Foto: Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri

Il teatrino cui stiamo assistendo in questi giorni mostra quanto in basso sia caduta la nostra stampa; giornali considerati a suo tempo autorevoli alimentano un gossip senza fine sulle intenzioni di voto dei circa mille grandi elettori chiamati a gennaio a scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Pronostici senza senso si intrecciano con manovre poco trasparenti per rendere ancora più difficile una decisione che, per un insieme di circostanze, assume un’importanza maggiore che in passato.
La scadenza del settennato di Mattarella coincide infatti con un passaggio fondamentale dell’azione di governo di Draghi, quello in cui l’Unione Europea avrà i primi elementi per verificare la credibilità del nostro Paese nell’utilizzazione dei fondi straordinari (PNRR) che vengono messi a disposizione per avviare incisive riforme di struttura. A questo si aggiunge una difficile fase della politica internazionale in cui gli Stati Uniti sono passati dall’isolazionismo di Trump all’attivismo di Biden, con le conseguenti tensioni in Ucraina e a Taiwan, mentre l’Europa dopo la costituzione del nuovo governo tedesco attende di conoscere il risultato delle elezioni francesi l’anno prossimo per capire se attraverso una saldatura strategica tra Germania, Italia e Francia essa potrà tornare ad avere voce in capitolo. Al centro di questi intrecci, decisivi per il nostro futuro, c’è Mario Draghi, il solo che ha il prestigio internazionale per fare dell’Italia, per la prima volta da molti anni, un protagonista della partita e non una semplice comparsa.

Di tutto ciò nessuno dubita. Il problema è: da quale palazzo Draghi potrà meglio svolgere il ruolo che le circostanze gli impongono?
La risposta più logica porta a scegliere il Quirinale soprattutto per le garanzie di stabilità e di indipendenza che i sette anni di mandato garantiscono al Capo dello Stato; ma chi potrà con la stessa autorevolezza prendere il suo posto a palazzo Chigi, dove comunque, a costituzione invariata, si attuano le strategie politiche nazionali?
Attualmente, stando ai sondaggi più credibili, nuove elezioni non sarebbero in grado di assicurare maggioranze stabili: il Paese è diviso in due schieramenti contrapposti entrambi al di sotto della soglia di governabilità, il che prefigura uno scenario di variabilità politica come quello che già abbiamo vissuto recentemente con Conte e le sue maggioranze intercambiabili. Uno scenario che ci farebbe perdere tutta la credibilità internazionale faticosamente conquistata.
La soluzione migliore sarebbe quindi che Draghi restasse a palazzo Chigi il tempo sufficiente per avviare la seconda fase del Recovery Plan e il suo trasloco al Quirinale venisse rinviato alla fine dell’anno prossimo quando di fatto il governo sarà comunque paralizzato dalle divisioni tra i partiti impegnati nella campagna elettorale. Un trasferimento che potrebbe servire anche ad accelerare di qualche mese la scadenza elettorale.
Ma per ottenere questo risultato Mattarella dovrebbe accettare una rielezione che andrebbe incontro al desiderio di gran parte della pubblica opinione ma che il Capo dello Stato ha però, a più riprese, escluso, lasciando intendere che la soluzione va trovata a Montecitorio dove i partiti devono decidere – di fatto – se procedere nell’esperimento Draghi (lasciandolo a palazzo Chigi e individuando una candidatura accettabile e più defilata per il Quirinale) oppure “resettare” la maggioranza di governo imbalsamando Draghi al Quirinale. Questo, per lo meno è ciò che sembra, ma non è detto che le cose stiano davvero così.
Sergio Mattarella infatti è un uomo politico di lungo corso, conosce le trappole e i sentieri meno visibili dell’arte di governo, e sa che la carta di un’eventuale rielezione per essere attendibile va giocata all’ultimo momento, quando si è verificato sul campo che non vi sono alternative possibili e non deve scaturire da un accordo preventivo tra i partiti. Non prima quindi della quarta votazione a Montecitorio.

In effetti, al momento attuale, non si vede una candidatura che abbia serie possibilità di riuscita: non Berlusconi che sa di non potere contare su molti voti della destra, al di là di quelli che dovrebbe raccogliere nel magma confuso dei Cinque Stelle; non Marta Cartabia che sconta l’avversione del “partito dei giudici” nascosto ma presente in tutto il centro-sinistra; non Giuliano Amato per ragioni anagrafiche ma soprattutto per quel “fumus” di craxismo che non lo rende simpatico al PD e ai Cinque Stelle; non Gentiloni, la cui presenza a Bruxelles è in questo momento di cruciale importanza. Né vedo tra le “soluzioni B” di cui parlano i giornali altre candidature in grado di superare la soglia fatidica necessaria all’elezione; senza contare che un presidente eletto faticosamente dopo molte votazione apparirebbe una soluzione inadeguata alla gravità del momento.

I frequentatori delle prime dei teatri lirici non rappresentano certo la realtà del Paese, ma le ovazioni della Scala e del San Carlo con la richiesta di un bis che non riguardava gli spettacoli in scena forse sono più significative di quanto possa sembrare; ci sono stati nella nostra storia altri momenti in cui le platee teatrali hanno indicato la strada da percorrere, come il nostro presidente sa bene.

 

Franco Chiarenza
30 dicembre 2021

Smettiamola di chiamarci liberali”. Comincia con un paradosso questa nuova conversazione con il liberale qualunque Franco Chiarenza. L’animatore di un blog che porta la parola liberale nel titolo spiega che essere liberali è una questione di approccio ai problemi, non di ideologia o di appartenenze. La priorità dei nostri tempi non è quella di sventolare bandiere o di costruire steccati. È piuttosto quella di declinare un certo metodo alla luce dei problemi della contemporaneità – anche attraverso i mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione – senza dare troppa importanza ai nominalismi e alle etichette. Quello che stiamo vivendo è un periodo di grandi cambiamenti, da molti punti di vista. E chi vuole proporre idee liberali dovrebbe essere in grado di interpretare questo mondo in trasformazione. “Siamo in un periodo di transizione. C’è la rete, ma ci sono ancora i sistemi tradizionali di informazione. È, insomma, una realtà in movimento. Mi piacerebbe che quelli che dicono di essere liberali si inserissero in questo movimento e cercassero di proporre degli strumenti nuovi invece di starsene alla finestra a brontolare. La cultura del brontolio non dovrebbe essere la cultura dei liberali.”

Tu sei un liberale storico che però è sempre interessato alle novità, sia sul piano politico che su quello della comunicazione. Si dice spesso: il liberalismo è più un metodo che un’ideologia. Che cosa suggerisce il metodo liberale, per dare una risposta ai problemi di oggi?

Inizierei con un paradosso: smettiamola di chiamarci liberali. Non ne posso più di quelli che dicono di essere liberali e poi però sono tutt’altra cosa. Il liberalismo è una concezione della società che vede al centro l’individuo, con le sue libertà e le sue possibilità di scelta: questa concezione è oggi accettata, almeno in linea di principio, dalla stragrande maggioranza delle persone. Il problema non è inventarsi delle ricette liberali, che poi non esistono. Anzi, il liberalismo è tale perché non ha ricette predefinite da proporre. Come tu dicevi – e come io sostengo da tempo – il liberalismo è un metodo: un metodo con il quale si affrontano i problemi politici. È un metodo caratterizzato dalla massima flessibilità e dalla massima tolleranza nei confronti delle opinioni diverse. È basato sul confronto, ma ha alcuni valori non negoziabili: la salvaguardia dei diritti individuali e dello stato di diritto.

Quali sono oggi le priorità a cui bisogna far fronte?

I nuovi problemi sono l’ecologia, il clima, la sanità, le migrazioni, le disuguaglianze che spingono milioni di persone a muoversi da un continente all’altro; una globalizzazione che rischia, se non è governata, di divorare se stessa. Questi problemi non si possono affrontare con le vecchie etichette ottocentesche: né quella del liberalismo, né quella del socialismo, né tantomeno quella delle tradizioni cristiane. In questi nuovi grandi scenari i paesi liberaldemocratici devono confrontarsi necessariamente anche con quelli che non lo sono. È finito il tempo della colonizzazione culturale, per cui noi occidentali eravamo in grado di imporre i confini entro i quali il dialogo era possibile. Oggi non è più così. Ma questa è una buona ragione per rinsaldare la nostra alleanza, per metterla in grado di dialogare meglio con quelli che ne sono fuori. Il dialogo è la chiave che i liberali devono usare per cercare delle soluzioni condivise.

Che ruolo possono avere gli Stati Uniti all’interno di questi scenari?

La vittoria di Biden ha significato questo: non arrendersi a una deriva nella quale ognuno finisce per chiudersi dentro le proprie mura, convinto che gli altri siano più deboli e abbiano tutto da perdere (questa era invece la filosofia di Trump). Oggi i problemi sono tali che nessun paese da solo può risolverli, e quindi bisogna convincere gli altri. Draghi ha detto delle cose molto belle al G20, proprio in questa chiave: non aspettiamoci che da questi vertici escano soluzioni miracolose; deve piuttosto emergere un metodo, il metodo del confronto. Anche in questa circostanza Draghi ha dato la dimostrazione di essere un leader a livello mondiale, come probabilmente il nostro paese non vedeva da tempo.

La rete ha cambiato il modo di fare politica. Come si può utilizzarla nel modo migliore per rendere il dibattito pubblico più partecipato e approfondito?

