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La riunione – molto attesa – della direzione del partito democratico si è conclusa con la convocazione del congresso, sia pure attraverso un passaggio scontato in assemblea nazionale. Un congresso celebrato in queste condizioni, senza un preventivo approfondimento dei motivi della contestazione interna e senza un programma di governo in qualche modo verificato almeno nei punti di convergenza, significa che Renzi non intende dialogare con le correnti di minoranza. Il congresso servirà soltanto a consolidare la sua posizione nel partito e ad aprire le porte a chi vuole uscire: cacciati forse no ma accompagnati alla porta sì. La soluzione scelta da Renzi corrisponde del resto a una sua vecchia convinzione che i diversi pezzi della sinistra del suo partito, anche messi insieme, abbiano una modesta incidenza elettorale. Per questo il leader preferisce correre da solo, sicuro ancora una volta di farcela.
Ma sulla sua strada ci sono ostacoli che non provengono dai nemici dichiarati (D’Alema, Bersani, Cuperlo, Civati, Emiliano) ma piuttosto dagli “amici” che, pur non seguendo la sinistra, sembrano prendere le distanze da lui; e non si tratta di personaggi secondari. Franceschini, Orlando, De Luca, pur molto diversi tra loro, non nascondono la loro insofferenza e cercheranno di impedire a Renzi di divenire, dopo l’eliminazione della sinistra, dominus incontrastato del partito.
Ciò però che è più grave, e si evince da molte reazioni esterne, è che l’opinione pubblica – anche quella orientata a sinistra – non è ancora riuscita a comprendere le ragioni del contendere, a parte quelle evidentissime di carattere personale. Il programma originario di Renzi – quello della “Leopolda” per intenderci – appare piuttosto ammaccato e, per sua stessa ammissione, richiede qualche aggiustamento, ma l’opposizione, se si escludono alcuni generici richiami alle “radici di sinistra” e altri confusi segnali di fumo, non sembra offrire un progetto davvero alternativo. In tali condizioni il P.D. corre diritto verso il disastro elettorale, non per emorragia verso altri ma per un crescente astensionismo che potrebbe minare la sua credibilità.
In questa situazione si inserisce il tentativo di Pisapia di creare una non ben definita “area” di sinistra in cui comprendere tutte le differenze che la agitano. Probabilmente convinto dell’ineluttabilità della scissione l’ex-sindaco di Milano sembra pensare a una sorta di rete di sicurezza, un’”area” appunto, dalla quale far scaturire un minimo comune denominatore in grado di affrontare la campagna elettorale in una convergenza almeno parziale. L’operazione mi pare troppo cerebrale e intellettualistica per riuscire, e comunque resta condizionata da quella che sarà la legge elettorale, ma potrebbe rappresentare l’ultima spiaggia prima che Renzi e i suoi imbocchino la strada di una divaricazione che riporterebbe il leader fiorentino verso quelle posizioni di centro alle quali, pur tra molte ambiguità, ha forse sempre mirato.
E’ davvero curioso che nella riunione della direzione del P.D. non si sia parlato di legge elettorale, e cioè del vero nodo da sciogliere se davvero si vuole andare ad elezioni anticipate (seppure di pochi mesi). A questa stranezza si aggiunge il silenzio di Gentiloni e Padoan che hanno assistito alla riunione senza prendere la parola, creando un precedente; mai era avvenuto che in una direzione di partito il presidente del consiglio e il ministro dell’economia (che di quel partito sono espressione) non parlino delle scadenze che attendono il Paese, a cominciare da tre punti fondamentali che sono quelli che davvero interessano agli italiani: i rapporti con Bruxelles in vista di una possibile procedura di infrazione, il controllo dell’immigrazione (e quindi la questione libica) e la situazione economica (in particolare per quanto riguarda la disoccupazione). L’unico che ha proposto qualcosa di concreto denunciando con accenti drammatici la continua decrescita del Mezzogiorno dimostrando come la disoccupazione stia raggiungendo nelle regioni meridionali dimensioni inaccettabili (compensate di fatto dall’aumento del lavoro nero e dalla preoccupante emigrazione giovanile) è stato De Luca, il contestato governatore della Campania.
Resta da capire se De Luca deve essere considerato un rottamato (era comunista quando Renzi aveva i calzoni corti e faceva lo scout), un rottamando (come vorrebbe la sinistra), o un rottame ancora utilizzabile ma da mettere in disparte alla prima occasione. Non lo so, ma ascoltarlo è per lo meno divertente (per l’ironia sprezzante con cui condisce i suoi discorsi) e istruttivo (per i contenuti concreti che propone). E’ davvero incredibile che per sentire un intervento che esca dall’opprimente atmosfera dei messaggi cifrati, del detto-non detto, delle “convergenze parallele” che furono tipici della prima repubblica, si debba attendere uno che di essa fu attivo testimone!

