiustificabile vittimismo come quello che ostentano alcuni capi-bastone quando ricevono ciò che meritano: la condanna penale prevista dalla legge.
Punto e basta.

Franco Chiarenza
14 ottobre 2021

© Carlo Calenda/Twitter

  1. Perché è l’unico candidato che rifiuta i genericismi ideologici (è di destra o di sinistra?) ma affronta i problemi concreti suggerendo soluzioni pragmatiche (dove, quando, perché, con quali risorse).
  2. Perché ha rifiutato i condizionamenti clientelari che si celano dietro le svariate “liste di supporto” che affiancano Michetti e Gualtieri.
  3. Perché è netto nella sua opposizione all’operato della Giunta Raggi e non accetterebbe mai un’alleanza coi grillini per il ballottaggio (come invece probabilmente farà Gualtieri su indicazione di Letta).
  4. Perché è venuto il momento di scegliere gli uomini di governo per la loro competenza e affidabilità lasciando ai globetrotters dei social il gossip delle apparenze per nascondere quanta poca sostanza hanno le loro argomentazioni.
  5. Perché non ha nulla a che fare né con gli apparati di sottogoverno cittadino che la Meloni ha ereditato da Alemanno né con quelli speculari che sotto l’ala protettiva di Bettini hanno sempre fatto il bello e cattivo tempo nelle giunte di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni ne sanno qualcosa!).
  6. Perché è l’unico a dire chiaramente che i termovalorizzatori non sono tumorifici e risolvono in gran parte il problema della spazzatura (che la Raggi è stata costretta a piazzare a caro prezzo nei “tumorifici” esistenti oppure ad abbandonarla per strada, come i romani sanno bene).
  7. Perché è l’unico a dire chiaramente che bisogna investire nelle metropolitane, nelle tramvie protette e veloci, e non soltanto in piste ciclabili maltenute e poco protette o in improbabili funivie che avrebbero costi di costruzione e di esercizio sproporzionati rispetto alla loro utilità.
  8. Perché fa meno demagogia degli altri candidati e non liscia il pelo alle corporazioni che soffocano da sempre lo sviluppo della Capitale (a cominciare dai tassisti e dalle categorie protette per finire allo scandalo delle licenze e dei permessi dietro il cui rilascio si cela una diffusa corruzione).
  9. Perché anche se porta il Rolex e vive ai Parioli (il che in realtà non risulta) è una persona per bene. Ma perchè se ad abitare ai Parioli e indossare orologi preziosi sono personaggi della sinistra nessuno ha nulla da ridire
  10. Perché viene criminalizzato da tutti coloro che temono l’arrivo a Roma di qualcuno che adotti lo stesso metodo di governo di Draghi: ascoltare tutti e decidere assumendosene la piena responsabilità. E gli intrugli, le connivenze, i parentadi, gli scambi di favori, le centinaia di inutili poltrone e poltroncine, dove andrebbero a finire? Meglio Michetti e Gualtieri, con loro ci si può intendere.

Un voto inutile? obiettano molti che pur ne condividono il programma. Non lo è in nessun caso, anche se è molto probabile che al ballottaggio vadano Gualtieri e Michetti, perché un’affermazione di Calenda a Roma segnerebbe l’esistenza di uno spazio elettorale anche a livello nazionale nettamente differenziato dall’asse Letta/Conte promosso dal PD e ancor di più dall’alleanza Salvini/Meloni che non lascia più posto a una destra moderata (soprattutto dopo la scomparsa politica di Berlusconi).

Per queste ragioni – a mio avviso – i liberali dovrebbero votare Calenda, lasciando da parte le tante etichette pretestuosamente liberali che spesso nascondono soltanto modeste ambizioni personali, o certi “distinguo” terminologici (è azionista, è liberal-socialista, ecc.) che non hanno più alcuna ragione di essere. Al di là degli esami del sangue oggi è liberale chi sostiene proposte serie e compatibili con lo stato di diritto e l’economia di mercato. Il resto è fuffa.

