Torna a farsi sentire la vena satirica di Saro Freni dopo il suo fortunato esordio (Lettere dall’Italia – 2016). Ancora una volta si tratta di ritratti disegnati per lettori stranieri che vogliano capire qualcosa di questo strano nostro Paese; un esercizio, quello di vederci con occhi a noi estranei, altre volte praticato e non sempre riuscito perchè inevitabilmente si finisce per guardarsi allo specchio, il quale, per deformato che sia, non corrisponde sempre a come davvero ci percepiscono gli altri. Premesso quindi che il libro si legge con grande piacere anche per la scrittura ironica ma sempre garbata che riflette la personalità dell’autore, rara avis in un mondo dove la volgarità sembra diventata la regola (soprattutto quando si parla di avversari), ho riscontrato qualche criticità che l’amicizia per Saro non mi consente di trascurare.
La prima riguarda la cronologia. I ritratti sono necessariamente datati (si tratta infatti di una raccolta di articoli pubblicati su un giornale svizzero) e per qualcuno di essi le novità che si sono aggiunte rendono i profili abbozzati poco adattabili agli avvenimenti successivi. Ciò vale soprattutto per la politica anche perchè in certi momenti essa ha assunto da noi tempi e modi talmente frenetici che è difficile pure per gli italiani seguirne i ritmi sconvolgenti; non fai in tempo a scrivere di un governo che pochi giorni dopo i suoi componenti sono all’opposizione, spegni il computer e li ritrovi alleati con quelli che risultavano essere i peggiori nemici, si dimentica quanto era stato detto il giorno prima o addirittura se ne rovescia il significato, persino l’abbigliamento confonde le idee, chi era in t-shirt fino a quel giorno ricompare improvvisamente in giacca e cravatta e, al contrario, compassati dilettanti del potere ingessati in un completo grigio scoprono la gioia del deshabillè. Più che un libro servirebbe un blog continuamente aggiornato.
La seconda osservazione è più seria. In alcuni articoli il mio amico Saro si incazza. Abbandona il tono ironico e disinvolto per assumerne uno diverso, più preoccupato. Lo capisco, per come stanno le cose ci sarebbe da incavolarsi tutti i giorni; ma è una mutazione che mi ha sorpreso perchè rivela un timore profondo ben diverso dal sarcasmo con cui vengono giustamente trattati certi personaggi che occupano indecorosamente la ribalta (non soltanto politica); ne risulta una satira amara e pessimistica che induce a riflettere, come dire che non è più tempo di scherzare. Il mio inossidabile ottimismo ne resta inevitabilmente compromesso e il “dover essere” sostituisce la leggerezza irridente del “come siamo”. Quando gli amici svizzeri che leggono i suoi divertenti ritratti faranno parte della NATO (ammesso che ciò avvenga davvero) si renderanno conto perchè noi ci siamo entrati sin dal 1949, pur essendo l’Atlantico piuttosto lontano dalle nostre coste. Il fatto è che gli italiani cercano sempre qualcuno o qualcosa che li protegga per poi esercitare nei suoi confronti lo sport che preferiscono (dopo il tifo calcistico): il tiro a segno della maldicenza. Ma se Freni non ha deciso di assumere la cittadinanza svizzera farà meglio a rassegnarsi e continuare con ironia a descrivere lo spettacolo messo in scena quotidianamente dai nostri connazionali; se è vero che il teatro serve a mascherare la realtà fingendola diversa, come Pirandello ci ha insegnato, bisogna riconoscere il loro talento nella recitazione. La tragedia – invisibile – si consuma dietro le quinte dove gli attori devono prendere atto che le cose che contano si decidono e si fanno altrove. Rivelando a sipario aperto le loro debolezze e le loro finzioni Saro Freni infrange la sacralità del palcoscenico. Corre voce che un “teatrante” stia facendo scomparire tutte le copie del suo libro dalle librerie; ragione di più per acquistarlo subito.