Spesso le persone della mia generazione tendono a sottovalutare la rete, o peggio a disprezzarla. Naturalmente è vero che attraverso la rete circola un mare di banalità, fake news, cialtronerie, faziosità, e commettiamo il classico errore di darne la colpa allo strumento come si faceva in passato anche con la televisione. Ma le cialtronerie ci sono sempre state anche se non riuscivano a diffondersi con la facilità oggi consentita dalla rete. Aver aperto la pentola di quella che era la grande massa muta di chi non aveva la possibilità di esprimere – anche rozzamente – i propri sentimenti e il proprio modo di pensare non è un problema. Anzi, è stato un fatto positivo, perché adesso sappiamo di dover fare i conti con questa realtà che in passato non preoccupava perchè era costretta a contenersi nei limiti imposti da tanti strumenti di mediazione e di filtraggio che oggi non ci sono più. Quindi non bisogna criminalizzare la rete. Bisogna invece adottare un atteggiamento propositivo.

In che modo?

È necessario ricostruire tramite internet degli strumenti che servano da affidabili punti di riferimento. Quel rapporto di fiducia che una volta legava i cittadini alla rappresentanza attraverso i partiti, i sindacati, la stampa, la radio, va riformulato all’interno della rete attraverso processi che sono ancora in fase di definizione ma che già si cominciano a intravedere. Il liberalismo non ha nulla da perdere nella ricerca di nuovi luoghi di confronto (anche digitali), dove si discuta delle cose, dei problemi, cercando di individuarli per suggerire delle soluzioni in chiave liberale. Non serve oggi elaborare nuove teorie di aggiornamento del liberalismo, compito peraltro che le università umanistiche svolgono perfettamente, svolgendo in tal modo una funzione preziosa per le èlites intellettuali. Il problema è trasmettere dalle élites ai grandi movimenti di massa sentimenti, emozioni, metodi di confronto, senso di responsabilità che sono indispensabili in una democrazia moderna. Io credo che su questo sia necessario fare una profonda riflessione. L’Italia può essere un buon laboratorio di sperimentazione, da questo punto di vista.

Perché proprio l’Italia?

Perché gli altri paesi europei – e anche non europei – hanno delle strutture politiche funzionanti e meccanismi di trasmissione tra ceti sociali che da noi non esistono più. Per questo, paradossalmente, siamo il luogo ideale – tra le democrazie avanzate – dove è possibile sperimentare modi nuovi di governare, anche utilizzando in maniera positiva le opportunità offerte dalla rete. La rete deve essere interpretata come uno strumento flessibile, aperto e coinvolgente, in grado di allargare le maglie del dibattito pubblico. Oggi, al contrario, i social portano spesso all’atomizzazione, per cui ad esempio il militante di un partito guarda solo contenuti riferibili alla propria parte politica. Sembra di essere tornati ai tempi lontani quando i comunisti leggevano soltanto l’Unità e ogni partito chiudeva i recinti delle rispettive basi elettorali per impedire che il confronto uscisse dai corridoi impenetrabili dove i vertici gestivano i necessari compromessi. Io credo che la potenzialità della rete sia quella del confronto aperto e senza pregiudizi. Se non riesce ad essere questo, si ritorna alle contrapposizioni frontali in cui maturavano gli estremismi fondamentalisti.

C’è spesso l’impressione che i partiti siano oggi semplicemente la proiezione delle ambizioni dei loro leader: tra l’altro, quasi sempre, personalità molto modeste quando non palesemente inadeguate. Non c’è un dibattito interno, non si confrontano orientamenti generali o progetti contrapposti. C’è un declino delle classi dirigenti oppure è un problema connesso con i nuovi metodi di selezione del personale politico?

È cambiato tutto con la seconda repubblica. I partiti della prima repubblica, con tutti i loro difetti, garantivano una certa selezione. Sono stati sostituiti da leadership personali spesso impersonate da dilettanti. Berlusconi per esempio è un dilettante della politica perché è arrivato al governo senza aver fatto nessuna delle esperienze di governo (enti locali, partiti, parlamento) che dovrebbe fare chi vuole dedicarsi agli affari pubblici. Molto spesso anche altrove i leader populisti sono dei dilettanti della politica; valga per tutti l’esempio di Trump. Il populismo infatti si nutre dell’anti-politica, cioè di un sentimento di sfiducia nei confronti dei decisori politici, qualunque sia il loro colore. L’esperienza politica in tale contesto diventa un dis-valore.

Esiste un sistema per rinnovare la forma partito in modo tale da avere una classe dirigente all’altezza delle necessità del paese?

Si parla spesso di modello tedesco. Ma io penso che la situazione in Italia sia molto diversa. I partiti tedeschi – non da oggi – dispongono di valide strutture per formare la loro classe dirigente. Lì sarebbe impossibile un fenomeno dilettantesco come quello dei Cinque Stelle i quali del proprio dilettantismo hanno menato vanto, in contrapposizione alle degenerazioni del professionismo politico da loro definito “casta. E certamente la casta non va bene. Ma una classe dirigente ben formata è indispensabile per il buon funzionamento di una democrazia. Dove, come in Germania o in Inghilterra, ci sono partiti solidi, con una classe dirigente formata in maniera adeguata, c’è anche la legittimazione reciproca tra idee diverse, che noi ignoriamo. In questi ultimi vertici internazionali, la Merkel è andata assieme a quello che probabilmente sarà il prossimo cancelliere, che non è neanche del suo partito: è un segno di continuità istituzionale. Te la immagini una cosa simile da noi?
Non è un caso che nei momenti di crisi, quando si tratta di mettere i piedi in terra e risolvere problemi concreti, la maggioranza silenziosa del nostro Paese si rivolga a figure affidabili e prestigiose, talvolta travestite da tecnici, in grado di aggirare le fragilità strutturali dei partiti: l’ha fatto con Ciampi, poi con Monti, oggi con Draghi. Governatori di banche centrali o rettori di università che diventano capi del governo per investitura sovrana (anche quando il sovrano è la pubblica opinione) e vengano acclamati da parti politiche fino al giorno prima ferocemente contrapposte non ne conosco né in Francia, né in Germania, né in Gran Bretagna. Ma l’Italia è la patria della commedia dell’arte dove le parti si scambiano e gli spettatori non se ne scandalizzano.

 

Intervista a cura di Saro Freni

Caduto, tra polemiche più o meno pretestuose, il ddl Zan, si può cominciare un confronto serio sui suoi contenuti, o meglio, sulla tutela delle minoranze sessuali che costituisce la motivazione del controverso disegno di legge. A noi “liberali qualunque” tocca affrontarlo dal nostro punto di vista. Per farlo in modo chiaro e comprensibile rispondiamo ad alcune domande:

  • Chiunque abbia seguito anche superficialmente le polemiche che hanno accompagnato la mancata approvazione del ddl Zan ha avuto l’impressione che oggi nell’ordinamento italiano le minoranze sessuali non siano tutelate e di conseguenza chi si oppone al ddl Zan sia sostanzialmente un omofobo o quanto meno una persona insensibile alla parità di diritti e di riconoscimento sociale estesa a omosessuali, bisessuali e ogni altro orientamento sessuale che rientra nella libertà di ciascuno di noi. E’ così?

No, non è così, anche se si è lasciato credere che di questo si trattasse. La normativa esistente, anche a prescindere dalla discutibile legge Mancino, se applicata con giusta severità, è in grado di tutelare i diritti di ogni minoranza e quindi anche di quelle caratterizzate da orientamenti sessuali minoritari e legittimi (quindi sempre tra maggiorenni). Tutt’al più si potrebbero apportare alcune modifiche al codice penale per venire incontro alla maggiore sensibilità su questi temi che deriva dalle profonde trasformazioni sociali di questi ultimi anni. Mi riferisco in particolare a una migliore definizione delle minoranze di genere e alle procedure accusatorie. Ma per fare questo non c’è alcun bisogno di leggi speciali. Il ddl Zan persegue infatti una finalità diversa, quella di contrastare penalmente le espressioni di “istigazione all’odio” dirette alle minoranze sessuali e di inasprire le pene nei confronti di chi se ne rende responsabile.

  • Non esiste già una legge (cosiddetta legge Mancino del 1993) che prevede una tutela rafforzata delle minoranze? non basterebbe integrarla comprendendovi le minoranze sessuali?

Certamente sì. Visto che una legge speciale per tutelare le minoranze (razziali, religiose, ecc.) già esiste non si capisce perché non si proceda semplicemente a modificarla comprendendovi anche le minoranze sessuali, ed è questa infatti una delle critiche che vengono mosse al ddl Zan anche da chi non si ritiene né omofobo né intollerante. Da liberale però devo aggiungere che anche la legge Mancino, pur essendo una legge dello Stato e come tale da rispettare, non corrisponde ai principi di uno stato di diritto per almeno due ragioni: la prima è proprio la “specialità” delle tutele previste che collide col principio di generalità per il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Perché mai insultare un omosessuale deve essere diversamente considerato dal farlo nei confronti di qualsiasi cittadino? Tutt’al più può rappresentare un’ aggravante per le presunte condizioni di inferiorità dell’aggredito e per le sue spregevoli motivazioni (ma questo è già previsto dal codice penale). La seconda ragione per cui la legge Mancino non piace ai liberali è perché introduce il principio di incitamento all’odio come reato, a prescindere da ogni intento a delinquere. Un concetto generico, pericoloso per le interpretazioni estensive che potrebbero entrare in contrasto con la libertà di espressione tutelata dall’art. 21 della Costituzione; dubbi che restano immutati perché finora la sua applicazione è rimasta abbastanza sporadica e la Corte costituzionale non ha ancora avuto occasione per esprimersi in proposito.