Franco Chiarenza
01 ottobre 2021

Le uniche parole di buon senso che ho letto sulla vicenda sempre più complicata del progetto di legge Zan sono quelle pronunciate da Ettore Rosato, esponente di spicco del piccolo partito dei renziani, quando ha affermato che quando sui problemi veri si cominciano ad appiccicare bandierine ideologiche è il modo peggiore di venirne a capo in maniera efficace e condivisa.
E’ appunto il caso del progetto Zan che scaturisce da un problema reale (la tutela dei diritti di quanti hanno tendenze sessuali diverse da quelle considerate normali) ma sul quale i partiti di sinistra e di destra hanno scatenato una pretestuosa contrapposizione ideologica. Letta infatti continua nella sua strategia di allargamento del consenso rivendicando per il suo partito il ruolo di protettore delle minoranze e degli esclusi, Salvini e Meloni si propongono come difensori della famiglia tradizionale minacciata, non si capisce perché, dal riconoscimento di tutele rafforzate alle identità di genere diverse. Quando poi, in maniera quanto meno prematura, è sceso in campo anche il Vaticano sollevando problemi di compatibilità col Concordato (e quindi di natura costituzionale per l’infelice decisione dei costituenti nel 1947 di inserire i patti lateranensi nella Costituzione con il famoso articolo 7) la questione si è ancor più complicata.
Per venirne a capo bisognerebbe avere l’umiltà di sedersi attorno a un tavolo e esaminare le ragioni di ciascuno, fermo restando che sulle finalità ultime della legge tutti (anche il Vaticano) dicono di essere d’accordo. Cos’è allora che impedisce un’intesa? Ve lo dico io: un incrocio di processi alle intenzioni e la voglia di criminalizzare gli avversari in vista delle prossime elezioni politiche. Ma a questo modo di fare politica i liberali dovrebbero dichiararsi estranei.

Le ragioni della Chiesa
Il motivo per cui la Chiesa, dopo qualche titubanza, ha deciso di scendere in campo, anche col rischio di essere accusata di ingerenza negli affari interni del nostro Paese, è il timore che la legge, con le sue durissime sanzioni penali, possa essere utilizzata per imporre il principio dell’equivalenza tra il matrimonio eterosessuale e altre forme di convivenza civile (matrimonio omosessuale, unioni civili, ecc.). E che pertanto la libertà della Chiesa di sostenere la loro illiceità religiosa possa essere messa in discussione per l’infelice formulazione del reato di “istigazione all’odio” che appare nel testo. Un timore che, per la verità, prescinde dal Concordato e riguarda invece il rapporto tra libertà di espressione e dottrine religiose (non soltanto cattolica perché condivisa sostanzialmente da tutte le religioni monoteiste).
Naturalmente si tratta di un problema che riguarda soltanto i fedeli e non lo Stato il quale, rivendicando la sua laicità, come ha fatto Draghi con fermezza, è libero di fare le leggi che ritiene opportune senza vincoli esterni che non siano quelli di ordine costituzionale che ne regolano la validità.
Si capisce però che se la Chiesa ottenesse precise garanzie che le norme della legge Zan non si applicano agli istituti religiosi e ai corsi di insegnamento della religione cattolica che purtroppo il Concordato affida alla vigilanza dei vescovi, la sua opposizione probabilmente verrebbe meno.

Le perplessità dei liberali (o almeno di un liberale qualunque come credo di essere).
Diverse sono le ragioni per cui molti liberali sono diffidenti nei confronti di un progetto di legge che appare in alcune sue parti come un tentativo di rendere obbligatoria una concezione etica che può anche essere condivisa ma non imposta con sanzioni penali (oltretutto quantitativamente irragionevoli). Per i liberali le leggi penali puniscono i comportamenti che danneggiano le libertà altrui, non le intenzioni o il dissenso. L’istigazione all’odio è una categoria giuridica illiberale perché si presta nel merito alle valutazioni più diverse (e potenzialmente estensive); poco conta quali fossero le intenzioni dei proponenti, la legge, come è noto, ha una autonomia propria affidata alle interpretazioni giurisprudenziali. Oltre tutto non si capisce la necessità di una nuova legge per regolare una materia già trattata dalla legge Mancino del 1993 che bastava estendere alla tutela dei diversi orientamenti sessuali. L’unica differenza che colgo è l’introduzione di un reato di istigazione all’odio che, per le ragioni già dette, mi pare passibile di pericolose estensioni per analogia. Per chi crede in uno stato di diritto le opinioni, anche le meno condivisibili, devono potersi esprimersi liberamente, almeno fin quando non costituiscano esse stesse un’istigazione a compiere un reato. Ma l’istigazione a un reato comporta la configurazione del reato stesso e non può essere un concetto generico come l’odio. Dove finisce il dissenso e comincia l’odio, e chi lo stabilisce? La variabile giurisprudenza di una magistratura come la nostra, intrisa purtroppo di ideologismo e contiguità politiche? Chi può garantire che il prete che dal pulpito ricorda che le unioni omosessuali comportano per chi le pratica la commissione di un peccato mortale non venga denunciato per “istigazione all’odio” ? E anche la prevista giornata di sensibilizzazione come verrà realizzata nelle scuole – soprattutto in quelle dell’obbligo – come richiamo al principio di tolleranza nei confronti di ogni genere di minoranza o come propaganda di comportamenti eterodossi che in molte famiglie potrebbero generare conflitti anche gravi?