Franco Chiarenza

Saro Freni: Che figure! (Rubbettino – Soveria Mannelli 2022) – pag. 152

Il destino dell’Ucraina di Simone Attilio Bellezza (ed Scholé) – denso e circostanziato – è una descrizione dell’evoluzione dell’Ucraina verso la democrazia. La società post sovietica è la stessa descritta nella “La Russia di Putin” di Anna Politkovskaja: ex dirigenti sovietici ed ex componenti dell’organizzazione giovanile comunista che appropriandosi dei settori produttivi del Paese si trasformano in ricchi oligarchi. Violenza, clientele e corruzione ovunque, e persone da un passato dubbio fanno ricche carriere politiche, come il futuro presidente Victor Janukovic, da adolescente “criminale di quartiere con a carico rapine a mano armata e violenza privata”. “La massima camera di compensazione e direzione di questo sistema di clientele politico-economiche era il Parlamento dove sedevano gli oligarchi che si spartivano le parti più importanti del potere economico e politico”.

Il distacco dalla Russia inizia con la disgregazione dell’URSS, con le dichiarazioni di sovranità nel 1990 e poi di indipendenza da Mosca nel ‘91 e si sviluppa nei travagliati anni successivi: l’Ucraina tende verso l’Unione Europea allontanandosi da una Russia che non accetta accanto a sé modelli di evoluzioni diversi e concorrenti. Qui l’autore fa notare che “sia in russo che in ucraino l’aggettivo ‘europeo’ aveva il significato secondario di “bello, prestigioso, ricco”.

Lo sviluppo verso democrazia e libertà non è indolore: lotte politiche, manifestazioni di protesta di centinaia di migliaia di persone, brutali repressioni della polizia che nel febbraio 2014 spara sui manifestanti provocando 77 morti in soli 2 giorni con successiva fuga in Russia del presidente Janukovic e con Putin che fa subito approvare dal Parlamento l’autorizzazione a utilizzare truppe russe in Ucraina. Segue l’occupazione della Crimea da soldati russi ”anonimi” non contrastati dai soldati ucraini a cui era stato ordinato di non agire per evitare una guerra con Mosca. Successivamente un referendum in “un clima di terrore” con affluenza e opzione per la Russia ufficialmente dell’83 e del 96% mentre i dati reali, pubblicati per errore, risultavano rispettivamente del 30 e del 15 %. Successive operazioni di Mosca che facendo leva sulle popolazioni più russofone provoca/favorisce la nascita di repubbliche autonome nel sud dell’Ucraina.

La restante parte del libro arriva alla elezione di Zelenski ma non ancora all’attuale guerra, prevista ma non ancora iniziata.

Il libro è la cronografia della non facile evoluzione dell’Ucraina verso uno stile istituzionale europeo costata cara nel suo sviluppo e molto di più nella sua attuale tragica situazione non ancora conclusa ma che sta dando all’Ucraina una identità che forse non ha mai avuto, creando eroi e leggende quasi fondative dello stato; e provocando negli altri paesi europei ammirazione e solidarietà. Situazione che sta anche creando con la Russia solchi che potranno essere superati solo dopo la scomparsa delle generazioni che stanno vivendo l’attuale gratuita tragedia provocata e diretta in prima persona dall’ex KGB Putin.

È leggendo “La Russia di Putin” (Adelphi) scritto da Anna Politkovskaja nel 2004 che si capisce perché Anna Politkovskaja sia stata uccisa e quanto sia plausibile il sospetto che sia stata uccisa il 7 ottobre 2006, come regalo a Vladimir Putin, che nato il 7 ottobre 1952, quel giorno compiva il suo 54esimo compleanno.

È un libro di un coraggio estremo, il quadro di una Russia che “è il prodotto dell’Unione Sovietica”, dove la corruzione, generalizzata e gerarchizzata con in testa il suo presidente, costituisce l’organizzazione stessa dello stato; dove le ricchezze degli oligarchi sono i risultati della privatizzazione di pezzi di stato di cui si sono impossessati coloro che al momento dello sfaldamento dell’Unione Sovietica erano all’interno dello stato nelle posizioni e condizioni di farlo, persone cioè della “nomenclatura” del partito comunista. Una società dove tutto ha un prezzo, dove ogni ricchezza nasce e si mantiene pagando burocrati, polizia e tribunali. Dove le aziende che funzionano vengono spolpate, chi alza la testa viene fisicamente eliminato e gli ex soldati e ufficiali che hanno combattuto anni e anni in Cecenia, non più adatti alla vita civile e non sapendo fare altro che combattere e uccidere, si sono riciclati in killer e guardie del corpo.

