Le nostre generazioni, quella dell’immediato dopoguerra e quelle immediatamente successive che sia pure in modi talvolta antagonisti hanno avuto in comune radici culturali riconoscibili e mezzi di comunicazione nuovi ma comunque in continuità con quelli precedenti, si interrogano sul futuro che attende chi verrà dopo di noi. Una domanda legittima che i vecchi si sono sempre posti (quasi sempre, per fortuna, sbagliando le loro previsioni) e che comunque in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando assume una rilevanza particolare. Anche perché quando qualcosa scricchiola di una costruzione che faticosamente abbiamo eretto mantenendola in un delicato equilibrio che ha resistito alle contestazioni e alle spinte che da ogni parte l’insidiavano, ci domandiamo se e dove abbiamo sbagliato. Perché le possibilità sono due: che i tentativi di rovesciare il tavolo non siano ancora riusciti soltanto per mancanza di alternative immediatamente percorribili, oppure che i sistemi liberal-democratici multilaterali hanno dimostrato, anche a fronte di evidenti difficoltà, una propria intrinseca capacità di resistenza. Il che fa una notevole differenza perché nel primo caso ci troveremo prima o poi davanti alla riproposizione di paradigmi alternativi come quelli che già in passato si sono manifestati, a partire dal marxismo-leninismo fino alle diverse forme di fascismo (e, in effetti, se ne potrebbero trovare tracce, ancorchè non ben definite, tra i neo-fascismi sovranisti, ma forse anche in talune frange fondamentaliste verdi e nei risorgenti integralismi religiosi di ogni latitudine). Mentre se la democrazia liberale è ancora vitale e senza alternative, anche di lungo periodo, si tratta “soltanto” di correggere la rotta dove si sono verificate insufficienze e così riprendere il cammino dove l’abbiamo interrotto.

Si iscrive con convinzione al partito degli ottimisti, di coloro cioè che credono in un futuro in linea di sostanziale continuità con le nostre convinzioni etiche e politiche, un leader della sinistra cattolica come Enrico Letta, il quale, tra l’altro, anche sulla base di una constatazione che tutti supponevamo ma che lui ha sperimentato sul campo nel suo “esilio” parigino, sostiene che la deriva generazionale dai nostri principi e valori (e conseguenti prassi incompatibili con una democrazia avanzata) riguarda il nostro Paese più di altri comparabili in Europa. Non vi è dubbio: da noi si legge di meno, si studia poco e male, la frequenza agli spettacoli è quasi tutta concentrata sui livelli meno impegnativi, la discussione pubblica è povera e limitata a poco più di slogan (trovando in “twitter” lo strumento ideale); i confronti con la Francia e i paesi del nord sono impietosi (e temo anche con la Spagna). La ricetta di Letta è dunque chiara: abbiamo un deficit di classe dirigente adeguata alla complessità delle società contemporanee e quindi da lì bisogna partire, formando una nuova èlite non derivante da privilegi di classe e riattivando quell’ ascensore sociale basato sul merito che, seppure è mai esistito, è comunque da tempo bloccato dalle chiusure corporative. E di questo infatti l’ex presidente del consiglio si sta occupando con sano ottimismo cercando attraverso scuole di formazione politica di qualità di riattivare il circuito della trasmissione delle competenze e quindi anche un costruttivo dialogo tra le generazioni. Una strada che condivido se percorsa – come Letta mi pare faccia – senza la presunzione di imporre modelli che per noi sono stati imprescindibili ma che dovrebbero essere sottoposti a una verifica aperta e priva di pregiudiziali.

Ridurre tuttavia il problema a un deficit di competenza (seppure politica) mi pare insoddisfacente. Dobbiamo forse ammettere che i nuovi mezzi di comunicazione hanno lacerato in profondità un tessuto su cui erano disegnate le nostre idee politiche con tutte le loro diversità dialettiche. Come ha osservato lucidamente Gianfranco Pasquino sembra che, forse per la prima volta nella storia (almeno recente), si sia spezzato il dialogo intergenerazionale all’interno delle famiglie, luogo deputato alla trasmissione della memoria e di valori condivisi, non tanto per una volontà antagonistica ma perché i “social” hanno modificato più che i contenuti il linguaggio stesso, la semantica che ha caratterizzato le generazioni precedenti, producendo una incomunicabilità che va oltre le intenzioni dei soggetti coinvolti. Se questo è vero (e temo lo sia) il problema consiste nel riattivare i processi di scambio comunicativo che si stanno esaurendo; uno sforzo che non può limitarsi al discorso sostanzialmente elitario di Letta (formazione delle classi dirigenti) ma dovrebbe coinvolgere la scuola, i mezzi di comunicazione di massa ancora in grado di penetrare e superare le barriere generazionali, l’associazionismo nelle sue diverse articolazioni.
Il nuovo linguaggio utilizzato dai giovani tende alla semplificazione venendo così incontro alla naturale pigrizia di ogni essere umano; perché cos’altro è la pigrizia se non la ricerca del minimo sforzo per ottenere i medesimi risultati? Ma il fatto è che se la “pigrizia” diventa anche intellettuale, si allarga alle funzioni mnemoniche ed elaborative del cervello, i risultati non sono affatto gli stessi. Lo sforzo di apprendimento costituisce un’indispensabile ginnastica mentale in assenza della quale il pensiero si affievolisce nei facili luoghi comuni fino forse a scomparire del tutto, assorbito interamente dal divertimento spensierato. Il problema riguarda tutti ma si innesta in Italia in un contesto che sconta un’arretratezza plurisecolare; già cinquant’anni fa Tullio De Mauro rilevava che più della metà della popolazione non era in grado di comprendere il significato di una proposizione che non fosse elementare. Il che spiega anche perché in un paese di 60 milioni di abitanti si vendessero (prima che arrivassero la televisione e internet) soltanto cinque milioni di copie di giornali, e la televisione al suo arrivo negli anni ’50 abbia avuto una penetrazione massiccia e fulminante con una capacità di condizionamento (anche politico) senza uguali in Europa.
La conseguenza più grave di questo stato di cose è l’incapacità di comprendere fenomeni complessi, di porre in ordine logico i concetti, di esprimere quella “consecutio”, su cui già Giovanni Sartori aveva messo in guardia quando ha trattato la metamorfosi culturale prodotta dalla televisione (che, peraltro, era ben minore di quella che sta creando internet).

Naturalmente non possiamo pretendere che tutti abbiano il tempo, la voglia, le capacità di comprendere a fondo gli aspetti più complessi della vita sociale, non più comprimibili in ambiti ristretti (famiglia, lavoro, comunità, ma anche nazione); la formazione di classi dirigenti credibili in grado di riattivare un processo fiduciario che si è interrotto è perciò ineliminabile (e in tal senso Letta ha ragione). Il vero pericolo è che i nuovi modi di comunicare, alimentando l’illusione autoreferenziale della democrazia diretta, possano in realtà determinare nuove diseguaglianze, più culturali che economiche, producendo èlites invisibili e incontrollabili in grado di gestire con tutti gli strumenti di manipolazione che le nuove tecnologie continuamente elaborano le relazioni tra le masse popolari e l’esercizio del potere, anche servendosi della mediazione di leader populisti spregiudicati. Mi spiego meglio.
Il populismo non nasce oggi, c’è sempre stato ed è in qualche misura connaturato alle moderne democrazie; è ben noto che l’applicazione del suffragio universale a società complesse è possibile soltanto mediante i partiti politici che nascono appunto come “interpreti” di interessi e sentimenti (specifici o diffusi, secondo i casi) che non avrebbero altrimenti la forza e la capacità di esprimersi. Finché il rapporto fiduciario si mantiene i partiti possono compiere la loro opera di mediazione (o di contrapposizione) in maniera funzionale; se poi si riconoscono tutti in alcuni valori fondanti della comunità la loro alternanza al potere non comporta pericoli per la stabilità democratica, come dimostra l’esperienza delle democrazie anglosassoni (e dei modelli ad esse ispirati). Il problema sorge quando il rapporto di fiducia, per le ragioni più diverse che non starò qui a ricordare, viene meno; ci troviamo in tal caso di fronte a una crisi di sistema (e non di semplice ricambio) che può sfociare nelle derive più irrazionali. Se poi contestualmente si verifica una rivoluzione dei modi di comunicare determinata dalla diffusione di strumenti tecnologicamente avanzati disponibili per tutta la popolazione, la questione si complica ulteriormente: la sfiducia trova uno sbocco autoreferenziale da cui deriva la pretesa che ogni intermediazione sia non soltanto inutile ma anche dannosa. E’ su questa base che Grillo ha fondato un movimento qualunquista di massa.
Nulla di male se la democrazia diretta esercitata attraverso una piattaforma internet fosse davvero possibile (riproducendo con modalità aggiornate il mito dell’agorà ateniese); ma così non è, non perchè necessariamente esso costituisca l’anticamera di regimi autoritari plebiscitari (anche se l’esperienza del passato ci dice che è ben possibile) ma perchè in realtà genera nuovi sistemi di intermediazione incontrollabili e pericolosi. C’è il rischio concreto (forse già visibile nel portale Rousseau, significativo già nella denominazione) che un’èlite che si rinnova per cooptazione possa esercitare un potere fondato sull’ignoranza sostanziale di masse presuntuose (nel senso letterale della parola) o quanto meno indifferenti.

Noto alcuni sintomi preoccupanti (al di là di vicende elettorali che hanno carattere transeunte, ma non per questo perdono la loro importanza segnaletica): uno di essi è la perdita progressiva della memoria storica che non avviene soltanto per l’incuria scolastica (che semmai è la conseguenza non la causa del fenomeno) ma per una radicata indifferenza per tutto ciò che è stato “prima”, da cui poi deriva una incapacità di previsione per il futuro. L’ignoranza della storia determina in molti giovani una desertificazione culturale che si traduce, per esempio, anche nel loro modo di viaggiare; girano il mondo ma non lo “vedono”, perché i centri commerciali e le discoteche sono uguali dappertutto.
Ma anche qui attenzione: vedo anche giovani impegnati nelle letture storiche degli ambienti che visitano, nella frequentazione di musei e concerti di musica classica, interlocutori certi di un passaggio generazionale che non si spegne. Saranno loro le nuove èlites, di fatto ancor più esclusive di quelle che il finto populismo ha abbattuto, in quanto possessori esclusivi delle conoscenze, come gli antichi sacerdoti di alcune società del passato ? Se così fosse ci troveremmo di fronte a un processo di ricambio della classe dirigente diverso soltanto per gli strumenti di selezione che utilizza; resta da capire se compatibile con le convinzioni etico-politiche di base che abbiamo elaborato dall’illuminismo in poi o invece intenzionate a costituire una classe sacerdotale in grado di gestire un sostanziale monopolio delle conoscenze. Con effetti devastanti sulla diseguaglianza culturale, che, francamente, mi pare più grave di quella economica e sociale.