Franco Chiarenza
14 febbraio 2017

Smettiamola di denominare le leggi elettorali con la desinenza latina “um”: mattarellum, porcellum, italicum. Un uso invalso a seguito di una battuta di spirito (quale fu all’origine nella versione di Sartori) che, se ripetuta all’infinito, diventa noiosa e volgare.
Parliamo di legge elettorale e basta.
I fatti sono noti. La legge vigente è stata dichiarata dalla Corte Costituzionale legittima e praticabile salvo il previsto ballottaggio tra le prime due liste che non abbiano raggiunto il 40% e il criterio per le candidature multiple. Considerato che – al momento attuale – la percentuale del 40% sembra irraggiungibile da qualsiasi partito ne deriva di fatto una legge proporzionale corretta da un modesto sbarramento del 3%. Si tornerebbe quindi a privilegiare la rappresentanza rispetto alla governabilità con un’inversione di tendenza stupefacente.
In realtà, poiché la legge è stata comunque modificata dalla Corte, un nuovo passaggio parlamentare pare inevitabile non soltanto dal punto di vista giuridico ma anche semplicemente per motivi di correttezza. E a questo punto sarà impossibile evitare una riapertura dei giochi a tutto campo perché in effetti un ritorno alla proporzionale nelle attuali condizioni non lo vuole nessuno (salvo forse il movimento cinque stelle che ha tutto da guadagnare da una situazione di instabilità di governo).
Inoltre c’è il problema del Senato. Immaginata dal partito renziano come un corollario alla riforma istituzionale che prevedeva la soppressione del Senato elettivo, la nuova legge elettorale non teneva conto del bicameralismo. Bocciata la riforma non vi è dubbio che alle prossime elezioni si voterà anche per i senatori e difficilmente si potrà conservare per esso una legge elettorale tanto difforme da quella che regolerà l’elezione della Camera dei deputati. Un accordo rapido e bi-partisan – come vorrebbe Renzi – trova quindi molti ostacoli sul suo cammino e la chiave del gioco – ancora una volta – passa nelle mani di Berlusconi, il quale non sembra interessato ad elezioni anticipate anche perché spera entro l’anno di ottenere alla corte di giustizia di Strasburgo un verdetto favorevole che gli consenta di rimettersi in gioco.

Forse sbaglio, ma ho l’impressione che Gentiloni possa dormire sonni tranquilli; si arriverà alla fine dell’anno senza un accordo definitivo, e da lì alla scadenza naturale del 2018 il passo sarà breve. Anche perché il presidente Mattarella non sembra entusiasta di sciogliere le Camere senza una visione chiara del “dopo”, soprattutto in un momento in cui l’Italia ha la presidenza di turno del G7 e la politica internazionale, già scossa dalla Brexit e dall’elezione di Trump, dovrà fare i conti con le elezioni in Olanda, Francia e Germania. A proposito della quale va detto che la candidatura di Schulz per i socialisti apre nuove prospettive, sia nel caso che la Merkel superi la difficile prova elettorale sia nell’eventualità di una nuova grande coalizione con i socialisti; se c’è un personaggio capace di imprimere un nuovo slancio all’unificazione politica dell’Europa questi è l’ex presidente del Parlamento europeo Martin Schulz.