  • I manifestanti a favore della legge Zan inalberavano un cartello in cui era scritto che “l’odio non è un’opinione”. Non hanno ragione?

Lo slogan “l’odio non è un’opinione”, che riprende il titolo di una nota ricerca del COSPE, è suggestivo ma parziale; certamente l’odio non è un’opinione perchè è un sentimento, e quindi irrazionale per definizione, ma anche i sentimenti se non sono tali da indurre alla commissione di reati sono tutelati dalla libertà di espressione. Pure l’amore è un sentimento e nessuno si sognerà mai di sanzionarlo finchè non produce danni e limitazioni concrete nei confronti di altri (come lo stalking). Quando si propone che l’istigazione all’odio diventi un reato punibile con sei anni di galera bisogna fare attenzione perchè l’estensione interpretativa del concetto di odio può diventare un boomerang di cui per primi potrebbero dolersi gli attuali sostenitori della legge Zan. Le leggi sono pericolose: partono con precise finalità nelle intenzioni del legislatore ma poi vivono di vita propria e si trasformano per analogia in interpretazioni giurisprudenziali talvolta utilizzate per scopi ben diversi da quelli che le avevano ispirate. Per questa ragione – sia detto per inciso – la cultura giuridica anglosassone, che si esprime attraverso la common law, diffida dell’abuso della funzione legislativa preferendo ad essa un aggiornamento pragmatico dei precedenti giurisprudenziali adattandoli, nel quadro di principi generali incontrovertibili, caso per caso.

  • Nella realtà concreta però le minoranze sessuali sono di fatto discriminate, perseguitate o nel migliore dei casi, emarginate. Non far nulla non può sembrare una forma di tolleranza per gli intolleranti?

Cambiare in profondità (cioè ben oltre la borghesia illuminata che detta le regole del polically correct) atteggiamenti e culture fondati da secoli sulla prassi ipocrita per cui le cose si fanno ma di nascosto, richiede tempi lunghi; soprattutto quando certi pregiudizi sono radicati nelle famiglie. Cercare di mutare le culture dominanti attraverso le sanzioni penali non è soltanto illiberale ma anche inutile e controproducente. Oggi però la pervasività dei nuovi mezzi di comunicazione consente una forte accelerazione del cambiamento, che, in questo caso, sarebbe positiva. Anche se non bisogna dimenticare che i nostri valori di tolleranza e inclusione valgono soltanto per una parte dell’umanità; la grande maggioranza (nei paesi islamici, nell’Estremo Oriente o in Africa) ne è invece ancora molto lontana. Sono ancora tanti i paesi in cui l’omosessualità maschile è punita con sanzioni penali anche rilevanti.

  • Allora bisogna lasciare le cose come stanno?

Ci sono casi eccezionali in cui anche i liberali ammettono la necessità di leggi speciali che possono incidere sui diritti fondamentali (tra cui essenziale quello della libertà di espressione) ma devono corrispondere ad alcune condizioni: emergenze conclamate, temporaneità delle misure adottate, ecc.; non è questo il caso del ddl Zan che investe invece una questione più generale, la tutela delle minoranze socialmente (non giuridicamente) discriminate. Esso ha riaperto un dibattito sui rischi legati a leggi speciali mirate a proteggere determinate istituzioni, categorie, minoranze in maniera rafforzata rispetto alla normale applicazione delle norme vigenti; una querelle antica che risale a Locke (uno dei padri del liberalismo moderno) il quale voleva discriminare i cattolici, continua con le varie specie di contrasto penale al “negazionismo”, fino allo hate speech e alla cancel culture dei nostri giorni. Per quanti non sono particolarmente interessati alle complicazioni giuridiche (e alle relative scuole di pensiero) riassumo in termini essenziali la questione (scusandomi coi giuristi per l’approssimazione): da una parte c’è il diritto di esprimere liberamente la propria opinione (qualunque essa sia) tutelato in tutti gli ordinamenti liberal-democratici, dall’altra l’esigenza di proteggere le minoranze razziali, religiose, sessuali, ecc, da un uso improprio di tale libertà anche quando non si concretizza in uno specifico delitto già previsto dalla legge ordinaria (ingiurie, offese, diffamazione, istigazione a commettere reati, ecc.) oppure rafforzando le sanzioni già previste. Bisogna fare attenzione che i due piatti della bilancia restino in equilibrio; se si eccede nelle tutele rafforzate si rischia di cadere, al di là delle migliori intenzioni, nel reato di opinione, tipico di una concezione etica dello Stato che un liberale non può condividere. Il perno su cui si gioca questo equilibrio nel caso nostro è rappresentato da una sola parola: l’odio (cioè cosa esattamente si intende per tale) e il ddl Zan appare in proposito squilibrato e chiaramente ispirato da intenti punitivi esorbitanti. Per noi liberali si ricorre a nuove leggi quando quelle esistenti si dimostrano inadeguate, per molti altri invece ciò che conta è sbandierare nuove leggi anche quando non ce n’è bisogno (perché basterebbe applicare quelle che già ci sono), per potersene attribuire il merito.

  • Perché è stata tanto osteggiata l’idea (contenuta nella legge Zan) di sensibilizzare i giovani alla tolleranza delle diversità (anche sessuali)?

Perché si trattava di un’idea giusta formulata male. L’idea giusta è che la tolleranza e il rispetto delle diversità sono valori che si dovrebbero imparare a scuola nell’ambito di un’educazione civica (da noi invece inspiegabilmente trascurata); istituire una giornata nazionale ad hoc, oltre che poco efficace, preoccupa le famiglie più tradizionaliste che vi scorgono un’indebita invasione di campo dello Stato nell’educazione dei figli e naturalmente (anche se a noi liberali interessa meno) agita il mondo cattolico che teme un conflitto tra norme civili e dottrina cristiana all’interno delle prerogative che lo sciagurato Concordato (inserito nella Costituzione) riconosce alla Chiesa in materia di insegnamento religioso.

  • La legge Zan è diventata motivo di contrapposizione politica; non si poteva evitare?

Si poteva ma non si è voluto. La politica diventa tanto più irragionevole quanto più i partiti che la rappresentano sono deboli (come in questo momento). Alla ricerca disperata di identità i partiti spingono alle estremizzazioni e leggi che potrebbero essere partecipate da tutti (anche tenendo conto di alcune criticità incontestabili) si trasformano in pugni in faccia all’avversario, le cui ragioni non vengono nemmeno prese in considerazione. In Italia le leggi hanno quasi sempre un sottinteso politico contingente; al di là del loro contenuto nessuno si cura della loro applicabilità, delle conseguenze di eventuali strumentalizzazioni, della ripetizione di norme già esistenti, perché l’importante è piantare una bandierina e rivendersela al proprio presunto elettorato. Quante volte ho sentito dire che la legge Zan andava votata senza se e senza ma perché l’importante era sconfiggere Salvini; e per converso quanti sostenere che la legge andava bocciata come “prova generale” contro eventuali accordi tra PD e Cinque Stelle per il Quirinale! Salvo poi confessare – gli uni e gli altri – che dei suoi contenuti (al di là di una generica “tutela degli omosessuali dalle discriminazioni”) nulla sapevano né gli interessava !!! E’ successo altre volte; in un recente passato la riforma istituzionale proposta da Renzi fu bocciata non per i suoi contenuti (molto discutibili) ma soltanto per colpire chi l’aveva proposta.

Quel che oggi si può fare è trovare un ragionevole compromesso, lasciando da parte i toni da crociata e tornando al merito della questione. I nodi da sciogliere a mio parere sono:

  1. definire le minoranze sessuali e inserirne la menzione nella legge Mancino, oggi applicabile soltanto per analogia;
  2. abolire ogni riferimento all’art. 21 della Costituzione, in quanto pleonastico. Tutte le leggi dello Stato devono essere compatibili con la Costituzione. Men che meno è accettabile che la sua applicazione venga sottoposta a condizioni limitative con una legge ordinaria;
  3. definire con esattezza cosa si intende per “incitamento all’odio” per evitare che discutibili interpretazioni giurisprudenziali lo trasformino in una censura ideologica; il codice penale già prevede la punibilità di chi incita o favorisce concretamente la commissione di reati, ma non a caso evita che la semplice espressione di idee non conformi (anche ai principi costituzionali) possa essere sanzionata (e in questo senso si è espressa la Corte costituzionale in merito a leggi che vietano la ricostituzione del partito fascista). Rischiamo altrimenti che un prete che ricordi pubblicamente che la dottrina cattolica considera peccato mortale una convivenza tra persone dello stesso sesso (figurarsi il matrimonio!) possa essere incriminato per “incitamento all’odio”;
  4. abolire la giornata di sensibilizzazione nelle scuole. Il modo corretto di sollecitare la riflessione dei giovani senza rischiare fratture tra famiglie e scuola è di accelerare l’introduzione dell’educazione civica come materia autonoma e fondamentale sin dalle scuole medie e in quel contesto dare il rilievo dovuto al rispetto e alla tutela di ogni minoranza, anche sessuale.