Per concludere: le èlites, variamente denominate (classi dirigenti, ceto politico, ecc.) sono sempre esistite e sempre ci saranno; in una democrazia liberale per durare a lungo e lasciar traccia del loro passaggio devono essere in grado di interpretare correttamente i sentimenti popolari, soprattutto nei momenti di difficoltà, proponendo soluzioni praticabili in tempi ragionevoli ed evitando di arroccarsi sui propri egoistici privilegi. Soprattutto però devono essere trasparenti nei loro comportamenti anche privati e quotidiani, imitare la moglie di Cesare che doveva non soltanto essere onesta ma anche sembrarlo al di sopra di ogni sospetto. Per questa ragione il problema è come si formano: se sul merito, sulla selezione fondata sulla competenza, o su altri presupposti familistici, corporativi, di subordinazione politica.
Per trasformarsi da classe dirigente responsabile a casta arroccata nella difesa dei propri privilegi ci vuol poco; basta anche l’esibizione di alcuni dettagli simbolici amplificata dalla pervasività dei social (a cui non siamo ancora abituati), come per esempio l’abuso delle “auto blu, i vitalizi e i tanti irragionevoli privilegi che la classe politica si attribuisce. In un’epoca dove le immagini prevalgono sul ragionamento e in cui la semplificazione concettuale porta anche alla sommarietà dei giudizi valgono a discreditare intere classi dirigenti più questi “dettagli” che gli stessi reati penali (come la corruzione), gravi ma comunque perseguibili dalla giustizia ordinaria. A proposito della quale occorre aggiungere – senza volere aprire troppi fronti che ci porterebbero lontano – che anche i riti e le lentezze incomprensibili dell’ordinamento giudiziario, soprattutto penale, pur derivati da tradizioni garantiste che vanno rispettate, contribuiscono fortemente alla delegittimazione delle èlites (di cui la magistratura fa parte a pieno titolo). Abituati dalla televisione alla rapidità e alla concretezza dei sistemi giudiziari anglosassoni (certamente banalizzati da logiche spettacolari ma non del tutto infondati) molti cittadini si chiedono perchè non sia possibile una giustizia veloce ed efficiente anche nel nostro Paese.

Per trovarsi in linea di continuità sostanziale con i nostri valori e convinzioni le nuove èlites, figlie di internet più che dei genitori naturali, dovranno essere molto diverse da noi nel modo di esercitare quel potere reale ma spesso indefinito di cui disporranno. L’accountability (che in inglese è qualcosa di più della traduzione italiana “affidabilità”) di un ceto politico dipende da molte cose; ma essenziale resta la sua capacità di riconoscersi in alcuni valori comuni e nella credibilità che gli deriva dalla convinzione di essere al servizio degli interessi collettivi. Con tutti i loro limiti le classi dirigenti di derivazione borghese che condussero l’Italia a unificarsi, ma anche quelle di diversa e più composita formazione che si sono assunte la responsabilità di ricostruire una coscienza civile democratica dopo la drammatica parentesi del fascismo, hanno avuto questa capacità. Ci rendiamo conto forse solo oggi in maniera convinta che l’attuale crisi non nasce oggi con l’emergere preoccupante di un gruppo di potere che sembra completamente disancorato dai valori fondanti della nostra fragile unità; covava sotto la cenere da tempo e la cultura politica del nostro Paese non se n’era accorta, o, quanto meno, l’aveva sottovalutata. Ricostruire una credibilità è molto più difficile che perderla. Chi intende farlo (e spero siano in molti, anche di diverse sensibilità politiche) cominci con una seria autocritica: in passato si sono tollerate cose intollerabili e in nome della politica si sono compiute malversazioni di ogni genere. Se non si parte da una autentica rigenerazione morale (non moralistica) non si andrà lontano.

Franco Chiarenza
21 marzo 2019

È dalla fine dell’800 che l’Europa paventa il “pericolo giallo” prevedendo che, prima o poi, l’ondata irresistibile dei popoli orientali avrebbe travolto l’Occidente civilizzato. Un pericolo evocato anche da Mussolini prima che si ritrovasse col “patto tripartito” alleato col Giappone militarista che si accingeva ad attaccare gli Stati Uniti d’America. Perchè al Giappone soprattutto si pensava come potenza in grado di soggiogare l’intero Estremo Oriente (Cina compresa) per poi riversare le nuove masse militarizzate sull’Europa. Non è andata così ma la paura dei fantasmi orientali, trasferita sulla Cina divenuta nel tempo uno strano ircocervo capitalista e comunista al tempo stesso, è rimasta. La visita del presidente cinese Xi Jinping in Europa (e in Italia in particolare) ha riacceso le polemiche per gli accordi commerciali che in tale occasione dovrebbero essere firmati.

Il boomerang di Trump
Era evidente già da tempo che la politica isolazionista e protezionista inaugurata dal presidente americano avrebbe prodotto una crisi dei vincoli internazionali che pazientemente erano stati costruiti intorno alla globalizzazione attraverso una rete di accordi multilaterali che servivano soprattutto a imporre regole ai paesi emergenti per limitare al massimo il dumping sociale che ne sarebbe conseguito. In buona sostanza all’apertura degli scambi e del commercio internazionale avrebbero dovuto corrispondere standard minimi fiscali, di protezione sociale e un rule of law (certezza del diritto) che consentissero alla concorrenza di giocare ad armi pari; a questo servivano il WTO, l’OCDE e gli accordi di vertice che si stipulavano tra le grandi potenze (G8, G20, ecc.).
Con la filosofia dell’America First Trump ha messo il suo paese fuori da ogni vincolo internazionale stabilendo con arroganza il primato di accordi bilaterali in cui la forza obiettiva del governo di Washington avrebbe piegato ogni altro contraente; ma il “via libera” del presidente americano ha significato un “liberi tutti” e quindi l’allentamento di quei vincoli che dalla fine della seconda guerra mondiale legavano le economie di mercato di tutto il mondo alla supremazia degli Stati Uniti.
Quanto, al di là di qualche effimero successo a breve termine (un po’ di stabilimenti manifatturieri rientrati negli States) tutto ciò convenga agli interessi geo-politici americani è tutto da verificare.

La sfida cino-americana
Il nodo è rappresentato dalla Cina. Dopo la conversione al sistema capitalistico operata da Deng Xiao Ping negli anni ’80 (riuscendo a mantenere il centralismo politico leninista) la Cina ha avuto uno sviluppo impressionante che, dopo avere eliminato alcune delle condizioni di miseria diffusa ereditate dall’estremismo di Mao Zedong, si è rivolto alla conquista dei mercati internazionali con una politica apparentemente discreta ma sostanzialmente espansiva, favorita dalla commistione pubblico/privato che caratterizza il sistema. Gli strumenti utilizzati dai cinesi sono differenziati e in generale poco trasparenti ma riescono a condizionare con cospicui finanziamenti molte economia strutturalmente deboli in Asia e in Africa (e adesso anche in Europa).
Lo sbarramento messo in atto dai predecessori di Trump era costituito da tre componenti con le quali necessariamente i governi cinesi dovevano fare i conti: quella politica attraverso la SEATO (una sorta di NATO sud-orientale, disciolta nel 1977 e sostituita dall’ASEAN, un’alleanza strategica che punta alla creazione di un’area di libero scambio tra alcuni paesi del sud-est asiatico); quella militare garantita dalla incontestabile superiorità militare americana che si evidenziava nelle grandi basi militari in Corea, in Giappone e nelle Filippine e che garantiva Taiwan dalle pretese annessionistiche cinesi; quella economica che subordinava l’accesso ai vantaggi della globalizzazione (ivi compresi gli appetibili mercati americani) al rispetto di regole e vincoli che ruotavano intorno al WTO. Quando Trump ha disinvoltamente rimesso in discussione questo delicato equilibrio di contenimento immaginando una resa senza condizioni dei cinesi, il risultato è stato che improvvisamente il governo di Pechino si è inserito in tutti gli spazi che gli Stati Uniti lasciavano liberi proclamandosi ipocritamente sostenitore del multilateralismo (disponibile cioè ad accettare quelle regole che Trump dichiarava di non volere più rispettare).

La farsa coreana
La debolezza americana è emersa clamorosamente nella ridicola sfida con Kim-il Jong, dittatore di un feroce regime vetero-comunista nella Corea del nord, il quale ha giocato con Trump come Speedy Gonzales contro il gatto Silvestro. Prima la minaccia di colpire gli Stati Uniti con razzi intercontinentali, poi l’improvvisa disponibilità all’accordo, poi un nuovo irrigidimento con l’umiliazione internazionale di Hanoi (luogo simbolico, scelto non a caso dai coreani). E Trump dietro a ogni mossa di Kim come un cane dietro all’osso, convinto di superare ogni ostacolo col suo carisma personale. Mentre la verità è – e i suoi consiglieri glielo avevano detto – che il pallino è in mano ai cinesi che manovrano il dittatore nord-coreano come vogliono (anche perchè senza il loro appoggio non durerebbe a lungo) i quali vogliono una cosa sola, il ritiro degli americani dalla Corea del Sud. Un paese strategico, economicamente molto sviluppato ma militarmente dipendente dalla protezione americana, che i cinesi vorrebbero “neutralizzare” per includerlo di fatto in quel sistema imperiale a geometria variabile che essi vorrebbero gradualmente costruire attorno alla propria egemonia, anche mantenendo talune diversità autoctone (con sistemi politici differenziati) secondo un modello già adottato per Hong Kong e attraverso il quale il regime di Pechino spera di vincere le resistenze di Taiwan alla riunificazione. Se ci riuscissero disporrebbero di un potenziale economico superiore a quello del Giappone (che, ricordiamo, è la quarta potenza economica mondiale) e si avvicinerebbero all’agognato traguardo di realizzare una partnership mondiale con gli Stati Uniti (per ora ancora molto lontana).