In conclusione: da un’attenta lettura del progetto ho tratto l’impressione (mi auguro sbagliata) che attraverso questa legge si voglia imporre un cambiamento culturale; purtroppo però le vere trasformazioni non avvengono minacciando le manette a chi non le condivide. Occorre un lavoro di persuasione che passi attraverso il confronto, il dialogo e soprattutto, nel caso in oggetto, introducendo nelle scuole di ogni ordine e grado (anche parificate) l’educazione civica come materia fondamentale e, in essa, quei principi di tolleranza e di rispetto per le diversità che caratterizzano la nostra cultura occidentale. Il rischio della legge Zan è nel suo “dopo”, nel modo cioè in cui verrà applicata, al netto dei passaggi che ancora l’attendono dal contenzioso con lo Stato Vaticano al vaglio della Corte costituzionale dove, prima o poi, finirà per approdare. Ne valeva la pena?

Franco Chiarenza
2 luglio 2021

Sempre in cerca di visibilità e convinto che per marcare le distanze da un ingombrante alleato di governo (sia pure transitorio) come Salvini occorra “fare cose di sinistra” su cui la Lega non possa inseguirlo, Letta è andato a toccare una delle cose più sentite dagli italiani, il diritto di lasciare ai figli il proprio patrimonio (che, essendo nella maggioranza dei casi immobiliare, si intreccia con la propensione a investire nella casa). Ancora una volta, come in altri casi, si tratta di una proposta giusta in linea di principio ma sbagliata nei tempi e nei modi in cui viene proposta e che Draghi ha fatto benissimo a troncare sul nascere. Vediamo perché.

Strumento di perequazione economica?

Quando Einaudi ne sosteneva l’opportunità anche da un punto di vista liberale era a questo aspetto che si riferiva. Convinto assertore della meritocrazia e dell’iniziativa privata trovava l’ereditarietà dei grandi patrimoni un ostacolo allo sviluppo e un immobilizzo di risorse finanziarie paragonabile alla “mano morta” agricola dei grandi latifondi. Una adeguata e progressiva imposta di successione poteva rimettere in circolo adeguate risorse e ridurre i proventi da rendite passive che potevano ostacolare il rinnovamento generazionale. In linea di principio quindi, nel più assoluto rispetto dei principi liberali, una tassa di successione ben calibrata non dovrebbe scandalizzare nessuno anche senza trasformarla in una improbabile tassa di scopo (giovani, diciottenni, ecc.).
Bisogna però oggi fare i conti con la complessità finanziaria prodotta dalla globalizzazione che consente ai grandi patrimoni di sfuggire facilmente anche alla normale imposizione fiscale, figurarsi a una imposta patrimoniale! La parte maggiore della riscossione di una tassa di successione ricadrebbe oggi sui piccoli e medi risparmiatori che hanno investito nel mattone o in titoli di Stato (che verosimilmente verrebbero esentati). I costi di accertamento per patrimoni che superano i cinque milioni (dopo la correzione in corsa di una proposta che era partita da una soglia di un milione) sarebbero molto elevati e si verrebbe a creare un contenzioso di lunga durata, come è sempre avvenuto in esperienze precedenti.

Strumento per avvantaggiare i giovani?

E’ la parte più nebulosa della proposta di Letta. Quali giovani, in base a quali criteri, come si controlla l’uso che verrà fatto delle somme assegnate, quanto costeranno le verifiche per evitare scorrettezze fin troppo evidenti; sarà un bis del reddito di cittadinanza, riuscito come misura assistenziale, fallito come incentivo al lavoro? Ricompare ancora una volta dietro questa idea che vuole essere accattivante una concezione ingenua e paternalistica; i giovani come categoria sociale sono soltanto un fatto anagrafico (come diceva Benedetto Croce). Per il resto sono come gli adulti: ci sono quelli intelligenti e laboriosi ed altri che non lo sono, ci sono gli onesti e gli imbroglioni, ci sono quelli che hanno avuto vantaggi di partenza e non li hanno utilizzati e altri che invece fortemente svantaggiati (come tanti immigrati) hanno saputo affermarsi ugualmente. E’ vero che in Italia è urgente riattivare l’ascensore sociale e garantire di più l’uguaglianza dei punti di partenza ma si tratta di una questione molto complessa che non si risolve con misure demagogiche che potrebbero rivelarsi controproducenti se dovessero essere percepite come una minaccia al risparmio privato. Abbiamo sempre rimproverato Salvini per la disinvoltura con cui si esprimeva in materie economicamente sensibili per le ripercussioni che le dichiarazioni di un leader della maggioranza potevano avere sui mercati; e ora ci si mette anche Letta?