Per i liberali nelle leggi non si deve cercare la perfezione (che ciascuno interpreta a modo suo) ma piuttosto trovare un ragionevole compromesso tra tutti gli interessi legittimi che hanno diritto di essere tutelati. Nel nostro caso bisogna mettere insieme: la protezione delle minoranze sessuali da ogni possibile discriminazione, la preoccupazione dei liberali che, al di là delle intenzioni dei proponenti, si introducano nell’ordinamento norme restrittive sul diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni, l’esigenza del mondo cattolico di sostenere le proprie convinzioni etiche e morali senza correre il rischio di essere incriminati, il timore di molte famiglie che su un momento sensibile della crescita degli adolescenti lo Stato interferisca nelle modalità educative che sono parte essenziale della responsabilità genitoriale, la necessità per uno stato liberal-democratico di promuovere attraverso la scuola quei valori di tolleranza e di rispetto che devono caratterizzare l’esercizio delle libertà individuali senza trasformare la diversità di opinioni in risse scomposte.

Si può? Sì, se si vuole. Si vuole? O si preferisce ricominciare il gioco delle bandierine dove gli avversari tornano ad essere nemici non da convincere ma da delegittimare, i testi delle leggi diventano icone intangibili “a prescindere” dai loro contenuti perché l’importante è distruggere chi non la pensa come noi? Ma noi come la pensiamo veramente?

Franco Chiarenza
28 novembre 2021

Il sistema partitico è in crisi. Se si devono fare delle riforme istituzionali, occorre farle adesso. Ma è necessario anche organizzare un’offerta politica per chi non si riconosce né in questa destra né in questa sinistra.

Su internet è Il Liberale Qualunque, che è il nome del suo blog di analisi e commenti. Nella vita reale (ma anche internet ormai è vita reale) è Franco Chiarenza, classe 1934: un passato da giornalista Rai e docente di storia della comunicazione, un presente da acuto osservatore della realtà italiana e non solo. Lo abbiamo intervistato per I Liberali.

Come vede un “liberale qualunque” l’Italia del 2021?

Questa è l’Italia all’insegna di Draghi: lo è stata in questi ultimi mesi del 2021 e lo sarà presumibilmente per tutto il 2022. Ma il discorso va oltre la sua persona, che imprevedibilmente continua a riscuotere la fiducia della maggior parte degli italiani. Il problema è istituzionale: le istituzioni repubblicane, per come sono arrivate fino ad oggi, non sono adeguate a governare delle realtà complesse e difficili come quelle che ci troviamo di fronte adesso e ancor più domani. Questo, secondo me, è il nodo che si deve in qualche modo sciogliere; anche per evitare che venga risolto in modo traumatico dagli eventi.

Cioè, bisogna affrettarsi a fare le riforme istituzionali prima che sia troppo tardi?

Ho letto una cosa che ha scritto Enrico Cisnetto e che condivido. Se si devono fare delle riforme istituzionali – senza le quali non si riesce a sbloccare la situazione – occorre farle adesso. Non bisogna aspettare che si crei una situazione di ingovernabilità. Quando si cambiano le strutture istituzionali, cambia tutto, anche il modo di votare della gente. Non è vero che la cosiddetta ingegneria istituzionale non serve a nulla. Ne abbiamo la dimostrazione se pensiamo a come è cambiato il governo degli enti locali dopo che è stata introdotta l’elezione diretta del sindaco.

A tuo avviso il governo Draghi è una parentesi oppure può essere l’inizio di una nuova fase della nostra vita politica?

Penso che nulla dopo Draghi sarà come prima, proprio perché è stata messa in luce la fragilità del sistema partitico. Il problema è esattamente quello della riforma istituzionale, a cominciare dai poteri del capo dello Stato. È vero che i poteri presidenziali sono come una fisarmonica, tutto dipende da chi occupa il Quirinale, ma, come dice Ainis, anche la fisarmonica ha dei limiti oltre i quali non può andare. Per questo bisogna mettere mano a una vera riforma costituzionale che, insieme ad altre cose, ridisegni i poteri del presidente. Siamo di fronte ad una svolta importante.

Secondo molti commentatori, alle ultime elezioni amministrative ha vinto chi si è presentato come più ragionevole e moderato. Il messaggio è che il paese è stanco di inutili baruffe? È ancora vero, persino nell’era del populismo, che si vince al centro?

A mio giudizio, le amministrative vanno lette in un altro modo. Si conferma un dato, che non vale solo per il nostro paese: l’elettorato più consapevole e informato, quindi meno sensibile al richiamo del populismo, è concentrato nelle città grandi e medio-grandi. La forza del populismo, basato sugli slogan e sulle approssimazioni, viene da quell’immensa periferia che è costituita dai piccoli centri. Lo dimostra se non altro il fatto che la destra non riesce nelle grandi città nemmeno a trovare dei candidati credibili.

Dicevi che questo non vale solo per il nostro paese…

Sì, nel senso che anche in altri paesi europei c’è una spaccatura profonda tra l’elettorato delle grandi città e quello arroccato nelle piccole realtà locali. Vale anche per i paesi dell’Est. Non a caso, nelle grandi città polacche o ungheresi governano partiti che sono all’opposizione nel parlamento nazionale. Vale per Varsavia e vale per Budapest. Abbiamo avuto in questi giorni la sorpresa della vittoria dell’opposizione di centrodestra contro il governo sovranista della Repubblica Ceca: e già prima a Praga c’era un sindaco che era su posizioni diverse da quelle del governo centrale. C’è questa spaccatura profonda, che è soprattutto culturale ma si riflette anche nelle scelte politiche.

Tornando all’Italia, parlavi dei candidati poco credibili della destra. Da dove nasce questa inadeguatezza?

La debolezza della destra, da quando è venuta meno l’egemonia democristiana, è che riesce ad avere dei leader più o meno carismatici ma non una classe dirigente in grado di governare realmente il paese. La Lega fa eccezione, ma solo in parte: nel nord Italia – e quindi dove sicuramente è più forte l’asse Giorgetti-Zaia – ha un radicamento territoriale e un’esperienza di governo che ormai risale a decenni fa, e questo fa la differenza con Fratelli d’Italia. Nel centro sud è vero il contrario; il partito di Giorgia Meloni ha ereditato dall’esperienza dei quadri di Alleanza Nazionale una presenza articolata in grado di assorbire i sentimenti populisti man mano che emergono.

Perché allora hanno perso a Milano e in altri centri importanti?

Perché una parte dell’elettorato della Lega è disorientata e si è rifugiata nell’astensione. D’altronde all’interno della Lega si sta consumando una profonda spaccatura tra la vecchia Lega Nord, che ha imposto alla leadership di appoggiare il governo Draghi (se Salvini fosse stato libero di scegliere avrebbe preferito probabilmente attestarsi su una linea simile a quella della Meloni) e la nuova Lega nazionale rifondata nel 2020. C’è nella Lega una dialettica interna molto vivace che un unanimismo di facciata non riesce a nascondere. Non sappiamo come andrà a finire, ma non ha molta importanza. Se anche vincerà Salvini – che ha i numeri per prevalere – resterebbe comunque una contraddizione interna tra posizioni inconciliabili destinata prima o poi ad esplodere.

Vale anche per le alleanze europee del suo partito?

Sì. Salvini preferisce essere il primo in un’alleanza sovranista piuttosto che l’ultimo in un partito popolare europeo dove verrebbe emarginato, come a suo tempo lo è stato Orbán; la sua riluttanza ad accogliere la proposta di Giorgetti è quindi comprensibile, ma anche nel parlamento europeo quella parte della Lega di governo che oggi appoggia fortemente Draghi non può riconoscersi in una coalizione di sovranisti.

Le posizioni della cosiddetta Lega moderata resteranno in minoranza?

Giorgetti sperava che una Lega che si riportasse verso delle posizioni moderate potesse raccogliere l’eredità di Berlusconi, almeno per quanto riguarda il centrodestra. Salvini non ci vuole stare e anzi teme questa prospettiva, perché sa che non sarebbe lui l’uomo in grado di condurre la Lega in quella direzione. Salvini ha fiuto: se non ce l’avesse, non sarebbe lì. Lui è l’uomo del populismo, della Lega di lotta, non di governo. E quindi farà di tutto affinché il progetto di Giorgetti non prevalga.

Come si risolverà, a tuo avviso, il gioco del Quirinale? Ultimamente si è fatto anche il nome di Giuliano Amato. Non è la prima volta che si parla di Amato come presidente della Repubblica.

Oggi Giuliano Amato ha maggiori possibilità che in passato, quando il suo nome veniva inesorabilmente associato a quello di Craxi. La damnatio memoriae su Craxi, sancita da una parte importante dell’opinione pubblica, coinvolse anche lui: in politica, molto spesso, le impressioni e i falsi ricordi contano più della realtà. Oggi tutto questo non esiste più, e quindi Amato potrebbe anche farcela; sarebbe un’ottima soluzione perché si tratta di un uomo di grande intelligenza ed esperienza e il ticket con Draghi funzionerebbe molto bene.

Si è parlato anche del ministro Cartabia. Ha delle possibilità?

Secondo me, la Cartabia ha delle carte da giocare: anche perché è donna, e oggi questo conta. C’è poi l’ipotesi che Mattarella, sia pure all’ultimo momento, accetti una riconferma, con l’intenzione di dimettersi quando lo riterrà opportuno: sicuramente non prima del 2023, in modo da consentire a Draghi di completare il suo percorso.

In questo scenario, si andrebbe a elezioni alla scadenza della legislatura. E potrebbero anche formarsi le condizioni per un nuovo governo Draghi, sostenuto dal parlamento rinnovato. Ma la domanda è: può reggere una soluzione politica di questo tipo senza un partito di Draghi o comunque senza una coalizione di forze che chiaramente ed esplicitamente, durante la campagna elettorale, si richiamino all’agenda Draghi?