Chi vivrà vedrà.

Franco Chiarenza
26 gennaio 2017

E parliamone possibilmente in maniera non ideologica.
Archiviata la richiesta di reintrodurre la versione originaria dell’articolo 18 per l’evidente tentativo di estenderne l’applicazione, la Corte costituzionale ha correttamente ammesso gli altri due quesiti referendari promossi dalla CGIL, dei quali il più sentito dalla pubblica opinione è certamente quello che riguarda i voucher.
Cosa sono i voucher ? Buoni lavoro rilasciati dall’INPS acquistabili in modo molto semplice e utilizzabili per retribuire lavori accessori effettuati con prestazioni saltuarie per prestazioni che non superino l’importo massimo di 7.000 euro l’anno; per contrastare alcuni possibili abusi nel 2016 il governo Renzi ha introdotto obblighi più rigorosi per i datori di lavoro che se ne servono (nome del beneficiario, giorno e orario dell’utilizzo).
Essi sono stati introdotti per la prima volta dal governo Prodi nel 2008 per rendere più elastiche rispetto ai contratti di categoria le tante prestazioni occasionali che si rendono necessarie in una moderna società di servizi (soprattutto nel commercio ma anche in altri settori del terziario) cercando così di fare emergere e di contrastare il lavoro nero ampiamente diffuso nel lavoro occasionale.
Sono serviti ? Sicuramente sì, come affermano a gran voce commercianti e organizzazioni di servizi (a cominciare dai sindacati che oggi ne propongono la soppressione; soltanto CGIL e CISL li hanno utilizzati per un ammontare complessivo di 2.250.000 euro nel 2016).
Se ne è fatto un abuso utilizzandoli anche dove avrebbero potuto essere sostituiti da forme contrattuali più regolamentate ? Forse in alcuni casi sì, come sembra dimostrare il loro aumento vertiginoso anche in settori “ambigui” come l’agricoltura e soprattutto l’edilizia.
Hanno fatto emergere il lavoro nero ? Questo è forse l’aspetto più controverso del dibattito in corso. Secondo i sindacati non soltanto la risposta è no, ma addirittura lo avrebbero incentivato col trucco del “voucher a metà” (parte del lavoro in voucher, parte in contanti e in nero, in modo da vanificare eventuali controlli). Secondo i commercianti l’emersione del nero c’è stata riducendo lo svantaggio fiscale degli esercizi che rispettano la legge; gli abusi sarebbero marginali e facilmente eliminabili senza sopprimere uno strumento che ha ridato fiato alle imprese. Secondo l’INPS (Tito Boeri) i voucher sono uno strumento utile anche se spesso è stato utilizzato in settori per i quali non era stato immaginato e il lavoro nero è rimasto elevato proprio là dove si voleva contrastarlo (collaboratori domestici e agricoltura). Si possono riformare (per esempio stabilendo tetti mensili e con una vigilanza più attenta) ma sarebbe un errore sopprimerli.

In conclusione:

  1. Dietro tanta agitazione c’è la legittima aspirazione dei disoccupati di accedere a un lavoro stabile; da qui il rifiuto di ogni forma di “precariato”. Ma la mancanza di lavoro stabile non dipende da leggi e contratti piuttosto invece dalla scarsa attrattività del sistema-Paese per nuovi investimenti produttivi. Le cause sono molte e spesso ripetute, ma si tratta di un discorso che i sindacati fingono di non capire perché molte rigidità che ostacolano gli investimenti dipendono anche da loro.
  2. Il dilemma tra più lavoro e meno diritti è deviante. L’attenuazione delle garanzie è il risultato di una crisi prodotta dalla globalizzazione nei cui confronti l’Europa e in particolare l’Italia non hanno saputo attrezzarsi in tempo; chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati non serve a nulla e si finisce per cadere nella trappola autarchica e isolazionista dei movimenti populisti.
  3. Il referendum probabilmente non si farà perché la stessa CGIL che lo ha promosso preferirà concordare alcune modifiche che le consentano di salvare la faccia chiudendo una vicenda che comincia ad essere imbarazzante. Oltre tutto essendo impossibile dimostrare che la soppressione dei voucher incrementi posti stabili di lavoro, mentre è certo che farebbe di nuovo aumentare il lavoro nero, non metterei la mano sul fuoco sull’esito referendario.
  4. Ringraziamo Dio (e il popolo italiano) che non siano passate le riforme costituzionali di Renzi che, tra le altre cose, prevedevano l’introduzione di referendum popolari propositivi; vi immaginate quali e quanti danni all’economia avrebbe prodotto le reintroduzione e l’allargamento dell’art. 18 ? Fuga all’estero delle imprese, chiusura di piccoli esercizi (al di sotto di 18 dipendenti) che non vogliono essere condannati a mantenere a vita i propri collaboratori, aumento esponenziale di lunghissime e costose controversie giudiziarie per dimostrare l’esistenza di una “giusta causa”, ecc.

Personalmente non sarei contrario a una disciplina anche severa sui licenziamenti perché sono contrario ai licenziamenti arbitrari. Prima però rivediamo seriamente i motivi di “giusta causa” e stabiliamo procedure giudiziarie rapide e inappellabili. Per come stanno oggi le cose pretendere che il rapporto di lavoro si trasformi in un matrimonio indissolubile finché pensione non sopraggiunga, mi sembra dannoso e controproducente ai fini di un aumento dell’occupazione. Introducendo un congruo indennizzo economico per i licenziamenti immotivati il “job act”rappresenta un giusto compromesso tra i diritti del lavoratore e quelli, altrettanto importanti, della responsabilità di chi dirige l’impresa anche nella scelta dei collaboratori.
A proposito: “job act” si pronuncia “giob act”. Ma quand’è che la smetteremo di usare termini inglesi anche quando non sarebbero necessari ?

 

Franco Chiarenza
12 gennaio 2017

Se c’è una cosa bella della politica è che non ci si annoia mai; molto meglio del campionato di calcio dove, comunque vadano le cose, vince sempre la Juventus. Il doppio colpo di scena Grillo – ALDE e ritorno – ne è la dimostrazione.
I fatti sono noti: su spinta di Roberto Casaleggio il leader pentastellato annuncia il divorzio dall’oltranzista nazionalista inglese Farage nel parlamento europeo e chiama elettronicamente a raccolta i decisori del movimento sulla possibilità di un’alleanza coi liberali europei dell’ALDE (in realtà già negoziata tra Beppe Grillo e Guy Verhofstadt). C’è qualche malumore nella base ma i disegni del fondatore sono imperscrutabili come quelli di Dio e quindi non si discutono: approvati col 78%. Ma – sorpresa! – chi non è d’accordo a questo punto è il gruppo parlamentare dell’ALDE nel quale pesano in maniera determinante i liberali tedeschi. Un pasticcio incomprensibile come non se ne erano visti da tempo e una seconda dimostrazione dell’incapacità e del dilettantismo politico di Grillo dopo la vicenda ancora aperta della sindaca di Roma.

Poche cose sono chiare dell’ideologia politica dei Cinque Stelle, ma tra quelle più accertate ci sono sempre state un’avversione ad ogni forma di federalismo europeo (in particolare nei confronti della moneta unica), una predilezione per la democrazia diretta rispetto al parlamentarismo liberale, un estremismo ecologico che si spinge fino alla messa in discussione di alcuni diritti individuali; tutte cose che con il liberalismo non soltanto hanno poco a che fare ma talvolta ne rappresentano l’esatto contrario.
Come possono Grillo e Casaleggio avere pensato di entrare a far parte del club (anche se un po’ decaduto) dei liberali europei? E come può Verhofstadt avere considerato possibile un matrimonio così male assortito?
Le risposte più probabili non fanno onore a nessuna delle due parti in commedia se è vero – come sembra – che nelle intenzioni dei due leader ci fosse un’alleanza tecnica fondata su uno scambio per cui i cinque stelle avrebbero appoggiato la candidatura dello statista belga alla presidenza del Parlamento europeo (per la quale Verhofstadt dovrà confrontarsi col socialista Pittella e col popolare Tajani) mentre Grillo avrebbe salvato i consistenti finanziamenti al gruppo (che avrebbe perso dopo il divorzio da Farange). Non si sa per chi dei due provare più vergogna.