La via della seta
In tale contesto si colloca la famosa “via della seta” che prende il nome dal percorso effettuato nel XIII secolo da Marco Polo per andare da Venezia in Estremo Oriente via terra, ma che già era stato praticato sin dai tempi dell’impero romano. Si tratta di un progetto grandioso per collegare la Cina all’Europa attraverso ferrovie e strade coordinate con diramazioni che attraversano l’intero continente asiatico, e con linee navali che ne costituiscono la variante marittima. La sua realizzazzione consentirebbe un impulso straordinario agli scambi commerciali e per essa la Cina offre di anticipare i capitali necessari ai paesi attraversati; ma naturalmente se le economie di tali paesi sono deboli i finanziamenti si trasformano in vincoli politici ed è questo che preoccupa molte nazioni occidentali.
Sbarcando in Europa il presidente Xi sa di muoversi in un terreno minato; lo farà dunque con molta prudenza ma ha dalla sua parte due potenti alleati: la divisione dei paesi europei (molti dei quali hanno già firmato memorandum d’intesa simili a quello che è all’attenzione del governo italiano), e la politica suicida di Trump che, mettendo in difficoltà l’Europa rischia di buttarla nelle braccia della Cina. Certo, il mercato interno cinese non è comparabile a quello americano, i vincoli culturali e politici che uniscono le due sponde dell’Atlantico sono ben più solidi delle fragili identità nazionali dei paesi dell’Asia centrale, istituzioni forti e articolate come quelle dell’Unione Europea e della NATO sono in grado di resistere a chi vorrebbe smantellarle, ma usque tandem, Donald, abuteris patientia nostra?

Franco Chiarenza
15 marzo 2019

La vicenda TAV, giunta al momento dei bandi per gli appalti, aveva due sole possibili soluzioni: il loro avvio, impossibile senza una crisi di governo perchè farebbe perdere la faccia ai Cinque Stelle, oppure un ennesimo rinvio. Azzerare tutto non è possibile: lo sanno anche i Cinque Stelle freschi di un sondaggio che vede al nord quasi la metà della sua base favorevole al progetto (sia pure ridotto), e lo dice l’Unione Europea che ha pubblicato un’analisi sui benefici dell’opera a livello continentale che dovrebbe far vergognare Toninelli e quanti si sono assunti la responsabilità di stilare un’analisi costi/benefici campata per aria. Ma poiché Salvini ha deciso evidentemente che non è ancora venuto il momento di chiedere il divorzio da Di Maio, il presidente Conte ha varato l’unica soluzione praticabile, peraltro tipicamente italiana: una formula bizantina che si risolve sostanzialmente in un rinvio.
Però deve essere chiaro che la TAV è soltanto la punta di un iceberg che prima o poi sarà impossibile evitare. Non è difficile capirne il perché.

Adesso cominciano i guai
Salvini ha incassato il consenso (giunto a mio parere al punto massimo) sulle politiche della sicurezza (legittima difesa, decreto sicurezza e la stessa immigrazione, percepita dalla maggior parte del suo elettorato soprattutto come un problema di sicurezza) nonché sull’anticipo delle pensioni che, riguardando in prevalenza la pubblica amministrazione, gli assicura una rendita elettorale anche nel centro-sud. Da adesso in poi però dovrà fare i conti con altri problemi più difficili da risolvere, cominciando dagli interessi dei piccoli e medi imprenditori del centro-nord che vivono con preoccupazione la tendenza dei Cinque Stelle a penalizzare la produzione manifatturiera, e di cui l’ostilità nei confronti delle grandi infrastrutture costituisce la “cartina di tornasole”. Le tasse continuano ad essere molto elevate, i costi energetici più alti di quelli di altri paesi, la mano d’opera ingabbiata in normative che impediscono qualsiasi forma di flessibilità, tutte questioni su cui i due partner di governo hanno sensibilità diverse.
Di Maio ha portato a casa il reddito di cittadinanza ma ha dovuto cedere su molte altre questioni che la base militante del suo movimento riteneva importanti per la propria identità. Il futuro per lui non si presenta bene: la realizzazione concreta del reddito di cittadinanza mostra numerose criticità dovute anche alla fretta con cui è stato attuato il provvedimento ed esiste il rischio concreto che esso si trasformi in un boomerang, non soltanto al nord dove è visto malissimo ma anche al sud dove potrebbe facilmente trasformarsi in una sorta di sussidio generalizzato a sostegno dell’economia sommersa. I sondaggi e le elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna mostrano peraltro un forte ridimensionamento del consenso elettorale dei Cinque Stelle tanto da richiedere urgenti restauri all’organizzazione stessa del movimento (e ad alcuni suoi presupposti ideologici).
Entrambi i partner tuttavia avevano messo in conto di andare avanti fino alle elezioni europee: Salvini per capire se un’ipotesi alternativa di maggioranza di centro-destra (con Berlusconi, Meloni e frattaglie) sia effettivamente praticabile, Di Maio per arginare l’emorragia sventolando il reddito di cittadinanza. Le scadenze della TAV (peraltro ben note) sono state soltanto un incidente di percorso, amplificato dal clamore mediatico che la vicenda ha creato e che entrambi i “dioscuri” avevano sottovalutato al momento di stringere l’accordo di governo.

La crisi economica
Il vero problema che angoscia entrambi i partiti di maggioranza (e tutti gli italiani responsabili) è un altro: come affrontare la crisi economica che si sta riaffacciando in Europa (e con particolare intensità nel nostro Paese). Una revisione delle previsioni di bilancio (comunque la si voglia denominare) potrebbe rendersi necessaria a breve e mettere a rischio le risorse impegnate per il reddito di cittadinanza e per le pensioni anticipate; l’alternativa sarebbe un nuovo duro confronto con la Commissione dell’UE che potrebbe sfociare in una procedura d’infrazione. Una patata bollente che Salvini e Di Maio passerebbero volentieri ad altri e questo spiegherebbe perchè la partita che si è aperta somiglia tanto al gioco del cerino: chi si brucerà le dita? Forse, per ora, nessuno; basta buttare per terra il cerino. Ma non è detto che si spenga.

 

Franco Chiarenza
11 marzo 2019

L’ultima opera letteraria di Ernesto Paolozzi segna un ulteriore momento di allontanamento dell’autore dal liberismo – inteso come concezione liberale dell’economia – attraverso un percorso che lo studioso crociano aveva intrapreso da tempo; non a caso il libro è stato scritto a quattro mani con Luigi Vicinanza, giornalista di formazione comunista poi passato a incarichi prestigiosi nel gruppo editoriale di Repubblica.
Il saggio contiene molte annotazioni di buon senso, alcune denunce condivisibili, ripete preoccupazioni che tutta la cultura liberale (anche nella sua versione social-democratica) analizza da tempo; per andare a parare dove?
La democrazia liberale è sempre stata – sin da quando è divenuta “moderna” con Benjamin Constant – una procedura che regola i conflitti politici attraverso la mediazione di una èlite che elabora i progetti di governo su cui chiede la “fiducia” popolare. La partecipazione si esprime, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, attraverso corpi intermedi diversamente organizzati che, pur non identificandosi mai con l’intero corpo sociale, sono in grado di operare un processo di sintesi che trova nella rappresentanza il suo momento decisionale. Dare alla democrazia altri significati è sempre stato un modo di avvilire e comprimere le procedure che della democrazia sono l’indispensabile motore; quando è in buona fede è un’illusione se non illiberale quanto meno “a-liberale”. Tali procedure sono in crisi? Certamente, perché l’avvento dell’era digitale, a cominciare dai nuovi mezzi di comunicazione, impone cambiamenti profondi, perché la globalizzazione moltiplica i soggetti attivi sui mercati (facendo venir meno le posizioni di rendita dei paesi più sviluppati), perché le nuove tecnologie modificano profondamente il lavoro manifatturiero (e non soltanto); un fenomeno complesso che investe ogni aspetto della vita umana (economia, comunicazione, appartenenze religiose, idee ed ideologie, ambiente, sicurezza) nei cui confronti la politica non è stata ancora in grado di dare risposte convincenti. Anche perché a fenomeni globali non si possono dare risposte parziali.
Da qui nascono e prosperano i nuovi populismi che – come quelli vecchi che li hanno preceduti – suggeriscono soluzioni semplicistiche a problemi complessi (salvo poi non sapere come affrontarli quando giungono al potere). Il loro successo è direttamente proporzionale all’incapacità delle sinistre europee di proporre soluzioni accettabili ai loro stessi elettorati tradizionali, traditi da illusioni troppo a lungo coltivate, e impauriti da cambiamenti che, in quanto ineluttabili, vanno governati e non esorcizzati.

La domanda è: le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro sono tali da mettere in pericolo la stessa democrazia, come sembrano suggerire gli autori del saggio? Non ne sono convinto, anche se mentre è certamente condivisibile il traguardo finale (lavorare meno, lavorare tutti) non sono affatto chiare le strade da percorrere per raggiungere l’obiettivo pagando costi sociali sopportabili.
La retorica del “dover essere” non rappresenta mai una soluzione, serve tutt’al più a ricordarci le difficoltà che i sistemi liberal-democratici stanno attraversando nel contenere e indirizzare un’opinione pubblica innervosita e preoccupata, ma non assente. Non esistono scorciatoie: è all’interno della democrazia (liberale) che va cercata la soluzione; ogni altra strada conduce a derive autoritarie che senza risolvere il problema si limiterebbero ad occultarlo.
Le procedure democratiche funzionano anche quando vengono utilizzate per un rovesciamento radicale delle nostre convinzioni culturali e politiche, almeno finchè resta inalterato il patto regolativo che garantisce ogni possibile ricambio. Stiamo vivendo un momento in cui nuovi soggetti politici premiati elettoralmente da sensibilità popolari diverse dalle nostre stanno cercando di sostituire le precedenti classi dirigenti. Non ne condivido né i presupposti culturali né le modalità di governo, e men che meno le prospettive fondamentaliste a cui una parte almeno di essi sembra ispirarsi, ma in ogni caso non si può dire che la democrazia non abbia funzionato.
Essa, intesa come procedura di verifica e di sintesi della volontà popolare, non ha alternative in Occidente; può perfezionarsi, cambiare le classi dirigenti, ma la possibilità che il disagio sociale possa innescare processi autoritari simili a quelli che generarono i regimi totalitari tra le due guerre mondiale mi pare per fortuna remoto.
Prima o poi la maggioranza dei cittadini elettori si renderà conto che la strada da percorrere non è quella che conduce a chiudersi dentro la fortezza in cui molti cercano salvezza dalle proprie paure, all’interno dei propri confini (non soltanto territoriali ma anche culturali e sociali), ma piuttosto la capacità di riprendere quel filo dei rapporti multilaterali che l’Occidente a guida americana aveva faticosamente dipanato dopo la seconda guerra mondiale e che la vittoria di Trump ha spezzato spingendo gli egoismi nazionali a una guerra di tutti contro tutti. Non si possono contrastare gli effetti della globalizzazione più di tanto; ma è possibile immaginare interventi coordinati che senza comprimere i vantaggi dei processi spontanei indotti dalla rete interattiva e intermodale degli scambi (economici, sociali e culturali) riescano a contrastarne gli effetti negativi che essa produce (per esempio – per restare al tema di fondo del libro – sulle distorsioni del mercato del lavoro che producono il dumping sociale).
C’è un passaggio del libro in cui si afferma che della democrazia il mercato globalizzato può fare a meno. Non ne sono affatto convinto: senza il “rule of law”, senza la certezza del diritto, il mercato non funziona e genera mostri incontrollabili destinati a trasformarsi o ad implodere, ed è proprio questo il punto debole della crescita cinese (di cui peraltro parleremo magari in un’altra occasione).