Il problema, come sempre, è quello del centro. Esiste una vasta fascia di elettorato che non si riconosce negli estremismi di Salvini e men che meno in quelli della Meloni e che d’altra parte diffida profondamente del Partito democratico. E ne diffida, in buona sostanza, perché è fallito il tentativo di Veltroni di costruire attraverso il Pd uno schieramento di centro-sinistra, e non di sinistra-centro. Il partito democratico americano – che era un po’ il suo riferimento – parte dal centro e arriva poi a comprendere tutte le frange di sinistra, ma nel senso che esse diventano complementari rispetto alla centralità del partito (centralità sociale, economica ecc.). Il partito democratico italiano non è riuscito ad essere questo. Ci ha provato con Renzi (e non a caso aveva raccolto il 40%). È andata a finire come tutti sappiamo e al fallimento del suo progetto ha contribuito lui stesso con atteggiamenti arroganti, personalismi, una presunzione smisurata. Ma non era sbagliata l’idea su cui si basava il suo progetto: trasformare un partito di sinistra aperto al centro in partito di centro che comprende la sinistra.

Come vedi il progetto di Enrico Letta?

Quando ha preso in mano il Pd, il primo problema che si è posto Letta non è stato quello di recuperare al centro, bensì un’identità forte di sinistra su cui poi il centro fatalmente – non avendo altre opzioni possibili – si sarebbe aggregato. Anche questo è stato un errore di calcolo gravissimo, perché c’è un elettorato di centro che non si riconosce nella politica un po’ sloganistica e un po’ demagogica di Letta e cerca uno spazio che nell’attuale composizione parlamentare non trova. E non trovandolo si rifugia nell’astensionismo andando ad aumentare l’esercito dei non votanti che ha ormai raggiunto e talvolta superato la metà dell’elettorato.

Però oggi il centro sembra piuttosto affollato. Più leader che voti?

Eh, sì. Da destra a sinistra è tutto un fiorire di gente che si auto-promuove per guidare una forza di centro. È un affollamento di partitini e movimenti che non superano l’1 o il 2 percento ciascuno. E che quindi non rappresentano mai una massa critica in grado di rappresentare davvero un momento di aggregazione che possa distinguersi rispetto alla destra e alla sinistra, che sia in grado di far propria la strategia di Draghi come punto di riferimento sia di contenuti che di metodo di governo. Di tutti questi, a me pare che il movimento di Calenda sia quello che ha le carte migliori da giocare.

Anche alla luce del risultato romano…

Ha avuto il coraggio di correre da solo nelle elezioni romane contro i collaudati apparati di destra e di sinistra ottenendo un risultato di tutto rispetto. È importante capire se Calenda riuscirà a creare delle aggregazioni in grado di renderlo un soggetto politico di dimensioni tali da essere determinante nel prossimo parlamento. Vale comunque anche in politica la fondamentale legge che regola il mercato: dove c’è domanda si crea l’offerta mentre non è vero il contrario. La domanda di un centro liberal-democratico c’è, l’offerta è scarsa e ancora poco convincente.

Non abbiamo parlato ancora dei Cinque Stelle. Quale sarà il loro destino politico?

Il movimento Cinque Stelle, col suo elettorato potenziale del 15%, costituisce un elemento indispensabile della strategia di Letta per rovesciare i rapporti di forza nel futuro parlamento consentendo al centrosinistra a guida Pd di arrivare a raggiungere la maggioranza parlamentare. I Cinque Stelle devono scegliere tra la dissoluzione in uno schieramento socialista democratico (italiano ed europeo) oppure l’occupazione di uno spazio elettorale ambientalista oggi poco e male rappresentato. Conte, per la sua storia e la capacità di mediazione che ha dimostrato, è la persona adatta per facilitare la riuscita del progetto di Letta ma non per guidare una rifondazione del movimento che lo porti a sintonizzarsi con i partiti verdi sempre più influenti nello scenario europeo. Sarà una scelta dolorosa nella quale è probabile che Grillo giocherà ancora un ruolo determinante.

In che modo?

Secondo me, il futuro dei Cinque Stelle è sempre nelle mani del suo fondatore. Il suo attuale silenzio potrebbe preludere alla tempesta; non credo affatto che Grillo si sia ritirato dalla scena. E non credo nemmeno che si sia rassegnato all’idea che il movimento Cinque Stelle si trasformi in una sorta di partito di complemento del partito democratico, sostanzialmente integrato in una strategia unitaria di centrosinistra. Io non credo affatto che la base dei militanti pentastellati sia su queste posizioni e penso perciò che Grillo stia aspettando l’elezione del presidente della Repubblica per uscire di nuovo allo scoperto e suscitare nuovi conflitti all’interno del movimento.

 

Intervista a cura di Saro Freni

Parlare del “Mondo” di Pannunzio – inteso come settimanale – significa parlare del mondo di Pannunzio: dei suoi amici, dei suoi maestri, del suo amato Tocqueville e soprattutto dell’atmosfera culturale che accompagnò l’avventura di un foglio destinato ad imporsi come una delle pubblicazioni più autorevoli del suo tempo. Questo volume curato da Pier Franco Quaglieni – Mario Pannunzio: La civiltà liberale (Golem edizioni, 2020) – rappresenta una lettura molto utile per comprendere tanto il profilo intellettuale di questa importante personalità del giornalismo italiano quanto la natura e le caratteristiche della sua creatura, che fondò nel 1949 e diresse fino alla chiusura. Questa ricostruzione risulta ricca e sfaccettata, anche grazie alla polifonia di voci al suo interno. Nel libro si possono infatti trovare ricordi e testimonianze – molte delle quali legate anche all’attività del “Centro Pannunzio” – ma anche ricostruzioni storiche o memorialistiche, oltre alla riproduzione di numerosi articoli pubblicati nel 1968 in morte del direttore del “Mondo”.
Questi interventi offrono un ritratto molto vivido di un intellettuale atipico, che scriveva poco e preferiva insegnare a scrivere, che leggeva di tutto ma che in vita pubblicò un solo libro: Le passioni di Tocqueville, autore nel quale si rivedeva e da cui traeva costante ispirazione. I contributi affrontano i temi più rilevanti della vita pubblica di Pannunzio e della sua attività di animatore culturale: la sua formazione, nella natia Lucca e poi a Roma; il rapporto con il regime, tra scetticismo, fronda e disimpegno; il ritorno alla democrazia, che lo vide protagonista anche attraverso la direzione di “Risorgimento liberale” e in seguito del “Mondo”; il sodalizio con Ernesto Rossi, venuto meno dopo lo scoppio del caso Piccardi; l’impegno politico, nel partito liberale prima e in quello radicale poi; infine le disillusioni, la fine del giornale, che precedette di appena due anni la morte del suo fondatore.
“Il Mondo” fu un settimanale molto innovativo, caratterizzato dalla notevole qualità grafica e da una cura certosina per i dettagli. L’impareggiabile prestigio dei collaboratori ne fece una tribuna ascoltata e rispettata anche da coloro che non si riconoscevano nel suo punto di vista. Giornale di nicchia, con un tratto di ostentato snobismo, fu anche una palestra per giovani di grande avvenire e costituì un modello che tanti provarono poi ad emulare, nell’ispirazione ideale se non nella formula giornalistica. Col tempo, è nato anche un mito del “Mondo”; un mito anche giustificato, che però come tutti i miti rischia sempre di scadere nell’agiografia o nel cliché.
La polemica sull’eredità morale di Pannunzio, sui suoi veri o presunti successori, sulle annessioni postume più o meno abusive è – in tutta sincerità – di scarsissimo interesse, da qualsiasi parte provenga. Piuttosto, sarebbe necessaria un’analisi su alcune questioni che percorrono tutto il libro e che meriterebbero un’approfondita riflessione: quali erano le concrete prospettive di una sinistra liberale – come quella che Pannunzio intendeva rappresentare – negli anni della guerra fredda? Su quali forze poteva contare? Come doveva strutturarsi il rapporto tra élite intellettuali e politica, nel quadro di una democrazia di massa e di una “repubblica dei partiti” in cui prevaleva la forza degli interessi organizzati? Quali erano le cause profonde della lamentata lontananza del nostro paese dai canoni delle democrazie avanzate e dalle idee più compatibili con le esigenze della vita contemporanea? E a questo proposito: la chiave interpretativa dell’anomalia italiana regge davvero alla prova del tempo?
Al di là di questi interrogativi di natura puramente storica, è impressionante l’attualità di alcune pagine riportate nel libro. Nell’editoriale comparso sull’ultimo numero del “Mondo” – 8 marzo 1966 – si poteva leggere: “Non accade soltanto in Italia, e lo si sa bene; ma in Italia il disinteresse per la cosa pubblica e per i dibattiti morali e culturali trova sempre un terreno di rifugio e di fuga. Il nostro Paese legge meno degli altri Paesi e i mezzi d’informazione sono più che altrove dominati dal conformismo e dall’ossequio. Domina soprattutto, in Italia, la presenza di un potere radicato e penetrante, di un governo segreto, morbido e sacerdotale, che conquista amici ed avversari e tende a snervare ogni iniziativa e ogni resistenza.” Era la famosa Italia alle vongole, spesso descritta da Pannunzio e dai suoi amici con severità e intransigenza: cinica, meschina, cortigiana, facilona, superficiale, servile, trasformista. È in fondo anche l’Italia di oggi, con molti anni in più e qualche speranza in meno. E senza un Pannunzio che la esorti a diventare qualcosa di meglio.