Il riequilibrio

Lo stop di Draghi non ha riguardato le comprensibili ragioni della proposta, ma piuttosto il momento e il modo con cui il leader del PD l’ha formulata. Il governo sta studiando un riassetto complessivo di tutto il sistema fiscale per uscire dalle logiche dei tamponi e affrontare il problema in maniera organica, per la prima volta dopo la riforma Vanoni del 1951. Occorre infatti rovesciare l’ottica che è stata utilizzata dal fisco fino ad oggi: non partire dalle necessità della pubblica amministrazione ma piuttosto dalla compatibilità del carico fiscale (complessivamente considerato) con le attività che producono ricchezza (ivi inclusi i servizi). Altrimenti il sistema continuerà ad essere squilibrato tra la tassazione del lavoro dipendente troppo elevata (ma difficile da evadere) e una colossale economia sommersa (o solo parzialmente emersa) di cui non si riesce nemmeno a conoscere la reale estensione. In tale contesto, accanto ad altre misure perequative, una ragionevole tassazione sulle successioni ereditarie che non comprometta gli assett gestionali ben collaudati delle imprese e non incida troppo sulla propensione al risparmio degli italiani che è strettamente legata ai passaggi generazionali, è opportuna anche per ragioni di moralità finanziaria alle quali la tradizione liberale non è mai stata indifferente.
Quanto alla destinazione ai giovani, altre sono le misure che si devono prendere: si chiamano borse di studio, prestiti d’onore garantiti dallo Stato, facilitazioni fiscali per le assunzioni, sistemi scolastici adeguati alle esigenze del mondo produttivo, sostegni familiari da erogare attraverso servizi efficienti (asili nido, aiuti domestici, strutture per anziani). Altro che “tesoretti di 10.000 euro da regalare ai diciottenni per sondare la loro capacità di utilizzarli saggiamente! Troppa grazia, Sant’ Enrico!

Franco Chiarenza
4 giugno 2021

Il disegno di legge che porta il nome del deputato Alessandro Zan, al di là dei fattori emotivi e delle strumentalizzazioni politiche cui si è inevitabilmente prestato, suscita qualche perplessità, non naturalmente per le sue intenzioni che, anzi, volendo tutelare le minoranze e ogni orientamento sessuale, rientrano nella sensibilità di ogni persona civile, ma per gli strumenti repressivi di cui si avvale per il raggiungimento dello scopo che si propone. Ciò che infatti soprattutto colpisce in questo testo è il chiaro intento pedagogico che lo pervade, per la concezione paternalistica dello Stato che presuppone, come se le idee considerate sbagliate possano essere cambiate per legge senza correre il rischio di finire nel precipizio dello stato autoritario “a fin di bene” (come tutti i regimi repressivi pretendono di essere). Bisogna sempre fare attenzione ai mezzi che si utilizzano per raggiungere determinati fini onde evitare che in essi vengano stabiliti principi e precedenti che possono poi essere impiegati per scopi assai diversi; insomma, come dice un noto proverbio, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.