 

Franco Chiarenza
9 marzo 2019

 

Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza – Diseguali: il lato oscuro del lavoro – Guida editori (Napoli 2018) – pag. 133, euro 12.

Di fronte al problema dell’immigrazione illegale un liberale qualunque – come me – si trova in difficoltà perché (al netto di ogni speculazione elettoralistica) si tratta di una questione complessa che presenta diversi aspetti tra loro non sempre componibili. Ancora una volta cerchiamo di capire, lasciando le opposte faziosità scontrarsi in modi talvolta francamente indecorosi.

Aspetto umanitario
E’ certamente il più importante perché coinvolge vite di uomini, donne e, sempre più spesso, bambini e adolescenti. Esso va però affrontato non soltanto dal punto di vista del salvataggio in mare di quanti sono riusciti a partire (anche perché su questo punto – al di là delle forzature polemiche – tutti sono d’accordo) ma anche in una dimensione più ampia che potremmo definire come politica di deterrenza per contrastare i flussi migratori dall’Africa all’Italia.
Quando si parla di immigrati molti (soprattutto di sinistra) sostengono che la percezione dell’opinione pubblica è più allarmistica della realtà concreta dimostrata dai numeri, il che probabilmente è vero; ma è altrettanto vero che non bisogna alimentare in Africa la percezione opposta che l’Italia rappresenti un porto franco a cui tutti possono approdare, magari volendo proseguire altrove ma restando poi imbottigliati nel nostro Paese dove si disperdono senza meta creando comprensibili timori. Gli smartphone e internet funzionano anche in Africa. Se un addebito va fatto alle ONG è quello di avere – consapevolmente o no – avvalorato questa percezione, incrementando quindi i flussi migratori col seguito spaventoso di morti annegati che ne è seguito. Anche questo è un aspetto umanitario.

Aspetto giuridico
Dal punto di vista giuridico la questione è molto complicata. Si intrecciano norme di diritto marittimo internazionale, legislazione nazionale, trattati europei (tra i quali emerge l’infausto trattato di Dublino), sentenze contraddittorie. In ogni caso comunque appare sensato pensare che se una nave batte bandiera di un paese è alla sua legislazione e alla sua competenza territoriale che ci si debba riferire: se trasporta immigrati dovrebbe essere il paese della nazionalità del natante ad occuparsene. Il trattato di Dublino dice però diversamente (primo porto di accoglienza) e la giurisprudenza della Corte di giustizia europea è ancora in formazione.
Di fronte al rifiuto di tutti i paesi europei di ridiscuterlo, o anche soltanto di accogliere quote significative di emigranti africani, la chiusura dei porti italiani alle navi delle ONG rappresentava forse una misura inevitabile.

Aspetto politico
Il punto più importante per le ricadute elettorali che comporta è quello politico. Mi riferisco alla percezione che ampi strati di opinione pubblica – anche di tradizione liberale – hanno delle possibili conseguenze di un’immigrazione non controllata. Il timore di perdere l’identità nazionale, di vedere messi in discussione principi e costumi che la caratterizzano, di perdere posti di lavoro in una competizione senza regole che penalizza conquiste sindacali faticosamente conquistate nei decenni trascorsi, costituiscono una miscela confusa che desta paura e consente alle forze politiche che la strumentalizza di raccogliere ampi consensi su indirizzi politici repressivi. Non a caso la diffidenza più forte si rivolge contro i musulmani, portatori di una cultura che è considerata alternativa e non compatibile con la nostra.
Il centro- sinistra non ha fatto nulla negli anni in cui ha governato per rassicurare la parte più preoccupata dell’opinione pubblica, che non è quella che abita i “quartieri alti” (comunque abbastanza indenni da possibili contaminazioni), ma piuttosto le grandi periferie dove il confronto è immediato e quotidiano e la presenza degli immigrati è vissuta come un ulteriore elemento di disagio. Si poteva fare diversamente? Certamente sì a cominciare dal dissuadere gli oltranzisti del “multiculturalismo” a promuovere iniziative inconsulte che vengono lette come una rinuncia alle nostre tradizioni culturali (e religiose) per “venire incontro” alle suscettibilità degli immigrati non cristiani, consentendo così alla destra più reazionaria di brandire con successo i principi dell’identità culturale e del primato nazionale. L’integrazione non può essere intesa come rinuncia all’identità ma deve essere gestita come assimilazione: chi vuole restare in Italia deve accettarne le regole esistenziali, cominciando da quelle che definiscono i diritti e i doveri di cittadinanza nel pieno rispetto dei principi etici in cui noi ci riconosciamo. Per questo la battaglia del centro-sinistra per concedere la nazionalità automaticamente a tutti coloro che sono nati in Italia e che frequentano le nostre scuole, e magari sono figli di immigrati che intendono invece mantenere la loro nazionalità, è stata percepita come una forzatura ideologica; diverso sarebbe stato prevedere al compimento della maggiore età il diritto di acquisire la nazionalità. Parità di diritti alle prestazioni sociali (che può essere collegata alla residenza) e nazionalità sono cose diverse.

Accoglienza
La politica dei rimpatri degli immigrati irregolari è inutile, dannosa e difficilmente praticabile.
Inutile perché non serve ad eliminare il problema, dannosa perché respinge gli immigrati verso un destino inumano e talvolta drammatico, difficilmente praticabile perché per rimpatriare occorre il consenso del paese da cui provengono ed è molto difficile ottenerlo. Si pone quindi il problema dell’accoglienza per quelli che già si trovano in Italia (e per i pochi che ancora arrivano) e su questo i governi passati e quello attuale hanno grandi responsabilità. Essa è stata organizzata male senza un progetto organico, determinando nel Paese situazioni diverse a macchia di leopardo, senza mettere in funzione un sistema efficiente di identificazione che consentisse di separare gli aventi diritto all’asilo da quelli che non ne avevano titolo. Non si è modificata la legge Bossi-Fini che tutt’oggi impedisce l’integrazione anche laddove è possibile, alimentando lavoro nero e mano d’opera per la delinquenza organizzata. Non si è proceduto a una campagna di sensibilizzazione sui mass-media e sui social-network per contrastare le falsificazioni su cui in buona parte Salvini ha costruito il suo successo elettorale.

Futuro
Ciò che abbiamo detto riguarda l’emergenza del presente. Ma ciò di cui si deve discutere è l’emergenza del futuro quando l’inesorabile calo demografico renderà l’immigrazione non soltanto inevitabile ma assolutamente necessaria, in coincidenza peraltro col problema inverso dei paesi africani per i quali l’emigrazione in Europa è questione di sopravvivenza. Aiutarli a casa loro, come recita un facile slogan, è possibile e doveroso ma non basterà, almeno per qualche decennio, ad eliminare il fenomeno, come dimostra la storia della nostra emigrazione che si esaurì soltanto quando il tenore di vita in Italia si avvicinò in maniera significativa a quello dei paesi destinatari.
In proposito però bisogna essere chiari: il problema non è soltanto italiano ma piuttosto europeo e gli altri paesi del vecchio continente lo sanno benissimo; se c’è qualcuno lassù che pensa di fare dell’Italia una zona-cuscinetto che si assume per conto degli altri la funzione di filtro dell’immigrazione proveniente dal Mediterraneo (come si è fatto con la Turchia per l’immigrazione dal Vicino Oriente), magari anche pagandone i costi, occorre che sappia che l’opinione pubblica italiana, innervosita e arrabbiata, non lo consentirà mai, anche a costo di uscire dall’Unione Europea. Le soluzioni sono altre e costituiscono l’impegno più gravoso della nuova legislatura del parlamento europeo che inizierà alla fine dell’anno.
Si tratta di una sfida che i partiti europeisti devono vincere nei confronti dei nazionalisti e degli isolazionisti dei propri paesi, senza ipocrisie. Occorre riaprire le frontiere in Europa, affrontare i problemi dell’immigrazione con strumenti sovranazionali, disegnare una grande politica per l’Africa mettendo in gioco ingenti risorse economiche, le diverse eredità storiche, le influenze culturali ancora forti, per stabilizzare le democrazie africane e arginare le spinte neo-colonialiste della Cina (delle quali – chissà perché – Di Battista, preoccupato soltanto di quelle francesi, non parla mai).
Se ne discute poco, anche tra gli europeisti; sarebbe il caso di cominciare.

 

Franco Chiarenza
13 febbraio 2019

 

L’11 febbraio ricorre il novantesimo anniversario della firma dei patti lateranensi e del concordato, un insieme di accordi tra lo Stato italiano e la Santa Sede meglio conosciuti come “Conciliazione”.
Ricordarlo, e valutare al contempo qual è oggi la situazione dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa cattolica, sembra opportuno. Almeno per un liberale.

11 febbraio 1929
Cosa avvenne in quel giorno quando Benito Mussolini, capo del governo italiano, e il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato della Chiesa cattolica, sancirono la conciliazione tra il regno d’Italia nato dal Risorgimento e la Chiesa romana che da quell’evento era stata privata del suo secolare dominio temporale su vaste regioni della penisola?
Non è questa la sede per raccontare e interpretare per l’ennesima volta un evento su cui si è nel tempo accumulata una pubblicistica esauriente; basta ricordare alcuni punti essenziali.