Saro Freni
31 ottobre 2021

Non è un appello sentimentale per tenere viva l’attenzione nei confronti delle uniche vere vittime della tragedia afghana, le donne, gli uomini e i bambini che da un giorno all’altro sono rimasti ingabbiati in un sistema politico e sociale diverso da quello in cui, tra attentati e difficoltà di ogni genere, erano comunque vissuti negli ultimi vent’anni. Una doccia scozzese che dura peraltro da settant’anni. Quando ci andai negli anni ’70 a Kabul regnava ancora Zahir Shah; il paese si presentava come una confusa aggregazione di tribù pressochè indipendenti ma nelle città principali funzionava un primo abbozzo di stato moderno con scuole, mercati, servizi che progressivamente tendevano a trasformare anche l’Afghanistan in una nazione moderatamente laica (come erano in quegli anni le altre del Medio Oriente).

Pochi anni dopo un colpo di stato portò alla costituzione di una repubblica socialista ispirata e sostenuta dall’Unione Sovietica; durò vent’anni finchè, incalzato dai guerriglieri armati e finanziati dagli Stati Uniti, anche il regime filo-comunista dovette rassegnarsi a soccombere senza essere riuscito a scalfire il potere medioevale delle diverse etnie locali. Al loro posto gli “studenti islamici” – gli ormai famosi talebani – che tutto sono fuorchè studenti nel senso che noi diamo alla parola, istituirono un regime fondamentalista religioso rimasto famoso per i suoi estremismi e il fanatismo dei governanti; i quali peraltro sarebbero stati lasciati in tranquilla pace (anche per la ridotta importanza geopolitica che ormai l’Afghanistan rivestiva) se non avessero commesso un errore gravissimo: ospitare e proteggere le basi del terrorismo islamico che minacciava la sicurezza del mondo occidentale.

Quando con gli attentati del 2001 e la distruzione delle torri gemelle di New York il terrorismo raggiunse il massimo livello sfidando a casa sua il paese simbolo del liberalismo occidentale, il governo americano reagì invadendo l’Afghanistan, eliminando i santuari terroristici e instaurando un sistema politico debolmente democratico; terzo tentativo di modernizzazione di un paese che ostinatamente, soprattutto fuori dalle maggiori città, sembrava rifiutare qualsiasi processo di cambiamento rispetto alle proprie tradizioni feudali. Puntualmente dopo vent’anni gli americani e i loro alleati (tra cui noi) hanno dovuto abbandonare Kabul al suo destino (né, malgrado le polemiche un po’ pretestuose, avrebbero potuto fare altro né in modo diverso, posto che un esercito e una classe dirigente coltivati per vent’anni si sono liquefatti in pochi giorni).

Il problema adesso è un altro: non dimenticare Kabul non significa abbandonare a sé stessi quegli afghani che avevano creduto nella protezione degli occidentali, entro i limiti in cui ciò sarà possibile e sperando che comunque qualche seme abbia attecchito; e soprattutto confidando nelle pressioni che potranno esercitare quei regimi autoritari confinanti (come Russia, Cina, Iran) interessati per ragioni geo-politiche a una trasformazione moderata del regime talebano.

Significa invece non dimenticare la lezione che arriva a noi occidentali dal fallimento dell’ennesimo tentativo di trapiantare i nostri valori in paesi che li rifiutano per ragioni culturali e religiose che a noi sembrano incomprensibili e indifendibili, scordandoci che per alcuni aspetti esse sono assai simili a quelle che vigevano anche in Europa prima che i grandi scismi del cristianesimo e il razionalismo illuministico consentissero la nascita degli stati liberali moderni ispirati al principio laico della separazione tra Chiesa e Stato (e quindi tra fede religiosa e diritti individuali). Senza tali evoluzioni non si sarebbe mai sviluppata l’egemonia occidentale (la quale, oltre che militare ed economica, è stata soprattutto culturale) ma siamo ormai talmente abituati alla velocità dei processi di trasformazione che dimentichiamo come i cambiamenti culturali siano graduali e debbano esserlo se si vuole che siano duraturi.

La questione riguarda soprattutto i paesi musulmani per diverse ragioni: per una resistenza relativamente maggiore di una religione strutturata intorno a un libro sacro che è un vero e proprio codice di comportamento, per la storica contrapposizione con il cristianesimo nel bacino del Mediterraneo (che riguarda essenzialmente noi europei), per il possesso e il controllo delle principali fonti energetiche (soprattutto gas e petrolio) di cui il Medio Oriente e l’Africa settentrionale sono ricchi.

Non vorrei essere frainteso: non dico che il mondo occidentale deve rinunciare ai propri valori adottando una lettura deviante del relativismo culturale, sostengo, al contrario, proprio perchè convinto della loro superiorità morale, che bisogna attendere pazientemente che essi maturino anche nei paesi di cultura islamica attraverso processi graduali come quelli che abbiamo attraversato noi. Certo, oggi ci sono strumenti che consentono accelerazioni fino a ieri non immaginabili, la globalizzazione contribuisce a ridurre gli spazi geopolitici e aumenta le contaminazioni culturali – soprattutto nei più giovani – e tutto ciò permetterà sviluppi più rapidi; internet sarà probabilmente ricordata in futuro per l’importanza che avrà rivestito in tale evoluzione, paragonabile a quella che la stampa ha avuto in Europa nel XVII secolo.

Ma per affondare le radici nelle coscienze e cambiare le tradizioni bisogna attendere passaggi generazionali ineludibili: le stesse diverse “chiese” islamiche comprendono ormai quanto sia inevitabile fare i conti con una concezione non teocratica dello stato, pretendendo però di controllare i processi di cambiamento non soltanto per renderli compatibili con le prescrizioni coraniche ma anche, più prosaicamente, per mantenere un potere di controllo sociale che garantisce privilegi politici ed economici che altrimenti perderebbero (come è avvenuto nel mondo cristiano). L’esempio più evidente è dato dall’Iran modellato da Khomeini come uno stato ibrido al cui interno sono stati mantenuti alcuni limitati spazi dialettici, il che però non ha impedito a un clero onnipresente e invasivo di controllare tutte le articolazioni politiche e sociali di quel paese, bloccando ogni tentativo di liberare le migliori energie che emergevano spontaneamente nelle università e nella società civile dall’opprimente tutela dell’islamismo scita (la più strutturata e potente tra le diverse confessioni musulmane).

Il quadro che ci proviene dal variegato mondo musulmano è quindi complesso e non si presta ad affrettate semplificazioni: prescindendo dall’Iran, si va dal confronto più diretto con le democrazie occidentali (mutuandone le prospettive politiche e culturali) come avviene nel Magreb (e soprattutto nel Marocco), passando attraverso regimi militari autoritari ostili al radicalismo islamico (Egitto, Giordania, Pakistan, ecc.), per finire in realtà ancora diverse come l’Indonesia (che contiene il maggior numero di musulmani pur mantenendo, almeno in linea di principio, un certo pluralismo religioso). Ho l’impressione, da diversi segnali, che per accelerare la transizione sarà decisiva la rivoluzione femminile che lentamente sta maturando anche nei paesi islamici. Lo sanno anche i talebani di ieri e di oggi e ciò spiega l’accanimento sulla subalternità femminile che li ossessiona.

Insomma, non tutto l’Islam somiglia ai talebani e sarebbe bene non fare di tutt’erbe un fascio. A Kabul l’Occidente ha perso una battaglia ma la guerra tra valori liberali e fondamentalismi di ogni colore continua: bisogna imparare ad attendere e nel frattempo aprire le porte, sollecitare il confronto, inchiodare gli estremisti alle loro contraddizioni, nella speranza che i nostri migliori alleati verranno dalle prossime generazioni musulmane.

 

Franco Chiarenza
19 ottobre 2021

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Forum della rivista Paradoxa.

Di Sconosciuto – [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15871438

Il fascismo è stato molte cose. Innanzi tutto un regime fondato sull’autoritarismo carismatico di un dittatore e su una concezione razzista della società che ha governato in alcuni paesi europei (Italia, Germania, Spagna) nella prima metà del secolo scorso. Esso fu il prodotto di un disagio profondo che attraversò l’Europa dopo la prima guerra mondiale infrangendo i precedenti equilibri politici e sociali. La sua ideologia derivava da una lettura deformata delle filosofie di Nietzsche e di Sorel e si esprimeva ostentando sentimenti di radicale ostilità nei confronti dei sistemi liberal-democratici, ragion per cui essa si iscrive a giusto titolo (insieme al comunismo leninista e al radicalismo islamico) nelle teorie totalitarie che pretendono di permeare ogni aspetto della vita civile come in una gigantesca caserma abitata da automi obbedienti.

Ma al di là di questi aspetti “culturali” che – almeno in Occidente – sono stati sepolti dalle rovine della seconda guerra mondiale, è rimasto ed è tuttora vitale un metodo di fare politica che dal fascismo deriva e che riesce ancora oggi a esercitare una certa attrazione nelle persone più fragili, nelle minoranze smarrite che popolano i margini di ogni sistema sociale strutturato su regole di convivenza, nei giovani abbagliati dal mito della forza fisica e dalla voglia di comparire ad ogni costo perchè solo così si sentono vivi. E’ il metodo fascista e resta tale chiunque lo utilizzi, destra, sinistra, centro, a prescindere dalle motivazioni, quasi sempre peraltro ambigue e confuse. E’ il ritorno alla barbarie cavernicola dell’età della pietra quando per prevalere le diverse tribù si spaccavano le rispettive teste, fin quando scoprirono – come ricordava ironicamente Einaudi – che piuttosto che rompersele reciprocamente era meglio – per risolvere i conflitti – contarle. Ed è da allora che cominciò la lunga marcia delle democrazie e dello stato di diritto dove le controversie sono regolate dalle leggi e il governo trae la sua legittimità dal principio di maggioranza (che i liberali hanno temperato, per contrastare possibili deviazioni populiste, con i diritti personali imprescindibili).