Premesso dunque che le finalità che il ddl Zan si propone sono condivisibili ci si chiede se sia davvero necessario fare una nuova legge quando già quelle esistenti (a cominciare dalla Mancino del 1993) tutelano abbondantemente le minoranze etniche, religiose e sessuali, soprattutto se tale disegno di legge contiene norme che sotto diversi profili appaiono di dubbia costituzionalità. La prima obiezione infatti – certamente la più grave – riguarda la libertà di esprimere liberamente le proprie opinioni (per sbagliate che possano sembrare) messa in pericolo dall’ambigua formulazione del concetto giuridico di “incitazione all’odio”; il confine tra libertà di espressione e “incitazione all’odio” è molto sottile e si presta a interpretazioni variabili a seconda dei punti di vista e della diversa sensibilità del magistrato giudicante. Se l’incitazione comporta azioni penalmente rilevanti essa è già prevista dal codice penale come istigazione a delinquere (art.414 cp), in caso contrario il sospetto che si vogliano attraverso l’azione penale conculcare opinioni ritenute lesive di una concezione politicamente corretta appare fondato. In uno stato di diritto che trae la sua legittimità da una cultura liberale sono le azioni che vanno punite (quando danneggiano la libertà o gli interessi di qualcuno), mai le idee, altrimenti si configura un classico esempio di reato d’opinione, di dubbia costituzionalità. Vero è che nel ddl è stato inserito (probabilmente per eludere le obiezioni “garantiste”) un articolo che ribadisce la libertà di opinione (art. 4) ma essa è condizionata al fatto che “tali idee non siano idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”. Un articolo che di fatto modifica l’art. 21 della Costituzione perchè mentre è superfluo per quanto riguarda gli atti discriminatori e violenti già puniti dalle leggi esistenti (compresa l’istigazione), subordina per altro verso la libertà di esprimere le proprie idee a una valutazione ex ante della loro pericolosità, introducendo una sorta di censura preventiva. Per di più gli articoli successivi del ddl contraddicono platealmente la prima parte dell’art. 4 dando la netta impressione che con questa legge non si voglia tutelare le minoranze ma costringere tutti a condividere determinate opinioni; il che configura una funzione etica dello Stato che ogni liberale dovrebbe temere anche per le estensioni che potrebbe assumere. Tale impressione è confermata d’altronde dalla sproporzione delle pene previste e dalle modalità che condizionano la loro sospensione vincolate in sostanza all’accertamento che il “colpevole” abbia cambiato idea; tutti elementi che dimostrano l’intenzione pedagogica (non a caso accompagnata da punizioni “esemplari”) tipica di una concezione di etica pubblica del tutto estranea alla tradizione giuridica liberale.
Aggiungo due considerazioni di minore rilievo: la prima riguarda la possibile censura della Corte costituzionale (come avvenne negli Stati Uniti in un caso in parte analogo con una famosa sentenza della Corte Suprema) che avrebbe effetti controproducenti ai fini delle “buone intenzioni” del deputato Zan, la seconda un probabile referendum abrogativo che avrebbe molte probabilità di essere vinto dai partiti che si oppongono a questo ddl spesso per ragioni che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni che ho espresso. Vale la pena correre questo rischio per la soddisfazione di infliggere qualche anno di carcere agli imbecilli che ancora chiamano “froci” gli omosessuali?

Un conto è dunque il contrasto all’omofobia, che va realizzato soprattutto con mezzi e modalità adatti a modificare pregiudizi culturali purtroppo assai diffusi (scuole, associazioni, campagne di informazione), altro mettere in atto strumenti di repressione penale che colpiscono la libertà di non condividere idee che noi riteniamo giuste. Salvini e Meloni, sostenitori del superamento dello stato liberale, a ben vedere dovrebbero approvare le concezioni contenute nel ddl Zan: stabilire il principio che lo Stato decide cosa è bene e cosa è male e punisca di conseguenza chi la pensa diversamente, apre la strada alla trasformazione della nostra democrazia fragilmente liberale in quel modello dichiaratamente illiberale che i loro amici stanno realizzando in alcuni paesi dell’Europa orientale. Basterà conquistare la maggioranza parlamentare e saranno loro a stabilire il confine tra opinioni lecite e proibite, e a definire “incitamento all’odio” ogni idea incompatibile con le loro visioni nazionaliste, sovraniste, plebiscitarie.

L’intolleranza non si combatte imitandone, a parti rovesciate, i metodi. Ma come spiegarlo in un paese come il nostro che da secoli continua a ritenere inconcepibili le diversità di opinioni e considera la politica soltanto come un mezzo per distruggere gli avversari?

Franco Chiarenza
26 aprile 2021

Cosa pensa il liberale qualunque del nuovo governo presieduto da Mario Draghi?
Poche cose, ma fondamentali.

I) – Il governo, per come è costituito e per come ci si è arrivati, non rappresenta la “salvezza della democrazia” ma, al contrario, un momento buio e drammatico che ha messo in luce i problemi strutturali del nostro sistema politico. Quando bisogna affidarsi a un chirurgo, per bravo che sia, vuol dire che gli anticorpi non sono riusciti a impedire alla malattia di diffondersi; per tornare in buona salute l’operazione non basta, occorre rimuovere le cause che hanno prodotto la malattia.

II) – Proprio per questo il governo Draghi, mettendo insieme, volenti o nolenti, tutti i partiti con la sola esclusione di Fratelli d’Italia, costituisce un’occasione forse unica per mettere mano ad alcune riforme strutturali che, per essere efficaci, richiedono un consenso molto ampio che le sottragga alla tentazione di speculazioni elettorali. Si tratta di cose di non poco conto: una riforma della magistratura che restituisca credibilità e prestigio alla funzione giudiziaria (gravemente compromessi da quanto è emerso clamorosamente col “caso Palamara”), una riforma della scuola in senso meritocratico che consenta alle nuove generazioni di confrontarsi a parità di conoscenze e competenze con quelle che emergono dagli altri paesi, una riforma del Senato che differenzi i suoi compiti rispetto a quelli primari della Camera dei deputati realizzando quel monocameralismo di fatto che caratterizza tutte le democrazie parlamentari del mondo, una legge elettorale che (almeno per la Camera) garantisca la governabilità e trovi definitiva sistemazione (per lo meno nei suoi principi generali) nella Costituzione, una riforma del titolo V della Carta che chiarisca definitivamente poteri e limiti delle Regioni eliminando le incongruenze e i difetti che la sciagurata riforma del 2001 ha introdotto (con evidenti ripercussioni anche nella gestione dell’epidemia Covid 19).