  1. il Concordato fu possibile con il fascismo mentre non riuscì mai con i governi liberali (che pure lo avevano cautamente cercato) perché potè configurarsi come un patto tra due assolutismi, quello religioso e intollerante della Chiesa di allora (ancora condizionata dal “Sillabo” di Pio IX) e quello politico che il fascismo stava consolidando in Italia. Il riconoscimento del cattolicesimo come “religione di Stato” e il giuramento di fedeltà dei vescovi allo Stato italiano ne rappresentano l’elemento emblematico.
  2. la Chiesa otteneva col Concordato non soltanto una posizione privilegiata ma soprattutto il rovesciamento del principio cavourriano “Libera Chiesa in libero Stato”. Il fascismo riceveva una legittimazione politica e morale che rafforzava le deboli basi costituzionali su cui poggiava essendo ancora vigente lo Statuto del 1848. Mussolini diventava così nelle parole del papa “un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale”.
  3. lo Stato versò a vario titolo alla Chiesa una somma considerevole che ha costituito la base dei privilegi economici e fiscali su cui il Vaticano ha costruito il suo potere finanziario sovranazionale.

26 marzo 1947
L’Assemblea costituente eletta l’anno prima per redigere la nuova Costituzione approvava dopo un’aspra discussione l’articolo 7 che incorpora i patti lateranensi nel testo costituzionale malgrado le evidenti contraddizioni con i principi costituzionali, lasciando aperta una finestra a una possibile revisione soltanto col consenso della Chiesa. I comunisti sorprendentemente votarono a favore e il loro consenso fu determinante. Si trattò, visto col senno di poi, di una prova generale del compromesso storico in salsa togliattiana. Il leader comunista sapeva che una presenza comunista nel governo di un Paese allora profondamente cattolico, priva dell’”assistenza” dell’armata rossa (che era stata determinante in altri paesi dell’Europa orientale), sarebbe necessariamente passata attraverso un accordo con la Chiesa; intesa fattibile perché fondata su una comune avversione ai principi della democrazia liberale occidentale e a una possibile convergenza su politiche economiche dirigiste a forte contenuto sociale. Contava molto nell’atteggiamento comunista anche la consapevolezza che il voto femminile, molto condizionato in quegli anni da preoccupazioni di ordine religioso, potesse indebolire la posizione elettorale dell’estrema sinistra.

18 febbraio 1984
Passarono 37 anni prima che finalmente un governo italiano ponesse con decisione il problema di una revisione del Concordato che eliminasse almeno le clausole più anacronistiche del trattato. Il nuovo Concordato fu firmato a villa Madama da Bettino Craxi e dal cardinale Agostino Casaroli; si trattò naturalmente di un compromesso che peraltro eliminava alcune assurdità come il riconoscimento di religione di Stato al cattolicesimo, la riduzione di alcuni privilegi ecclesiastici e la non obbligatorietà dell’insegnamento della religione nelle scuole. Apprezzabile apparve anche il nuovo sistema di finanziamento del sostentamento del clero posto, almeno in linea di principio, ai contribuenti che destinavano l’8 per mille dell’imposta a tal fine (principio poi esteso ad altre confessioni religiose). Purtroppo l’attuazione concreta delle nuove norme mostrò tutta la sua ambiguità: l’8 per mille fu calcolato sull’intero ammontare delle entrate tributarie, consentendo alla Chiesa di incassare centinaia di milioni, l’insegnamento della religione cattolica è restato prevalente per la resistenza dei ministri che si sono succeduti alla pubblica istruzione di istituire corsi alternativi, l’immenso patrimonio immobiliare della Chiesa è stato praticamente esentato dalle tasse (fino a quando, un anno fa, è intervenuta in proposito la Corte di giustizia dell’Unione Europea).

Oggi
Sono passati altri 35 anni. A che serve ancora un Concordato, non sarebbe ora di abolirlo e di mantenere nella sua essenza liberale e pluralista soltanto l’articolo 19 della Costituzione? L’Italia è profondamente cambiata, è un paese secolarizzato in cui la questione religiosa ha perso buona parte della sua rilevanza, il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, con la definitiva costituzione di uno Stato della Città del Vaticano, non si pone più in termini conflittuali. Anche la Chiesa è cambiata: con il Concilio Vaticano II (che ha legittimato il pluralismo religioso) e soprattutto con le encicliche di Giovanni XXIII ha definitivamente abbandonato le posizioni illiberali e oltranziste che avevano caratterizzato il Concilio Vaticano I (interrotto il 20 settembre 1870 dall’irruzione dei bersaglieri nella città). La successiva elezione di pontefici non italiani ha accentuato la dimensione planetaria del suo magistero e ha diminuito la pressione temporale che continuava a esercitare sul nostro paese e la presenza cattolica, ormai minoritaria, è sentita soprattutto come attività assistenziale.
A che serve dunque un Concordato? Un papa come Bergoglio, molto attento a restituire alla Chiesa una dimensione morale e spirituale, dovrebbe essere il primo a rendersi conto che l’esistenza di accordi privilegiati con gli Stati – perchè tale è l’essenza dei Concordati – non ha alcuna ragione di essere se davvero la Chiesa intende ridurre la sua dimensione temporale.
Consegniamo dunque alla storia per sempre la “questione romana” con tutte le sue evoluzioni. Mai come oggi Stato e Chiesa sono indipendenti, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, come recita l’apertura dell’articolo 7; il resto è superfluo e dannoso a entrambi.

 

Franco Chiarenza
11 febbraio 2019

E’ morto Paolo Bonetti. Una perdita grave per il liberalismo italiano, perché liberale fino in fondo Bonetti lo era davvero. Altri scriveranno del suo pensiero filosofico, della sua attività accademica, della sua sensibilità per i diritti umani ivi compresi quelli che derivano dal fenomeno dell’immigrazione (un problema complesso su cui la cultura liberale occidentale non ha ancora trovato un punto di convergenza condiviso). Lo ricordo nella sua compostezza, nella capacità di ascoltare e di confrontarsi senza mai rinunciare all’intransigenza sui principi che lo portava anche a simpatizzare con le campagne anti-clericali di “Critica Liberale”, il periodico diretto da Enzo Marzo, col quale collaborava intensamente. Era un “liberale di sinistra”, e di questa importante componente del liberalismo italiano scrisse anche una storia.

Abbiamo discusso tante volte, era un amico sincero della vecchia Fondazione Einaudi di Roma – quella di Zanone, per intenderci – e ne apprezzavo la profondità di pensiero unita alla rara capacità di esporre le sue convinzioni in termini semplici e facilmente comprensibili; doti essenziali per un buon “maestro” come infatti dimostrò di essere nei suoi numerosi incarichi didattici.
Quando venne, invitato dai giovani della LUISS, a presentare il mio libro “Il liberale qualunque”, lui che di ogni forma di qualunquismo era avversario, fu il solo a comprendere il senso divulgativo e didattico del testo che avevo faticosamente elaborato, e, rispondendo a una domanda di un giovane che ne lamentava la dimensione “tuttologica”, rispose che il libro era da tenere sul comodino, come un livre de chevet, un manuale del buonsenso liberale da consultare di tanto in tanto. Lo apprezzai molto.

Lo incontravo talvolta anche nei dibattiti e negli incontri organizzati nella chiesa valdese di piazza Cavour e alla sua competenza in materia di rapporti tra Stato e Chiesa devo la comprensione dell’importanza che ha avuto ed ha tuttora la questione. E del perché un liberale, al di là ovviamente di qualsiasi convinzione religiosa, non può non seguire con attenzione quanto avviene nella Chiesa per comprenderne il travaglio nell’affrontare un’impietosa secolarizzazione che rischia di distruggerla non tanto come organizzazione terrena quanto nella sua dimensione morale in grado di condizionare valori e comportamenti. I liberali non hanno distrutto il potere temporale della Chiesa per eliminare quei valori cristiani che nella tradizione occidentale si erano fusi con le certezze dell’illuminismo, ma per esaltarne il valore civile; il nulla dell’anarchia individualista che sembra oggi averne preso il posto nulla ha a che fare con il vero liberalismo. Quello di Bonetti.

 

Franco Chiarenza
31 gennaio 2019

Mio nipote (anni ventuno), simpatizzante del PD, mi ha chiesto: non ti sembra che alcune proposte dei Cinque Stelle siano giuste? Per esempio il reddito di cittadinanza non dovrebbe far parte di una politica di sinistra? Vedi – ho dovuto rispondergli (ma non so se l’ho convinto) – il problema non è cosa si vuol fare ma come si fanno le cose. Il “come” è importante perché costringe a considerare le conseguenze.
Un liberale, come credo di essere, non può negare che, al di là delle forme bizzarre che caratterizzano la loro azione politica, il movimento fondato da Grillo e Casaleggio porti avanti anche alcune ragioni e battaglie in cui i liberali non possono non riconoscersi. Dove si resta perplessi (e talvolta sconcertati) è nelle soluzioni proposte dai Cinque Stelle, quasi sempre confuse e incerte, spesso approssimative fino al limite di un dilettantismo demagogico. Sembra sempre che Di Maio sia attento soltanto al mantenimento di un consenso che, provenendo da motivazioni diverse e contrastanti, è destinato a modificarsi ogni volta che il movimento dovrà compiere delle scelte di governo. Per esempio:

a) – pubblica moralità
I partiti che hanno governato fino a ieri hanno molto sottovalutato l’importanza di questo aspetto per un’opinione pubblica stanca degli scandali continui che si sono succeduti. Il successo dei Cinque Stelle è in parte fondato su questa indignazione, probabilmente esagerata rispetto alle reali dimensioni del fenomeno, ma considerata invece nella percezione di molti giunta a livelli di guardia (come già avvenne vent’anni fa con “Mani pulite”). Certe arroganti difese di privilegi inaccettabili (come i vitalizi dei parlamentari), certi abusi visibili a tutti (come l’uso di auto e aerei “blu”), certi condannati che impunemente restavano alla ribalta, certi processi conclusi con prescrizioni scandalose, hanno alimentato la protesta come benzina sulla brace.
Un maggiore rigore morale non può dunque che essere accolto con favore dai liberali, ma non deve trasformarsi nel suo contrario cioè nel venir meno dei principi di garanzia di ogni stato di diritto. Quando si sospende “sine die” la prescrizione dopo il giudizio di primo grado si agisce frettolosamente e demagogicamente e si rischia di peggiorare la situazione facendo venir meno il diritto di essere giudicato in tempi certi. Anche la sospensione dai pubblici uffici prima di una sentenza definitiva appare in contraddizione con la presunzione di innocenza stabilita dalla Costituzione. A fronte quindi di un problema reale come quello di evitare che la prescrizione divenisse – come talvolta è avvenuto – una tattica utilizzata per ottenere assoluzioni per decorrenza dei termini bisognava agire diversamente: mettere in piedi una riforma complessiva della giustizia penale in grado di eliminare molte procedure dilatorie che oggi consentono troppo spesso l’impunità. Tempi lunghi? Non necessariamente se c’è una volontà politica e una capacità di condividere anche con le opposizioni una riforma così importante.