Quello che è successo in molte città italiane – a cominciare da Roma – non è una novità. Esistono gruppi organizzati di facinorosi che spacciano la violenza teppistica per rivoluzioni politiche (che sono altra cosa perchè indirizzate a rovesciare regimi illiberali e oppressivi) pronti a cogliere ogni occasione per contrapporsi al potere legittimo dello Stato. Cambiano nome (black block, gilet gialli, naziskin, combattenti proletari, ecc,), indossano divise di colore diverso, ma sono tutti metodologicamente fascisti perchè non tollerano il pluralismo delle idee e le regole che lo governano.

Contro costoro, comunque si chiamino, qualunque sia il pretesto di cui si servono, lo Stato ha il diritto e il dovere di intervenire senza remore, e i partiti devono smettere di denunciare i gruppi eversivi soltanto quando la loro presunta ispirazione ideologica è lontana dalla propria. Il fascismo rosso non è diverso da quello nero e i movimenti che legittimamente mobilitano i loro militanti dovrebbero fare attenzione a non consentire mai ai provocatori in servizio permanente di strumentalizzare le loro ragioni. Basterebbe questo e i teppisti resterebbero isolati nel loro narcisismo criminale mentre la giustizia farebbe il suo corso senza la preoccupazione di alimentare un ingiustificabile vittimismo come quello che ostentano alcuni capi-bastone quando ricevono ciò che meritano: la condanna penale prevista dalla legge.
Punto e basta.

Franco Chiarenza
14 ottobre 2021

L’ultimo libro di Giuseppe Bedeschi (I maestri del liberalismo nell’Italia Repubblicana, Rubbettino, 2021) dimostra che al liberalismo i maestri non sono mancati, né sono mancate le scuole: cioè le correnti di pensiero, spesso in contrasto tra loro. Sono mancati, tragicamente, alunni attenti e volenterosi. E una lezione così importante è stata ascoltata da pochi e messa in pratica da quasi nessuno.
L’autore passa in rassegna quelli che a suo avviso sono stati i principali protagonisti della cultura liberale italiana del periodo, mettendo in luce gli elementi fondamentali del loro pensiero. A comporre questo pantheon sono Croce, Einaudi, Salvemini, Calogero, Antoni, Maranini, Bobbio, Matteucci, Sartori, Romeo. Un capitolo a parte è dedicato alla critica liberale del marxismo; un altro alla tradizione meridionalista. In appendice si può trovare un ritratto di Lucio Colletti, in cui viene ricostruita la sua particolare parabola intellettuale.

Il libro ha alcuni meriti che è opportuno mettere in luce. In primo luogo, viene riscoperta la tradizione del liberalismo nazionale, che in molti casi è stata sottovalutata, misconosciuta e vista come un residuo provinciale, una specie di salotto di nonna Speranza. Bedeschi riesce a restituire la complessità di questo pensiero, nei differenti approcci, senza negare divergenze e contrasti. Non cade, insomma, nella tentazione di ricondurre questi filoni ad una forzata unità con azzardati sincretismi o con spericolati tentativi di riconciliazione a posteriori. Lo stile di scrittura è piano e scorrevole, facilmente comprensibile da tutti.

In medaglioni di poche pagine non si può ovviamente esaurire il pensiero di un autore. Possiamo considerare questo libro come una lettura introduttiva per comprendere una parte importante della cultura filosofica, storica e politica del nostro paese, alla luce dei temi e dei problemi che si è trovata di fronte. Ma anche come punto di partenza per riflessioni ulteriori intorno al liberalismo italiano, con particolare riferimento alle ragioni del suo declino politico.
In altri termini, ci si potrebbe chiedere per quale motivo – per restare soltanto al periodo repubblicano – il liberalismo italiano non sia riuscito a guidare – o comunque a influenzare in modo significativo – i processi di trasformazione del paese. Un esame del genere non potrebbe prescindere da una seria analisi degli errori del suo ceto politico e intellettuale, e spesso delle sue compromissioni e dei suoi cedimenti. La convinzione di aver rappresentato la minoranza illuminata ma inascoltata in un contesto ostile è una gradevole consolazione, ma in molti casi è un facile alibi per nobilitare la propria irrilevanza.

A questo proposito, si potrebbe riflettere su quanti danni abbia provocato – soprattutto negli ultimi decenni – l’uso scriteriato del termine liberalismo per designare fenomeni culturali e politici che del liberalismo erano l’antitesi o la parodia: dal berlusconismo al leghismo. Anche adesso, di fronte a certe comiche mistificazioni, qualche maestro del liberalismo servirebbe ancora. Sono tanti i finti liberali – e i loro cantori di corte – a cui far indossare un bel cappello d’asino.

 

Saro Freni
09 ottobre 2021

© Carlo Calenda/Twitter

  1. Perché è l’unico candidato che rifiuta i genericismi ideologici (è di destra o di sinistra?) ma affronta i problemi concreti suggerendo soluzioni pragmatiche (dove, quando, perché, con quali risorse).
  2. Perché ha rifiutato i condizionamenti clientelari che si celano dietro le svariate “liste di supporto” che affiancano Michetti e Gualtieri.
  3. Perché è netto nella sua opposizione all’operato della Giunta Raggi e non accetterebbe mai un’alleanza coi grillini per il ballottaggio (come invece probabilmente farà Gualtieri su indicazione di Letta).
  4. Perché è venuto il momento di scegliere gli uomini di governo per la loro competenza e affidabilità lasciando ai globetrotters dei social il gossip delle apparenze per nascondere quanta poca sostanza hanno le loro argomentazioni.
  5. Perché non ha nulla a che fare né con gli apparati di sottogoverno cittadino che la Meloni ha ereditato da Alemanno né con quelli speculari che sotto l’ala protettiva di Bettini hanno sempre fatto il bello e cattivo tempo nelle giunte di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni ne sanno qualcosa!).
  6. Perché è l’unico a dire chiaramente che i termovalorizzatori non sono tumorifici e risolvono in gran parte il problema della spazzatura (che la Raggi è stata costretta a piazzare a caro prezzo nei “tumorifici” esistenti oppure ad abbandonarla per strada, come i romani sanno bene).
  7. Perché è l’unico a dire chiaramente che bisogna investire nelle metropolitane, nelle tramvie protette e veloci, e non soltanto in piste ciclabili maltenute e poco protette o in improbabili funivie che avrebbero costi di costruzione e di esercizio sproporzionati rispetto alla loro utilità.
  8. Perché fa meno demagogia degli altri candidati e non liscia il pelo alle corporazioni che soffocano da sempre lo sviluppo della Capitale (a cominciare dai tassisti e dalle categorie protette per finire allo scandalo delle licenze e dei permessi dietro il cui rilascio si cela una diffusa corruzione).
  9. Perché anche se porta il Rolex e vive ai Parioli (il che in realtà non risulta) è una persona per bene. Ma perchè se ad abitare ai Parioli e indossare orologi preziosi sono personaggi della sinistra nessuno ha nulla da ridire
  10. Perché viene criminalizzato da tutti coloro che temono l’arrivo a Roma di qualcuno che adotti lo stesso metodo di governo di Draghi: ascoltare tutti e decidere assumendosene la piena responsabilità. E gli intrugli, le connivenze, i parentadi, gli scambi di favori, le centinaia di inutili poltrone e poltroncine, dove andrebbero a finire? Meglio Michetti e Gualtieri, con loro ci si può intendere.

Un voto inutile? obiettano molti che pur ne condividono il programma. Non lo è in nessun caso, anche se è molto probabile che al ballottaggio vadano Gualtieri e Michetti, perché un’affermazione di Calenda a Roma segnerebbe l’esistenza di uno spazio elettorale anche a livello nazionale nettamente differenziato dall’asse Letta/Conte promosso dal PD e ancor di più dall’alleanza Salvini/Meloni che non lascia più posto a una destra moderata (soprattutto dopo la scomparsa politica di Berlusconi).

Per queste ragioni – a mio avviso – i liberali dovrebbero votare Calenda, lasciando da parte le tante etichette pretestuosamente liberali che spesso nascondono soltanto modeste ambizioni personali, o certi “distinguo” terminologici (è azionista, è liberal-socialista, ecc.) che non hanno più alcuna ragione di essere. Al di là degli esami del sangue oggi è liberale chi sostiene proposte serie e compatibili con lo stato di diritto e l’economia di mercato. Il resto è fuffa.