III) – La scelta dell’ex-presidente della BCE per guidare un governo d’emergenza è ovviamente dovuta alla priorità dei problemi economici. Si tratta in sostanza di condurre in porto il piano italiano per il “Recovery fund” in maniera efficiente e funzionale rispetto agli obiettivi fissati dal progetto “Next generation” di Ursula von der Leyen, secondo le compatibilità fissate dal Consiglio Europeo (e quindi anche dal nostro governo) e le indicazioni operative approvate dal Parlamento Europeo. Che Draghi voglia gestire questo compito fondamentale senza eccessivi condizionamenti esterni appare evidente dalla composizione del ministero dove gli incarichi strategici sono stati assegnati a Daniele Franco (Banca d’Italia), Roberto Cingolani (fisico responsabile dell’innovazione tecnologica di “Leonardo”, ex Finmeccanica) al quale spetterà coordinare quella transizione ecologica (probabilmente assorbendo qualche delega dal ministero dello Sviluppo economico e da quello delle infrastrutture) che sta tanto a cuore a Grillo e che non è incompatibile con gli obiettivi di Draghi, Vittorio Colao (ex dirigente di diverse aziende attive nella comunicazione) all’innovazione tecnologica, Enrico Giovannini (economista, ex presidente dell’Istituto centrale di statistica, già ministro nel governo Letta) alle infrastrutture. E’ questa infatti la squadra che compilerà nel dettaglio il piano italiano del “Recovery fund”.

IV) – La conferma di Speranza al ministero della sanità indica che sulla questione della lotta contro la pandemia il nuovo governo intende muoversi in sostanziale continuità con quello precedente. L’attribuzione dell’importante dicastero dello Sviluppo economico a Giancarlo Giorgetti (anche se privato probabilmente di qualche competenza a favore della transizione ecologica) indica non soltanto l’ampiezza della svolta impressa alla Lega ma anche l’intenzione di Draghi di privilegiare una nuova intesa tra i soggetti della produzione (imprese e sindacati) che consenta all’iniziativa privata, sorretta da investimenti infrastrutturali pubblici, di rilanciare l’occupazione. La nomina di Andrea Orlando, infaticabile mediatore del partito democratico, al ministero del lavoro potrebbe facilitare tale strategia.

V) – La scelta di un giurista indipendente come Roberto Garofoli nell’incarico cruciale di sottosegretario alla presidenza indica l’intenzione di Draghi di mantenersi al di sopra delle parti anche nella quotidianità dei rapporti intergovernativi (spesso affidata al suo “braccio destro”).

VI) – La discesa in campo di Draghi ha “sparigliato” i tradizionali schieramenti politici: se questo era davvero l’obiettivo di Renzi è perfettamente riuscito. A destra la clamorosa “conversione” della Lega da una linea nazionalistica e sovranista a un’altra più moderata, filo-europea e certamente più consona agli interessi imprenditoriali della Lega nelle regioni settentrionali, segna il ritorno alla tradizione nordista di quel partito e probabilmente l’attenuazione dei toni populistici anti-immigrati che hanno caratterizzato la leadership di Salvini. I primi riflessi si sono avuti a Strasburgo dove i deputati della Lega hanno votato a favore del “Recovery plan” in discontinuità col passato. Al centro Grillo, malgrado il prestigio di cui gode all’interno del suo movimento, ha dovuto faticare molto per portare la maggioranza del gruppo parlamentare ad appoggiare Draghi, fino al referendum sulla piattaforma Rousseau che, malgrado il quesito già incorporasse la risposta, non ha superato il 60% dei consensi, mettendo in evidenza una fronda (guidata da Di Battista e Casaleggio) che potrebbe presto trasformarsi in scissione; un fatto importante in grado di accelerare la trasformazione del movimento in un partito ecologista compatibile con i partiti “verdi” che in Europa hanno assunto un peso elettorale rilevante. E che tale sia la tendenza lo dimostra l’insistenza di Grillo per i temi della “transizione ecologica” mentre passano in secondo piano i moralismi giustizialisti su cui i “Cinque Stelle” avevano in gran parte fondato il loro consenso (e non a caso Bonafede è rimasto escluso dal governo).
Non è poco. Resta l’incognita di Giuseppe Conte; se prenderà la guida del movimento oppure vorrà lanciarsi “in proprio” nella competizione elettorale, forte di quel 15% che tuttora i sondaggi gli attribuiscono.