b) – la casta
Uno dei bersagli preferiti dai Cinque Stelle è la cosiddetta “casta”. Con questo termine essi si riferiscono in realtà alla classe dirigente, in particolare a quella politica, che a loro avviso si rinnova per cooptazione, è insensibile a qualsiasi promozione sociale dal basso, ed esercita una sorta di egemonia totalizzante non soltanto nella politica ma anche nei giornali, nell’economia, nella finanza, nell’università, ecc. Il problema è reale e nessuno più di un liberale può essere sensibile al mancato funzionamento dell’ “ascensore sociale” (che è poi anche una delle cause della “fuga dei cervelli” a parole tanto deprecata, nei fatti incoraggiata per lasciare spazio ai figli dei soliti noti).
Ma, ancora una volta, la soluzione non può essere cercata nel trionfo dell’incompetenza. Per progettare il futuro mantenendo i piedi per terra nel presente servono competenze politiche (non soltanto tecniche) che non si improvvisano; per evitare gli inevitabili ostacoli occorrono esperienze maturate nei poteri locali, pubbliche relazioni durevoli, capacità di contemperare – quando si può – interessi diversi, pur mantenendo come una stella polare le idee e le ragioni per le quali si è chiesto il consenso dei cittadini. L’idea balzana che chiunque dall’oggi al domani possa governare realtà complesse come quelle che caratterizzano la politica contemporanea, che cioè si possa esercitare il potere su mandato fiduciario di poche migliaia di individui (siano essi iscritti ai partiti o a una piattaforma digitale poco cambia) è non soltanto velleitaria ma anche foriera di esiti catastrofici; lo abbiamo già visto in passato con i partiti fondati su ideologie totalizzanti, da quello fascista dopo la prima guerra mondiale a quelli comunisti dopo la seconda. Lo slogan “uno vale uno” è giusto se attiene ai diritti (e ai doveri) di cittadinanza non se riguarda le competenze di ciascuno di noi: faresti aggiustare l’impianto elettrico a una persona qualsiasi o ti faresti difendere in tribunale da chi non esercita come avvocato?
La democrazia è fondata sul pluralismo delle idee e sul confronto civile che vanno esercitati nel contesto di una carta fondamentale che ne regola le modalità; minare la rappresentanza parlamentare basata sulla responsabilità di ciascun deputato o senatore di fronte al Paese (e non al partito che lo ha fatto eleggere) è estremamente pericoloso. La prima repubblica cadde anche per le degenerazioni della partitocrazia che avevano quasi svuotato i poteri del parlamento. La politica non è una partita di poker in cui chi vince prende tutto il piatto, e dove le campagne elettorali si trasformano in tifoserie che si scambiano insulti incitando all’odio; è invece una competizione fondata sul confronto tra progetti di governo diversi (e talvolta anche opposti) dove si discute e si decide in base a una delega che andrà verificata alla fine del mandato e non giorno per giorno in base ai sondaggi. I bilanci di casa si fanno a fine d’anno, quelli della politica a fine legislatura.
Quanto conti la competenza, l’esperienza, lo dimostra l’esperimento di Virginia Raggi a Roma: ha impiegato sei mesi per crearsi una giunta stabile, ha affrontato i problemi più scottanti in modo superficiale, ha peggiorato le condizioni di vita della città già rese precarie dai suoi predecessori. Per non parlare di alcuni ministri (come l’ineffabile Danilo Toninelli) ormai oggetto di quotidiano sarcasmo su quegli stessi “social” che avrebbero dovuto rappresentare la forza dirompente del movimento.
Questo non significa che qualcosa non si possa fare, anche in termini di ingegneria istituzionale: per esempio stabilire alcuni limiti al rinnovo del mandato, come si è fatto – con ottimi risultati – nell’elezione dei sindaci. O anche adottare forme di recall (già sperimentate negli USA) che però sono possibili solo rendendo definitivo almeno per una camera il sistema elettorale uninominale (il che, oltre tutto, consentirebbe un legame organico e continuo tra elettori ed eletti). Misure che vanno studiate attentamente, concordate con maggioranze più ampie di quelle di governo, e attuate con regole chiare non suscettibili di interpretazioni distorcenti (come è avvenuto in passato per alcuni casi di incompatibilità stabiliti dalla legge, per esempio per i magistrati che scendono in politica).

c) – reddito di cittadinanza e pensioni
Sul fatto che fossero necessarie misure di sostegno per la parte più povera del Paese credo siano tutti d’accordo; già il governo Gentiloni si era mosso in questa direzione con il cosiddetto reddito di inclusione. Il problema è come realizzare tale legittima esigenza in presenza di un bilancio che dispone di poche risorse realmente spendibili (e su questo punto si è consumato il duro confronto con la Commissione dell’Unione Europea). La legge sul reddito di cittadinanza voluta da Di Maio si muove nella stessa logica assistenziale degli 80 euro di Renzi: una gigantesca operazione di voto di scambio. Le misure di contenimento e di controllo previste nel provvedimento rischiano di essere inattuabili e di produrre nella loro concreta attuazione un pasticcio confuso e indecoroso. In un paese come il nostro (e non soltanto al sud) il reddito di cittadinanza potrebbe incrementare il lavoro nero e produrre infiniti aggiramenti fraudolenti praticamente impossibili da scoprire e sanzionare.
Se è vero che la mancanza di lavoro costituisce il problema più grave da affrontare non è certo col reddito di cittadinanza che si risolve; anche ammesso (e non concesso) che – come prefigura Di Maio – l’incremento dei consumi dovesse aumentare la domanda fino a generare significativi aumenti della produzione (e quindi dell’occupazione) gli effetti si vedrebbero soltanto in tempi lunghi. Hanno quindi ragione gli imprenditori quando sostengono che i pochi mezzi disponibili (in gran parte derivati da un’ulteriore aumento del debito pubblico) dovrebbero essere utilizzati non per finanziare misure prevalentemente assistenziali dai dubbi risultati espansivi ma per facilitare attraverso la riduzione delle imposte gli investimenti produttivi in grado di generare occupazione.
Perchè il vero problema non è fare lavorare chi non vuole (e potrebbe accontentarsi del “salario di cittadinanza”) ma creare il lavoro che non c’è.

Anche per le pensioni vale lo stesso ragionamento. A prescindere dalla retorica anti-Fornero cavalcata spregiudicatamente (e secondo me infondatamente) da Salvini, si tratta di capire se sia utile impiegare ingenti risorse per consentire ai pensionandi di anticipare l’uscita dal lavoro (oltretutto in presenza di un fenomeno come l’allungamento delle aspettative di vita, in sé positivo, ma foriero di un appesantimento dei conti previdenziali). Si tratta infatti di una misura assistenziale che non genera sviluppo né nuova occupazione; e nemmeno garantisce quel ricambio generazionale auspicato da Salvini se non accelerando di poco quel che sarebbe comunque avvenuto (nella pubblica amministrazione, perché nel settore privato è molto improbabile).

Entrambe le riforme poi presentano anche un lato oscuro non sufficientemente valutato. In un paese come il nostro dove l’economia sommersa ha dimensioni gigantesche (e occupa non meno di tre milioni di lavoratori) si rischia di aumentarne l’estensione con l’immissione sul mercato del lavoro reale di migliaia di soggetti ancora validi che, avendo la pensione o il reddito di cittadinanza, andranno a costituire una forza-lavoro retribuita in nero a basso costo. Spesso, soprattutto nel sud, per le piccole imprese marginali il lavoro nero, con l’evasione fiscale e contributiva che l’accompagna, è una condizione di sopravvivenza; ed è questa la ragione vera per cui tutti, politici, sindacalisti, mezzi di informazione, fingono di non vederlo. Di Maio minaccia per costoro fuoco e fiamme; ma vivendo a Pomigliano d’Arco non può non sapere qual’è già oggi la realtà sotto gli occhi di tutti e la difficoltà di applicare le leggi (anche quelle che già ci sono) per contrastare l’economia sommersa. Lui e il suo compagno Di Battista hanno “scoperto” che i rispettivi padri nelle loro piccole imprese utilizzavano il lavoro nero! Che sorpresa!!!
In tale contesto le sanzioni minacciate da Di Maio rischiano di fare la fine delle “grida” di manzoniana memoria. C’è una vecchia storiella messa in giro per dimostrare il carattere pragmatico degli inglesi: se in una sala affollata dove è proibito fumare i trasgressori sono pochi puoi cacciarli fuori, ma se sono la grande maggioranza è meglio togliere il cartello di divieto. Noi di solito facciamo peggio, manteniamo il cartello e fumiamo lo stesso.
Per noi liberali dunque su una questione tanto importante e condivisibile negli obiettivi bisognava intervenire diversamente: con misure di sostegno transitorie per i disoccupati potenziando seriamente i centri per l’impiego, mettendo in atto percorsi individuali differenziati (e ci vorranno molti mesi); con un’assistenza familiare mirata nei casi di esclusione irreversibile, cercando nel contempo di riorganizzare in maniera efficiente tutto il settore dell’assistenza pubblica oggi caratterizzato da provvedimenti parziali e incongrui e dalla confusione delle competenze, fonte di sprechi e corruzione (ricordi i ricorrenti scandali dei falsi invalidi? Ciechi che giocano a calcio, zoppi che corrono la maratona, ecc.)

d) – rapporti con i mezzi di comunicazione
L’Ordine dei giornalisti, creato dal regime fascista per controllare la stampa ed esistente quasi esclusivamente in Italia, non va riformato; va semplicemente soppresso. Costa molto, serve soltanto a creare barriere corporative all’accesso ai mezzi di informazione, potrebbe essere sostituito da organismi più flessibili concordati tra editori e sindacato dei giornalisti senza veste istituzionale. Lo ripeto (insieme a tanti altri) da anni attirandomi l’ostilità della corporazione. Se il movimento Cinque Stelle lo farà i liberali non potranno che essere d’accordo, anche perchè la soppressione dell’Ordine dei giornalisti fu sostenuta a suo tempo pure da Luigi Einaudi.
Lo stesso vale per i finanziamenti pubblici all’editoria contro i quali i liberali si battono da sempre. Se un giornale non riesce a farsi finanziare dai suoi lettori e dalla pubblicità deve chiudere; farlo sovvenzionare dallo Stato costituisce un’inaccettabile violazione del principio di libertà dell’informazione, anche a prescindere dalle modalità sostanzialmente discrezionali con cui lo si realizza. Tanto più oggi che l’informazione transita assai più su internet che non sulla carta stampata e le minoranze dispongono di infiniti mezzi per fare conoscere le loro opinioni..