Una postilla. Forse in questa vicenda mal condotta e per certi aspetti ridicola c’è – almeno per quanto riguarda il movimento cinque stelle – qualcosa di più. Sembra evidenziarsi una divaricazione sempre più avvertibile tra una linea moderata in cerca di una “normalità” politica (soprattutto nell’articolazione delle alleanze) e un’anima populista più rozza e spregiudicata che Casaleggio stenta a tenere a freno. Grillo media ma somiglia sempre di più a un prestigioso vaso di coccio tra vasi di ferro.

 

Franco Chiarenza
11 gennaio 2017

Il giovane Renzi, coerente con l’immagine che si è costruita di impavido rottamatore della vecchia politica, ha cercato la sfida a tutti i costi mettendo alla prova la composita galassia dei suoi avversari, sicuro che la sua strategia offensiva avrebbe alla fine prevalso; per questo – immagino – ha trasformato un referendum su alcune modifiche costituzionali in una chiamata plebiscitaria, senza tenere conto che proprio il referendum è il tipico strumento che consente alle opposizioni di aggregarsi senza la necessità di proporre alcunché di alternativo, uno strumento quindi da non utilizzare se non si ha la certezza di vincere.
In sostanza Renzi, al quale non mancano doti di leadership e coraggio innovativo (anche nei confronti dei riti consunti del suo partito), ha peccato di superficialità sottovalutando gli avversari. L’ha fatto una prima volta quando ha deciso, per ricompattare il proprio partito, di candidare Mattarella al Quirinale, consentendo così agli estremisti di Forza Italia di liquidare il patto del Nazareno; l’ha fatto di nuovo forzando una legge elettorale e una riforma costituzionale che andavano diversamente costruite e su cui era possibile trovare probabilmente un’intesa più ampia della maggioranza di governo. Ma in politica il metodo conta quanto e forse più della sostanza; caduta la possibilità di trovare sulle riforme un’intesa con almeno una parte dell’opposizione ha scelto lo scontro frontale ma così facendo ha spostato il dibattito dai contenuti istituzionali a una sorta di plebiscito sulla sua leadership andando inevitabilmente a fracassarsi sugli scogli referendari. Eppure la storia della nostra Costituzione, strattonata da tutte le parti, modificata spesso e male, doveva insegnargli che senza un accordo bipartisan largamente maggioritario in parlamento le riforme istituzionali finiscono per abortire (e anche quando sono approvate, soprattutto se malfatte e improvvisate come è avvenuto col titolo V, vanno incontro a un difficile assestamento costellato da contestazioni infinite). Bisognava prenderne atto: con questo parlamento il consenso di Berlusconi era imprescindibile per qualsiasi riforma strutturale, aver pensato di poterne fare a meno è stato un atto di presunzione che Renzi ha pagato caro; le volpi – diceva Craxi (riferendosi ad Andreotti) – prima o poi finiscono in pellicceria. E’ avvenuto infatti che essendo stata trasformata la consultazione in una richiesta di fiducia “coram populo” le opposizioni si sono compattate potendo contare sui tanti e diversi motivi di malumore che con i quesiti referendari nulla avevano a che fare (a cui si sono aggiunti quelli di quanti – pochi o molti che siano – hanno votato no per fermare una riforma pasticciata, incompleta e potenzialmente pericolosa). In momenti di difficoltà prudenza vuole che non si sfidi la pubblica opinione.