Franco Chiarenza
01 ottobre 2021

Nel 1939 il pretesto per l’avvio della seconda guerra mondiale fu la questione di Danzica, il porto prussiano sul Baltico che il trattato di Versailles aveva assegnato alla Polonia per assicurarle uno sbocco al mare ma di cui, per ragioni storiche ed etniche, la Germania rivendicava la restituzione già prima dell’avvento del nazismo. “Morire per Danzica?” fu la domanda retorica che i pacifisti europei ponevano ai loro governi quando la Francia e la Gran Bretagna, alleate della Polonia, furono costrette a intervenire per arginare le spinte aggressive di Hitler. Per nostra fortuna l’interrogativo rimase senza risposta perché non era per Danzica che le democrazie occidentali mandavano i loro figli a morire ma per salvaguardare in futuro la loro libertà.
E’ passato molto tempo; oggi, sollecitati dalle immagini drammatiche che arrivano dall’Afghanistan, ci chiediamo se possediamo ancora motivazioni ideali talmente forti da giustificare il sacrificio della vita; senza di che – sostiene Galli della Loggia nell’articolo che ha dato il via a questo dibattito – la proposizione del nostro modello politico e sociale perde credibilità nei confronti di chi è ancora riluttante ad adottarlo.
La questione è apparentemente semplice. Viviamo in una società che si riconosce abbastanza stabilmente in alcuni valori: stato di diritto, parità di genere, rispetto delle minoranze, libertà di espressione, servizi pubblici (più o meno estesi ma comunque presenti), scambi commerciali aperti (seppure regolati da norme che tutelino la concorrenza), ecc. Siamo pure convinti (anche se lo diciamo sottovoce per non sembrare politicamente scorretti) che la civiltà che abbiamo costruito tra grandi difficoltà e contraddizioni in tremila anni, a partire dalla filosofia greca fino alla rete internet, sia superiore ad ogni altra, almeno dal punto di vista dei risultati raggiunti in termini di libertà individuali e tenore di vita. Da tale convinzione scaturisce come logica conseguenza che abbiamo il diritto (e forse il dovere) di trasferire anche ai popoli che non hanno percorso il nostro processo di sviluppo non soltanto le tecniche che ci hanno consentito di aumentare il nostro benessere ma anche i valori che l’hanno accompagnato. Si tratta di un riflesso condizionato ben noto agli studiosi del colonialismo unanimi nel convenire che questo aspetto di “promozione culturale” ha avuto grande importanza nella giustificazione morale dell’espansione europea in Africa e in Asia. Persino lo sfruttamento delle materie prime, che era la vera ragione di molte conquiste coloniali, veniva spiegato come un vantaggio reciproco per l’incapacità delle popolazioni indigene di valorizzarlo. D’altronde il fatto stesso che insieme alle occupazioni militari gli europei “esportassero” attraverso le “missioni” anche le loro religioni (cattoliche nelle colonie francesi, italiane, belghe e portoghesi, protestanti o anglicane in quelle inglesi o olandesi) dimostra l’importanza che veniva data all’aspetto culturale di un fenomeno che, nel bene o nel male, ha comunque cambiato la storia di grandi territori che erano rimasti esclusi dal nostro modello di civilizzazione.

Fino a che punto?
Dopo la seconda e la terza (mancata) guerra mondiale è cambiato tutto ma negli Stati Uniti, usciti vincenti dal confronto, è rimasta molto radicata l’idea che i cardini su cui si fonda la nostra civiltà abbiano una validità universale e pertanto sia giusto favorirne l’espansione ovunque possibile. I risultati sono stati ambivalenti: India, Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno percorso, seppure con le necessarie modifiche, la strada maestra delle democrazie liberali; altri paesi hanno creato sistemi ibridi dove la preesistente cultura tribale (prevalentemente musulmana) si è adattata ai modelli occidentali consentendo in qualche misura un certo pluralismo politico e religioso (come in Pakistan e in Indonesia). Insomma si può dire che in molti stati sorti dalle ceneri della colonizzazione bene o male sono stati avviati processi di modernizzazione che, anche quando non hanno prodotto sistemi liberal-democratici, rientrano comunque in un processo di sviluppo compatibile coi modelli occidentali. La stessa Cina – come è ben noto – si dibatte tra l’accettazione dell’economia capitalistica e il rifiuto dei suoi presupposti liberali che trovano nello stato di diritto la loro espressione; una contraddizione che sta emergendo con la crescita del potere personale di Xi Jinpiang e l’accantonamento della teoria della convivenza di modelli politici e sociali diversi all’interno di un unico stato comunista.
Le maggiori resistenze alla modernizzazione si sono manifestate in Medio Oriente attraverso il fondamentalismo islamico che contesta un principio essenziale del nostro modello comunitario, la distinzione tra Stato e religione (oggi ampiamente riconosciuto ma al quale anche l’Occidente è pervenuto attraverso lotte e conflitti durati tre secoli). Il fondamentalismo, basato su una lettura integralista del Corano (peraltro contestata da parti consistenti dell’Islam), è riuscito a imporsi in due paesi molto importanti (per popolazione, risorse energetiche, posizione geografica), l’Iran e l’Arabia Saudita. Nel primo il clero scita ha creato uno stato islamico che, pur tentando in una certa misura di conciliare limitate forme di democrazia con le prescrizioni coraniche, di fatto resta una teocrazia appena mascherata da un pallido pluralismo, nel secondo soltanto da qualche anno la dinastia regnante sta cercando di uscire dalla frammentazione tribale e accantonare la fede wahabita su cui ha fondato il suo potere.
In altre nazioni (prevalentemente arabe) il fondamentalismo religioso ha tentato a più riprese di conquistare il potere trovando soltanto nell’esercito un ostacolo insuperabile (per esempio in Egitto, Algeria, Giordania). Spesso però la tutela militare si esprime attraverso regimi autoritari che certamente non corrispondono ai modelli democratici occidentali; e tuttavia, piaccia o no (e ai puristi del politically correct non piace) le ridotte laiche in campo musulmano sono sempre state presidiate dalle dittature militari e dove esse sono venute meno si è immediatamente riaffacciato l’estremismo islamico. Già dagli anni ’50 i regimi militari hanno comunque consentito (anche per effetto della diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione) una penetrazione della cultura occidentale che ha prodotto intermediazioni sociali che contestano l’integralismo islamico, come avvenne per il “socialismo arabo” promosso da Nasser in Egitto. Le stesse “primavere arabe” del 2010, seppure fallite nel tentativo di creare forme di democrazia compatibili con i nostri valori, hanno lasciato un’eredità laica di sensibilità ai diritti umani di cui ogni successivo governo ha dovuto tenere conto, soprattutto nei grandi centri urbani dove le nuove generazioni riescono in certa misura a imporre cambiamenti culturali significativi.

Che fare?
Fin qui, si potrebbe dire, nulla di nuovo che già non si sapesse. Dove sta il problema messo in luce con tanta preoccupazione da Galli della Loggia? Nel fatto che con l’abbandono dell’Afghanistan l’Occidente scopre la sua fragilità e, finalmente, si interroga sulle vere cause che la determinano e comincia a temere della solidità del suo modello e soprattutto della sua capacità di difenderlo senza ricorrere a sua volta a fondamentalismi intolleranti contrapposti (come vorrebbero alcuni “neo cristiani” che brandiscono il crocefisso come una clava).
Galli della Loggia ci ricorda che le grandi idealità per essere credibili vanno difese mettendo in gioco la vita; e, in effetti, le grandi religioni monoteiste si sono affermate anche perchè la loro narrazione dell’Aldilà facilitava il sacrificio di esistenze spesso miserabili e ingenue. Inutile qui ricordare i martirologi cristiani; anche i kamikaze musulmani vengono chiamati martiri.
I processi di secolarizzazione in Occidente hanno fortemente attenuato tale narrazione e la vita, unica e inimitabile, è tornata al centro dell’attenzione, talvolta anche in forme quasi ossessive per prolungarne la durata oltre il limite dell’autocoscienza. La vita è oggi da tutti considerata un valore che non può essere messo in gioco neanche per difendere idealità forti come ancora furono quelle che hanno animato le due guerre mondiali. Gli americani che morivano in Europa per difenderla dal nazifascismo erano convinti di sacrificarsi per un ideale alto e condiviso, quello della libertà.

Dove si colloca dunque l’asticella oltre la quale val la pena morire?
La risposta tentata dagli americani quando il problema ha cominciato ad evidenziarsi nella guerra del Vietnam (che fu vinta a Washington più che a Saigon quando gli studenti americani, sostenuti da una parte consistente dell’opinione pubblica, rifiutarono di andare a combattere) è stata di carattere tecnologico. Oggi la guerra si può fare senza sacrificare vite umane attraverso nuovi armamenti sempre più sofisticati, e dove fosse assolutamente necessario tramite l’impiego di mercenari ben addestrati e che hanno messo in conto (con laute ricompense) il rischio di perdere la vita.
Ma le contraddizioni di questa soluzione sono subito apparse evidenti per i danni collaterali che provocava nelle popolazioni civili, ma soprattutto quando il “nemico” si presentava allo scontro con motivazioni ideali e religiose talmente forti da non temere il sacrificio della vita; quando cioè i nemici sono i kamikaze, i terroristi, quei poveri disgraziati che si immolano per la loro fede ignorando che difendono semplicemente gli interessi e i privilegi dei loro sceicchi (i cui figli non mi risulta si siano mai fatti saltare in aria).
Come può difendersi un Occidente che ha mandato in soffitta con la leva obbligatoria gli eserciti popolari, passaggio obbligato in passato per costruire un’identità nazionale condivisa? Anche noi liberali salutammo come doveroso il superamento della “ferma”: anni buttati, non servono a nulla, bisogna immettere nella vita lavorativa i figli più presto possibile. E’ stata la scelta giusta per loro e per il Paese?
Domande inutili: tornare indietro è impossibile. Altre risposte vanno quindi cercate, ma quali?

Apriamo una seria riflessione possibilmente esente da ipocrisie e strumentalizzazioni. Al fanatismo di minoranze irresponsabili si risponde con la diffusione delle conoscenze che i nuovi mezzi di comunicazione, utilizzati correttamente, consentono coma mai in precedenza. Tempi lunghi; e nel frattempo?

Franco Chiarenza
05 settembre 2021