e) – difesa dell’ambiente
Si tratta di un problema della cui importanza tutti sono consapevoli. In Italia la questione è vitale per la particolare natura del territorio, unico al mondo non soltanto per ragioni idrogeologiche ma anche e soprattutto per gli assetti urbani e paesaggistici che la sua storia ha lasciato. Ciò però non significa fermare tutte le opere necessarie a facilitare la produzione di beni e servizi, i quali hanno bisogno di grandi infrastrutture ben funzionanti nei trasporti, nell’edilizia urbana, nella comunicazione. Spetta alla politica naturalmente valutarne la convenienza di volta in volta ma le decisioni devono essere trasparenti nelle loro motivazioni, adottate in tempi certi, rese definitive rapidamente, evitando che ogni progetto si incancrenisca in passaggi burocratici e decisionali che non finiscono mai dando luogo a contenziosi che durano anni. Abbiamo opere pubbliche per 500 miliardi sostanzialmente ferme; basterebbe riavviarle per creare un volano per la ripresa economica e l’occupazione.
La preoccupazione dei Cinque Stelle che le grandi opere pubbliche progettate siano talvolta inutili o comunque sproporzionate in una corretta logica costi-benefici, e che spesso siano fonte di corruzione e di malversazioni, ha un indiscutibile fondamento. Le tante opere incompiute, le “cattedrali nel deserto” che punteggiano le regioni meridionali, stanno a dimostrarlo. Ma si tratta di inconvenienti che si contrastano con leggi appropriate (a cominciare da una revisione di quelle che regolano gli appalti), con una attenta vigilanza che deve partire dalla pubblica amministrazione prima ancora di finire nelle aule giudiziarie. Non fare le opere pubbliche perchè generano corruzione è come non costruire automobili perchè provocano incidenti.
Invece i Cinque Stelle si attardano in battaglie di retroguardia a fini puramente ideologici, come nel caso della TAV, del TAP, del traforo del Brennero, dell’alta velocità ferroviaria, delle linee metropolitane nelle grandi aree urbane. In qualche momento (e in qualche dichiarazione improvvisata) sembra quasi che auspichino una società modellata su quelle comunità quacchere americane dove per evitare la corruzione e fare prevalere i buoni sentimenti ogni comodità moderna viene bandita, vengono riesumate le carrozze a cavalli, e il governo è affidato a saggi anziani che lo esercitano con modalità patriarcali.

In conclusione un po’ di pragmatismo e di gradualità non guasterebbe. Per esempio la questione dei termovalorizzatori (definiti sprezzantemente inceneritori e “tumorifici” da Grillo) andrebbe affrontata come si fa in paesi che in tema di ambientalismo possono darci delle lezioni, come quelli scandinavi. A Copenhagen (e altrove) nuovi impianti assolutamente sicuri non soltanto hanno risolto il problema dei rifiuti (assorbendo a caro prezzo anche rifiuti altrui come quelli napoletani) ma producono anche energia elettrica consentendo l’illuminazione di interi quartieri (lo hanno fatto anche a Brescia). In sostanza accade che noi siamo costretti a portare (sempre a caro prezzo) i nostri rifiuti ai termovalorizzatori che l’indegna gazzarra incosciente di Grillo vorrebbe distrutti; il povero Pizzarotti, divenuto sindaco di Parma coi voti dei Cinque Stelle si è subito reso conto dell’assurdità della situazione ed è stato cacciato dal movimento (non dalla sua città che lo ha trionfalmente rieletto). E’ mancato poco che la Raggi dirottasse i rifiuti romani proprio nell’impianto di Pizzarotti. Certo, il ciclo integrale costituisce una soluzione ideale, ma per farlo funzionare occorrono una diffusa coscienza civica e organizzazioni efficienti che da noi sono molto carenti e per venirne a capo ci vogliono tempi molto lunghi. L’idea che intanto dobbiamo tenerci la puzza così impariamo più presto a fare la raccolta differenziata mi ricorda la pedagogia staliniana; manca solo la Siberia.
Lo stesso discorso vale per l’energia. Una delle ragioni della ridotta competitività del nostro sistema industriale è notoriamente il costo dell’energia; avere escluso drasticamente e precipitosamente l’opzione nucleare ci è costato caro. Un’opinione pubblica allarmata, disinformata, ha deciso con un referendum senza rendersi conto che le centrali francesi, austriache, slovene ci circondano; il rischio è rimasto uguale e spesso abbiamo dovuto comprare l’energia dalla Francia. Le ragioni degli anti-nucleari erano parzialmente fondate, ma bisognava muoversi in maniera graduale, d’intesa almeno con i partner europei (come poi si è fatto con decisioni comuni sull’incremento delle fonti energetiche rinnovabili). Avremmo risparmiato qualche miliardo e non ci saremmo ridotti a dipendere totalmente dall’estero.
Ora tocca al gas. Ne avremo bisogno ancora per molti anni e, a quanto affermano gli esperti, ne abbiamo in quantità nei mari che ci circondano; ma il solito oltranzismo ideologico si oppone alle trivellazioni. Finirà che il nostro gas lo tireranno fuori gli albanesi e i greci (i giacimenti, come le radiazioni nucleari, si diffondono senza passaporto) e poi ce lo rivenderanno (sempre a caro prezzo).
Si tratta soltanto di alcuni esempi; altri se ne potrebbero fare. Sembra di scorgere una strategia di fondo ostile alle grandi industrie, agli investimenti strutturali, alla stessa economia di mercato, con la finalità di favorire il “piccolo è bello”. Il problema non è se sia giusto o sbagliato (per noi liberali è sbagliato) perchè tutti hanno diritto alle loro opinioni, ma se davvero i tanti che hanno votato i Cinque Stelle sono consapevoli di tali obiettivi e delle conseguenze che la loro strategia comporterà nell’economia del Paese.

Preoccupa però noi liberali qualunque – al di là di una ideologia non condivisibe – l’assetto politico che si cerca di configurare. Ci domandiamo se insistendo in modo quasi maniacale nel condannare gli errori e le degenerazioni del passato per avere via libera nel buttare l’acqua sporca, il vero obiettivo non sia quello di buttare con essa il bambino che richiedeva soltanto di essere lavato. Fuor di metafora se l’intenzione non sia quella di eliminare la democrazia liberale coi suoi equilibri istituzionali, un sistema politico che ha consentito più di ogni altro in ogni epoca della storia di assicurare il massimo di libertà in un contesto economico che ha liberato dalla fame e dall’indigenza milioni di esseri umani. Non ci sarebbe da stupirsi; le ideologie si trasformano spesso in fondamentalismi e questi ultimi – sempre richiamandosi a una superiore legittimazione popolare – rifiutano ogni confronto e, prima o poi, reprimono il dissenso.
Ci preoccupa per esempio l’allergia ad ogni confronto pubblico che vada oltre gli slogan elettorali, una discutibile democrazia interna nel movimento, i rapporti poco chiari tra il gestore del portale Rousseau e la dirigenza politica, la diffidenza per ogni corpo intermedio che si frapponga tra la “volontà popolare” espressa in modo plebiscitario e il potere, l’ignoranza elevata a valore di eguaglianza sociale, un certo “giustizialismo” vendicativo che raccoglie gli umori più negativi della “pancia” del Paese, il disprezzo per le forme istituzionali. E infine un’idea di “democrazia diretta” che eliminerebbe ogni possibilità di mediazione costruttiva, una forma di plebiscitarismo che – anche senza scomodare i totalitarismi di Mussolini, Hitler e Stalin – ha sempre prodotto governi sostanzialmente autoritari anche quando formalmente fondati sul consenso popolare: ieri i Bonaparte, oggi le “demokrature” di Putin, Erdogan, Orban, Kazinski, ecc.
No grazie. Noi italiani abbiamo già dato.

 

Franco Chiarenza
24 gennaio 2019

Con una cerimonia solenne nella sede della Banca d’Italia, alla presenza del Capo dello Stato e del presidente del Consiglio, è stato presentato qualche giorno fa il primo volume dell’edizione nazionale delle opere di Luigi Einaudi. Un’occasione per il governatore Visco di ribadire alcune preoccupazioni molto attuali e per il curatore Pier Luigi Ciocca di ricordare alcuni passaggi fondamentali del pensiero di Einaudi. Un’opportunità per un liberale qualunque come me per riflettere ancora una volta sulla sua eccezionale personalità.

Einaudi presidente
Non avrebbe mai potuto immaginare che la sua lunga esistenza politica si sarebbe conclusa al Quirinale, in quel palazzo che aveva ospitato papi e re, e che lui stesso – monarchico – rispettava come simbolo dell’unificazione nazionale. Ci arrivò in un momento difficile di passaggio istituzionale dal regno dei Savoia alla nascita della Repubblica in seguito a un referendum che aveva profondamente lacerato il Paese. La sua presidenza costituiva un precedente nel quale avrebbero in qualche misura dovuto riconoscersi i successori, un esempio per un’opinione pubblica incuriosita dalla novità, una garanzia per i monarchici che la loro preferenza istituzionale non sarebbe stata oggetto di discriminazione (come invece, necessariamente, si doveva fare in quel momento nei confronti dei nostalgici del fascismo).
Einaudi seppe svolgere il suo compito con uno stile ineguagliabile, unendo alla modestia personale un rispetto per le forme necessariamente solenni del ruolo istituzionale, utilizzando tutti gli strumenti che la Costituzione gli riconosceva per esercitare un ruolo di persuasione e di controllo sugli atti di governo. Non per questo smise di scrivere; lo “Scrittoio del Presidente” rappresenta una testimonianza preziosa di questa sua esperienza e, con le più note “Prediche inutili”, un testamento politico fondato sulla convinzione che la nuova classe dirigente dovesse con l’esempio, con chiare scelte politiche ed economiche, favorire la crescita morale e materiale del popolo italiano che usciva dalla terribile esperienza del fascismo e della seconda guerra mondiale