Tutto negativo quindi il bilancio del governo Renzi? Non direi. L’impostazione iniziale del programma di governo era corretta e le prime applicazioni, pur tra molti compromessi che ne hanno limitato l’efficacia, andavano nella direzione giusta: liberalizzare nei limiti del possibile il mercato del lavoro, introdurre nella scuola criteri meritocratici in grado di restituirle il prestigio perduto, semplificare la legislazione in materia civile e amministrativa, contenere i poteri di interdizione che negli ultimi vent’anni i sindacati e la magistratura si sono ritagliati a spese delle istituzioni politiche. In politica estera, a prescindere da qualche estrosità dell’ultimo periodo, vanno apprezzati il disimpegno da interventi non ben preparati (come in Libia), e l’energica spinta per un maggiore impegno europeo nei confronti dell’immigrazione incontrollata che mette in crisi le nostre strutture di accoglienza, anche e soprattutto cercando di modificare l’infausto trattato di Dublino. Per il resto non c’era altro da fare che attendere sperando che le elezioni in Francia, in Olanda e in Germania non ci riservino sorprese sgradite come è avvenuto per quelle americane. A proposito delle quali non bisogna dimenticare che il 2017 è anche l’anno dei primi cento giorni del nuovo presidente, essenziali come sempre per comprendere quanta parte del Trump elettorale farà parte del programma del nuovo inquilino della Casa Bianca: per ora tutto fa pensare al peggio. Un anno quindi cruciale in cui, per di più, l’Italia si troverà a svolgere compiti istituzionali internazionali rilevanti come la presidenza del G7 e l’entrata pro-tempore nel consiglio di sicurezza dell’ONU.

Ma i bilanci – si sa – vanno fatti anche tenendo conto delle partite passive; e sull’altro piatto del governo Renzi le criticità non sono poche, spesso per difficoltà oggettive talvolta per la tendenza dell’ex-presidente del consiglio a cercare consensi facili nell’immediato rinunciando a misure più efficaci (anche se meno avvertibili in prima battuta) tali da modificare in profondità gli elementi strutturali che frenano lo sviluppo. Cominciando dalla disoccupazione che continua a restare alta specialmente tra i giovani. E poiché per avere occupazione occorrono investimenti se questi non arrivano non è colpa del destino (cinico e baro) ma vuol dire semplicemente che le imprese ritengono poco conveniente avviare nuove attività in Italia. Non si tratta soltanto del costo del lavoro, certo non superiore al resto d’Europa; quel che occorre – tutti lo ripetono da anni – è da un lato la rimozione dei vincoli burocratici e delle protezioni corporative che scoraggiano le nuove iniziative, dall’altro la costruzione di infrastrutture che contribuiscano alla modernizzazione del Paese: strade, porti, aeroporti, mobilità urbana, ma anche giustizia lenta, scuole scadenti, sanità e pensioni fuori controllo, e quant’altro funziona poco e male in tutto il Paese e soprattutto nel Mezzogiorno che resta il grande malato d’Europa.
Non sarebbe stato meglio utilizzare i modesti margini di flessibilità consentiti dal gigantesco debito pubblico che ci trasciniamo da decenni per ridurre gli oneri fiscali delle imprese invece di disperderli in modo maldestro distribuendo la famosa “mancia” di 80 euro che (come era prevedibile), non ha risolto alcun problema ai beneficiari e men che meno ha prodotto significativi incrementi dei consumi? E’ completamente mancata una strategia di largo respiro mentre il ministro Padoan è apparso spesso frastornato e condizionato dalla difficoltà di mettere insieme le esigenze elettorali del premier e le compatibilità che l’Europa giustamente ci chiede.