VII) – Il governo Draghi ha un anno di tempo, non di più. Dovrà gestire le elezioni amministrative (che sarebbe opportuno rinviare a settembre) con i risvolti politici che ne deriveranno ma non potrà andare oltre la scadenza del mandato di Mattarella (febbraio 2022). A quel punto, chiunque sia il futuro presidente della Repubblica, nuove elezioni politiche saranno inevitabili. Il compito di Draghi è di arrivarci non soltanto avendo varato il Recovery fund ma anche, almeno in parte, riattivato gli anticorpi demandati al salvataggio della nostra fragile democrazia.

Così la pensa il liberale qualunque che sono io.

 

Franco Chiarenza
16 febbraio 2021

La locuzione white knight è utilizzata dagli economisti per indicare qualcuno che interviene a salvare un’azienda pericolante. In politica lo chiamiamo enfaticamente “salvatore della Patria” ma il concetto è lo stesso.
Ogni qualvolta il sistema politico italiano si inceppa (per le ragioni più diverse) il Capo dello Stato chiama un “cavaliere bianco” a scioglierne i nodi: è successo con Guido Carli (ministro del tesoro negli anni difficili della lira dal 1989 al 1992), con Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini nella lunga crisi istituzionale che segnò il passaggio dalla prima alla seconda repubblica (dal 1993 al 1996), con Mario Monti nel 2011 quando il Paese pareva avviato a precipitare in un default finanziario ed economico senza precedenti. I “cavalieri bianchi” devono avere alcune caratteristiche: essere esperti di economia (e conseguentemente quasi sempre provenienti dalla Banca d’Italia), rivestire incarichi accademici prestigiosi, godere di buona considerazione negli ambienti politici europei e nella finanza internazionale, conoscere quanto basta i complicati meccanismi del sistema politico italiano senza lasciarsene troppo condizionare. Mario Draghi, giunto nel 2011 a presiedere la Banca Centrale Europea inserendosi abilmente come soluzione di mediazione nel conflitto che divideva francesi e tedeschi sulla politica monetaria europea, risponde perfettamente a tali requisiti.

Draghi
Naturalmente ogni cavaliere bianco costituisce una storia a sé; Draghi è stato convocato al Quirinale in condizioni assai differenti dai precedenti che ho ricordato e chiamato a risolvere problemi del tutto diversi. Non si tratta di imporre sacrifici ma, al contrario, di spendere bene le importanti risorse già acquisite in sede europea senza disperderle in tanti rivoli assistenziali e clientelari per concentrarle su alcune leve fondamentali per il futuro del Paese: infrastrutture materiali (trasporti, reti di comunicazione) e culturali (scuola e ricerca), rimodulazione fiscale che favorisca le imprese che generano occupazione stabile, efficienza della giustizia civile, modifica delle procedure decisionali ed esecutive per renderle più rapide e fluide. Se poi il “cavaliere bianco” riesce ad avere sufficiente consenso potrà anche avviare quelle riforme istituzionali di cui tutti riconoscono la necessità ma che sempre si arenano tra veti e convenienze elettorali di poco conto: per esempio una riforma del Senato che faccia uscire l’Italia (unica in Europa) da un paralizzante bicameralismo “perfetto”, una revisione del titolo V della Costituzione che chiarisca le competenze delle Regioni e degli enti locali, una definitiva legge elettorale “costituzionalizzata” che metta fine allo scandalo ricorrente delle leggi elettorali “su misura”, ecc.
Non si tratta di compiti facili. Dietro ogni questione si nascondono interessi consolidati, resistenze corporative, abitudini clientelari che utilizzano il ricatto elettorale per garantire privilegi acquisiti, localismi anche legittimi che rischiano tuttavia di sottrarre risorse alle priorità nazionali. Anche per questo il “cavaliere bianco” deve saper prendere le distanze non dai partiti ma dai loro calcoli elettorali richiamandoli alla loro funzione stabilita dall’art. 49 della Costituzione di “determinare con metodo democratico la politica nazionale” e non di difendere gli egoismi degli interessi particolari.
Naturalmente facile a dirsi, difficile a farsi. Davanti a Draghi tutti finiranno per aprire i cancelli delle rispettive ridotte; gli ostacoli verranno dopo quando il capo del governo dovrà schivare le trappole che verranno nascoste sul suo cammino. Nel suo compito potrà contare sull’aiuto di Mattarella, non tanto nelle sue funzioni di Capo dello Stato quanto piuttosto come esperto navigatore politico da tanti anni impegnato a mediare le complessità del nostro sistema politico.
“In bocca ai lupi” caro Draghi. Il tuo mandato durerà un anno e verrà inevitabilmente a cessare con l’elezione del successore di Mattarella nel febbraio del 2022; a quel punto o salirai al Quirinale spinto da un plauso generale, come fu per Ciampi, oppure andrai a fare compagnia a Monti in quelche oscura saletta di palazzo Madama.