Einaudi economista
Einaudi era certamente un sostenitore dell’economia di mercato. Ma, proprio per questo, riteneva che il sistema italiano ereditato dal fascismo fosse lontano da quel modello, dato il peso che in esso avevano ancora le corporazioni, i monopoli, i vincoli di ogni genere che caratterizzavano la presenza dello Stato. Ma non era contrario all’intervento pubblico per principio; al contrario lo riteneva necessario quando serviva a garantire l’uguaglianza delle opportunità, quando cioè era finalizzato ad assicurare quanto più possibile le condizioni minime di partenza nella competizione esistenziale. Da qui l’importanza che Einaudi attribuiva alla scuola e alla sua capacità di rispondere efficacemente alle esigenze della società; da qui la sua ostilità al riconoscimento legale del titolo di studio che favorisce inevitabilmente la mediocrità a scapito della competenza. Nella sua concezione la scuola avrebbe dovuto essere diffusa ovunque secondo i diversi livelli di formazione, severa quanto basta per operare una giusta selezione, attenta a promuovere competenze da riversare sul mercato del lavoro, sensibile all’innovazione, in grado sostanzialmente di consentire a chiunque di possedere le conoscenze necessarie per potere deliberare consapevolmente nelle scelte che la società civile impone a ciascuno dei suoi componenti. Così non è stata e ne paghiamo le conseguenze anche in termini di coesione sociale.
Il medesimo principio valeva negli assetti produttivi; toccava allo Stato intervenire nelle infrastrutture necessarie e ogni qual volta potesse svolgere un ruolo di “volano” per lo sviluppo. Temeva però come la peste – ben conoscendo i vizi della classe politica – che strumenti pensati per realizzare tali compiti finissero per trasformarsi in giganteschi serbatoi di sottogoverno. La questione morale e le teorie economiche erano nel suo pensiero strettamente associate. Da qui la sua diffidenza per i colossi statali come l’IRI e l’ENI, troppo grandi e potenti per essere controllati dalla politica ma, al contempo, troppo infestati da logiche politiche clientelari per svolgere una funzione di sostegno all’iniziativa privata sufficentemente elastica da assecondare le variabili di un mercato sempre più ampio.

Einaudi governante
Come governatore della Banca d’Italia e poi ministro dell’Economia operò scelte molto nette: lotta all’inflazione (da lui considerata la più iniqua delle tasse perché colpisce maggiormente in proporzione chi meno ha), stabilità monetaria e contenimento del debito pubblico. Si deve a quelle decisioni (e a quelle successive di apertura dei mercati al commercio internazionale) se il Paese poté riprendersi con una velocità che stupì tutto il mondo, creando quel “miracolo” economico degli anni ’50 che miracoloso non fu ma semplicemente il frutto di scelte lungimiranti e di buon senso che non tutti avevano inizialmente apprezzato. Il futuro dell’Italia nell’idea di Einaudi coincideva con quello dell’Europa, la quale soltanto mettendo insieme le proprie risorse e le diverse espressioni culturali avrebbe potuto ritrovare un ruolo importante nella nuova distribuzione delle egemonie politiche che si stava delineando nel mondo. Se fosse vivo oggi si riconoscerebbe nello slogan “Più Europa”.
All’Europa Einaudi affidava anche le sue speranze perchè fosse finalmente abbattuto il muro dei privilegi corporativi che impediva lo sviluppo del Paese nel cruciale settore dei servizi; un fardello che ancora oggi frena l’innovazione e pesa sulla crescita almeno quanto l’esistenza di un debito pubblico ingestibile. E in effetti quel poco che si è riusciti a liberalizzare lo si deve ai trattati europei. Ma la strada da percorrere è ancora lunga; restano ancora radicati negli italiani alcuni vizi che hanno ereditato dalla loro storia, tra i quali quello di cercare sempre nella protezione dello Stato la risposta a tutti i problemi, anche di quelli che potrebbero risolvere da soli.

Einaudi giornalista
Molti non ricordano che Einaudi è stato anche un grande giornalista, sin dalle sue origini. Dalla pratica giornalistica ha ereditato probabilmente la sua scrittura rigorosa ma semplice e sempre comprensibile, convinto che la divulgazione corretta è altrettanto importante della competenza scientifica. E’ stato un collaboratore storico del “Corriere della Sera” prima dell’avvento del fascismo e dopo la caduta di quel regime; ma la sua firma compariva spesso anche sull’Economista. Nel periodo tra le due guerre, impedito nell’attività politica, diresse riviste specializzate di grande rilievo come “Riforma sociale” e “Rivista di storia economica”. Molto sensibile al tema della libertà di informazione, da lui giustamente considerato cruciale per le democrazie liberali, si schierò contro la decisione della DC di mantenere l’Ordine dei giornalisti, creato dal fascismo per controllare i giornalisti.

La terra di Einaudi
La famiglia Einaudi era molto legata alla terra, rivelando in ciò le antiche origini contadine. Anche Luigi Einaudi era attaccato a quel mondo, ai suoi riti, ai suoi valori; da lì aveva tratto quei convincimenti sull’importanza della competenza, del rigore morale, della concezione del rischio come fattore ineludibile dell’esistenza per affrontare il quale occorre prepararsi senza contare troppo sulla protezione dello Stato. Principi che aveva messo in atto nel podere di San Giacomo a Dogliani che lui stesso aveva acquistato dai conti Marenco e del quale si occupava attivamente nei momenti liberi e dove si rifugiava per scrivere e meditare. Anche da Presidente non mancò mai a una vendemmia, e ancora oggi un bicchiere di dolcetto Einaudi vale una gita in quei luoghi bellissimi, a contatto con le valli che hanno visto il fiorire di eresie protestanti le quali hanno lasciato un’eredità culturale che per secoli ha garantito il mantenimento di valori liberali fondamentali nella costruzione del Piemonte moderno, primo mattone dell’unità d’Italia.

Franco Chiarenza
20 gennaio 2019

Nei giorni scorsi ho pubblicato sul mio blog un articolo in cui cercavo di capire quanto corrispondesse a verità lo slogan del “cambiamento”, continuamente ripetuto dalla nuova maggioranza. L’articolo ha suscitato molte reazioni, più di quante immaginassi, fino a raggiungere un numero di interazioni per me senza precedenti. Ne sono lusingato ma mi sono anche chiesto perché e ho quindi cercato di analizzare le risposte e i dialoghi che ne sono scaturiti, al netto naturalmente degli insulti e delle dichiarazioni di fede che sono per me ovviamente irrilivanti. Premesso dunque che i consensi e le contestazioni si dividono circa a metà, interessa esaminare le motivazioni dei contestatori che ho cercato di riassumere in quattro punti.

Cambiamento purchessia
Un primo gruppo di interlocutori non nasconde che il cambiamento è importante per sé stesso, a prescindere dai risultati. Occorreva cambiare radicalmente la classe dirigente e se per farlo bisogna anche pagare un prezzo in termini di esperienza di governo non importa. Il giudizio finale andrà dato al termine dell’esperienza di governo e se sarà necessario si potrà sempre cambiare di nuovo.

Le colpe del PD
Molti hanno espresso – anche in termini piuttosto violenti – un forte rancore nei confronti del partito democratico. Le ragioni sono sostanzialmente sintetizzabili in tre punti: 1) il PD ha tradito le ragioni di giustizia sociale con leggi che hanno danneggiato le parti più deboli del Paese. 2) Il PD (e soprattutto Renzi) ha tollerato la corruzione e la disonestà, si è alleato con i “poteri forti” contro il popolo. 3)La disastrosa situazione economica e sociale è imputabile all’alleanza tra PD, banche voraci e dissestate, e sottomissione all’Europa dominata dagli interessi della finanza internazionale. Qualcuno attribuisce all’”inciucio” tra Renzi e Berlusconi la ragione dell’inaffidabilità del PD.

L’onestà vale anche un po’ di incompetenza
Sul tasto dell’onestà insistono in molti. La figura di Renzi viene accostata agli intrecci familiari con Banca Etruria, mentre i vitalizi per deputati e senatori e “pensioni d’oro” sono meno presenti nei commenti di quanto immaginassi. Qualcuno ammette che errori di ingenuità e di incompetenza sono stati compiuti nei primi mesi del nuovo governo ma che essi vadano messi in conto all’inevitabile inesperienza dei nuovi arrivati e che bisogna dare loro il tempo necessario. La colpa non è loro se hanno ereditato una situazione così difficile.

Immigrazione e orgoglio nazionale
Il consenso sulla politica di contrasto all’immigrazione è stato ovviamente totale, con punte spiacevole di razzismo e ripetizione di fakenews da tempo smentite. Su questo tema si innesta un forte anti-europeismo (inteso come responsabilità dell’Unione per non avere aiutato l’Italia) e una rivendicazione dell’orgoglio nazionale che i precedenti governi, asserviti alla Germania e alla Francia, avrebbero colpevolmente ignorato.
Nessun accenno alle grandi opere infrastrutturali. Qualche puntualizzazione difensiva sugli effetti espansivi del “reddito di cittadinanza” e dei pensionamenti anticipati.

Conclusioni
L’impressione che il voto di marzo sia stato determinato in larga misura da un rancore profondo nei confronti di una classe politica ritenuta incapace di gestire la crisi economica resta confermata; ad essa si aggiunge un profondo fastidio per i riti politici e parlamentari della vecchia maggioranza. In sostanza nessun progetto alternativo, molta rabbia contro i governanti precedenti, richiamo continuo all’onestà come valore predominante (quindi adesione ai tagli ai vitalizi, agli stipendi, alle pensioni d’oro, ecc,).
Colpisce, nei commenti negativi, l’assenza quasi totale delle problematiche di bilancio: il debito pubblico, le opere pubbliche, la riforma fiscale, ecc. L’Europa è vista sempre in proiezione negativa ma si nota chiaramente che di essa nulla si sa: quali siano i suoi poteri, come funziona, quali ricadute ha sul sistema produttivo italiano, ecc. I sostenitori della Lega ribadiscono che il partito di Salvini è cosa diversa dalla vecchia Lega di Bossi; si conferma quindi la percezione che essa abbia svolto una funzione di raccolta in chiave nazionalistica, estranea alla cultura politica dei Cinque Stelle, e questo spiega il riposizionamento, confermato dai sondaggi più recenti, che vede la Lega molto al di sopra dei pentastellati. In pratica c’è una parte di elettorato che ha votato per il partito di Grillo che oggi preferirebbe Salvini (e tale tendenza potrebbe aumentare se gli esiti concreti del reddito di cittadinanza dovessero produrre qualche delusione) ma cambiati gli addendi il totale resta uguale: le soluzioni per il futuro sono diversificate, spesso confuse, ma il rifiuto del passato è netto e condiviso.
Se questo è vero il PD, anche a guida Zingaretti, è destinato a restare sotto la quota del 20% e si apre invece uno spazio al centro dello schieramento politico che non si sa da chi potrà essere occupato; non certo da Berlusconi. Dal partito che verrà?

Franco Chiarenza
16 gennaio 2019