Eccoci dunque al nuovo governo. Perchè Gentiloni ? Da un punto di vista rigorosamente costituzionale il governo Renzi, non essendo stato sfiduciato dal parlamento, avrebbe potuto restare in carica; ma hanno prevalso considerazioni politiche e la stessa credibilità di un leader che aveva esplicitamente legato ai risultati del referendum la sua permanenza alla guida del governo. La scelta di Mattarella è stata quindi corretta e nulla avrebbe giustificato sul piano istituzionale uno scioglimento anticipato delle Camere, tanto più in presenza di una vistosa carenza di regole applicabili per lo svolgimento di nuove elezioni.
Un governo fotocopia? In parte sì, e volutamente, per segnare appunto la continuità con un governo espresso dalla stessa maggioranza; ma attenzione, Paolo Gentiloni non è una fotocopia di Renzi. Proveniente da quella componente cattolica – la Margherita – che aveva contribuito nel 2007 a costituire il partito democratico sulle ceneri del vecchio partito comunista (variamente ridenominato), il discendente di quel conte Vincenzo Ottorino Gentiloni che nel lontano 1913 aveva siglato per i cattolici un’alleanza elettorale con Giolitti, sostituisce all’immagine arrembante di Renzi quella di più basso profilo di chi conosce le regole della politica e sa gestire il compromesso. E’ come se la campanella strappata bruscamente di mano a Enrico Letta nel 2015 fosse tornata al punto di partenza.
Andare ad elezioni anticipate in estate con questo governo ? E’ possibile ma non è probabile.

Il compito a cui è chiamato Gentiloni in questa fase è di completare dove possibile le riforme in cantiere e non attuate (alcune delle quali urgenti e necessarie), avviare in sordina qualche riforma costituzionale condivisa (per esempio la soppressione del CNEL e delle Province), occuparsi in maniera prioritaria di sicurezza interna e di politica estera. Affidare il ministero degli interni a Marco Minniti è apparsa una scelta opportuna che premia la competenza e l’esperienza acquisita negli ultimi anni dal ministro in materia di sicurezza; meno felice pare la sostituzione della Giannini al ministero della pubblica istruzione con Valeria Fedeli, ex-sindacalista della CGIL. Le sue prime mosse appaiono infatti tese non a migliorare la riforma della “buona scuola” (che nella sua prima attuazione ha mostrato molte criticità) ma a rovesciarne le priorità: tornano a farla da padroni i sindacati della scuola, viene rimesso in discussione un percorso di meritocrazia e di responsabilità gerarchica e ci ritroveremo a settembre col consueto balletto dei trasferimenti da nord (dove mancano gli insegnanti) a sud (dove abbondano), coi presidi delegittimati a intervenire sulle carenze didattiche degli insegnanti, con cattedre mescolate in funzione delle esigenze dei docenti e non degli allievi. Con buona pace di quanti – come me – speravano che si fosse imboccata la strada giusta per fare risalire l’Italia dagli ultimi posti nelle classifiche OCDE a un livello più compatibile con le tradizioni culturali del Paese.
Pure sui “vaucher” i sindacati preparano la loro vendetta chiedendo un referendum che non solo li sopprima ma faccia tornare in vita l’articolo 18 sui licenziamenti in una versione ancor più rigida di quella originaria (con buona pace per i nuovi investimenti), sempre in base al principio che sia meglio avere meno occupati ma garantiti al 100% piuttosto che tollerare offerte più elastiche di lavoro (subito bollate come forme di sfruttamento) anche quando possono alleviare almeno in parte la disoccupazione o quanto meno fare emergere in parte il lavoro nero. Del quale nessuno si occupa e si preoccupa: si depreca a parole, lo si tollera nei fatti (sapendo che senza il suo supporto l’economia – soprattutto in alcune aree meridionali – ne sarebbe ulteriormente danneggiata). In sostanza ci si volta dall’altra parte e si ripetono gli anatemi contro l’evasione fiscale come se il lavoro nero non ne rappresentasse una componente fondamentale. L’importante – per i sindacati – è tornare a sedersi col governo al tavolo della sala gialla di palazzo Chigi per ritrovare quel ruolo quasi istituzionale di interlocutori obbligatori che con Renzi temevano di avere perduto.

Dovremo rimpiangere Renzi?

 

Franco Chiarenza
10 gennaio 2017