 

Franco Chiarenza

7 febbraio 2021

Ci sono miliardi di stelle in cielo e soltanto cinque nel nostro panorama politico, ma ci bastano. Anche perchè non somigliano alla costellazione che tutti conosciamo, l’Orsa minore, ben nota da secoli perchè nella sua coda brilla la stella polare, rotta sicura per naviganti incerti o dispersi. Quello che manca alle nostre Cinque Stelle è proprio la stella polare: dove andare, con chi, per che cosa. Stanno fisse, immobili, senza che alcun chiarimento ne definisca orientamenti e prospettive. Non costituiscono un problema, sono il problema, se non altro perchè occupano la maggioranza relativa dei seggi parlamentari.

Grillo: se ci sei batti un colpo
E’ lui – insieme a Casaleggio – che ha messo in moto lo tsunami con il famoso “vaffa” del 2007 con l’intento di mandare a spasso l’intero sistema politico per sostituirlo con una democrazia diretta che nelle loro intenzioni poteva essere realizzata attraverso le nuove reti di comunicazione interattive. I suoi discepoli sono arrivati in parlamento dichiarando di volerlo aprire come una scatola di sardine, i suoi ministri sono passati da un’alleanza all’altra sul presupposto che i compagni di viaggio, di qualunque colore fossero, non gli avrebbero impedito di realizzare il loro programma anti-progressista, confusamente ispirato alle teorie della “decrescita felice”. Sono riusciti in effetti a impedire molte cose ma ne hanno realizzate poche, a parte il reddito di cittadinanza che, per come è stato attuato, è consistito in una costosa distribuzione di sussidi senza accompagnarsi a una credibile strategia di rilancio dell’occupazione (che per noi liberali è l’unico modo serio di combattere la povertà e contribuire alla crescita del Paese). Divisi al loro interno tra un’ala “movimentista” che trova in Di Battista il suo personaggio di riferimento, e settori più riflessivi che si sono dovuti confrontare con le difficoltà reali di governo, traumatizzati da sondaggi che prevedono il dimezzamento della loro consistenza elettorale, i Cinque Stelle si interrogano sul loro futuro. Ma ciò che conta realmente, almeno per noi, non è il loro futuro ma il loro presente, considerando che la paura di andare a una incerta verifica elettorale paralizza il partito democratico. E poiché sembrano incapaci di esprimere una leadership condivisa (o almeno maggioritaria) tutti si chiedono se il “fondatore” Beppe Grillo sia in grado di uscire dalle nebbie delle allusioni vaghe, delle battute imbarazzanti, e andare oltre la dimensione demagogica dei “vaffa” e dei “tumorifici” che ha condannato il Paese all’inerzia e alcune grandi città alla sporcizia permanente.

L’errore di Renzi (se tale è stato) non è consistito nell’ostinarsi a pretendere la testa di Conte ma nel credere che questo fosse il problema. Prendersela col mediatore perchè una delle parti è poco affidabile è un gioco pericoloso, a meno che non si voglia in realtà fare fallire l’intesa. Immaginare una soluzione tecnica o super-partes sponsorizzata dal Capo dello Stato non mi sembra una strada praticabile e si rivelerebbe un viottolo scosceso con molte probabilità di sfociare comunque in elezioni anticipate. E non è detto che il voto produrrebbe in termini di governabilità un parlamento molto diverso da quello attuale, specialmente se, come è possibile, Giuseppe Conte, forte della sua popolarità, scendesse in campo con una propria lista.

 

Franco Chiarenza
27 gennaio 2021

 

Ps: Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul Corriere del 22 gennaio un forte articolo sulla necessità di riformare il nostro sistema politico, indicando anche alcune soluzioni. In quanto liberale qualunque, e ben sapendo che Galli della Loggia rifiuterebbe la qualifica di liberale, mi congratulo e tengo a dire che del suo articolo condivido tutto. Se non vuole accettare il conferimento onorario di liberale accolga almeno quello di “italiano qualunque” (che è il contrario di “qualunquista”).
Fch.