Qua e là c’è un certo rimpianto per le speranze sorte con Gorbaciov e Elsin e subito cessate con l’arrivo di Putin che ha portato con sé i suoi sodali del KGB e questi a loro volta i loro colleghi e così via invadendo ogni punto nevralgico dello stato che è tornato a ritroso verso il mondo di Stalin. E in questo revanscismo Anna Politkovskaja cita anche l’aiuto avuto da Putin dal “coro di osanna” di molti dei leader politici dell’occidente. Un Putin che va avanti finché non incontra resistenza, che “tasta il terreno e sonda le reazioni e che se non ce ne sono o sono amorfe e gelatinose procede”. L’autrice però non incolpa gli altri per lo stato della Russia ma fa l’autocritica: “le nostre reazioni a quel che ha detto e fatto sono state non solo fiacche ma impaurite” mentre “il KGB rispetta solo i forti, i deboli li sbrana”.

Si parla delle guerre cecene, dei crimini di guerra, dei bombardamenti su città e villaggi, delle vendette e degli stupri lì commessi, del cinismo e della disumanità verso i civile così come vediamo ora nella guerra contro L’Ucraina. E l’esercito è un corpo assolutamente chiuso su se stesso, dove si ruba di tutto e dove ognuno esercita il proprio potere su chi è di grado inferiore anche picchiandolo. Si descrive il razzismo verso i ceceni che vivevano in Russia, perseguitati e arrestati con false prove da una polizia senza scrupoli.

Si parla in modo dettagliato anche degli attentati nel teatro Dubrovka del 2003 e nella scuola di Beslan del 2004 con il cinismo e la rozzezza degli interventi, l’uso di gas e i conseguenti massacri poi da ignorare e nascondere anche togliendo voce a sopravvissuti e parenti.

Al termine del suo libro Anna Politkovskaja si domanda perché ce l’ha tanto con Putin. La risposta – evidente – sta nel mondo che descrive e che spiega anche perché Putin ce l’ha avuta così tanto con lei che qualcuno ha ritenuto opportuno festeggiare il suo 54esimo compleanno regalandogli la vita di questa esemplare coraggiosa giornalista della Novaia Gazeta di Mosca.

Continua incessante, sempre meno sotterraneo, il tentativo di delegittimare l’alleanza di fatto che si è venuta a creare tra le democrazie occidentali e la resistenza ucraina. Il modo più subdolo di farlo è confrontare i misfatti di Putin con quelli di cui si sarebbe resa responsabile in passato la NATO, quasi che ciò possa in qualche modo giustificare l’intervento russo.
Tra quanti si esercitano in queste dubbie argomentazioni ci sono alcuni liberali, ed è ad essi che mi rivolgo perché la nostra cultura mette insieme ragioni e preoccupazioni geo-politiche (che comportano inevitabilmente contatti e relazioni anche con paesi diversi da noi) e coerenza con i principi che sono alla base delle nostre convinzioni.
In sintesi:

  • credo sia innegabile che in passato, assumendosi compiti di vigilanza democratica che non rientravano nelle finalità difensive originarie, la NATO abbia compiuto degli errori; in particolare l’intervento armato in Serbia nel 1999 per consentire alla minoranza albanese concentrata nel Kossovo di rendersi indipendente, e successivamente l’occupazione dell’Afghanistan dopo gli attentati terroristici di New York del 2011. L’invasione dell’Iraq nel 2009 invece non fu effettuata dalla NATO ma da una coalizione guidata dagli Stati Uniti (di cui non facevano parte né la Francia né la Germania e in cui l’Italia dette un contributo molto marginale nell’ambito di una collaborazione militare con la Gran Bretagna). Si trattò di operazioni militari diverse anche nelle motivazioni (nel caso del Kossovo la tutela di una minoranza perseguitata, in Afghanistan per distruggere le basi del terrorismo islamico, in Iraq senza alcuna giustificazione ragionevole) e che sollevarono dubbi e perplessità nelle opinioni pubbliche europee.
  • è altrettanto innegabile che dopo il crollo dell’Unione Sovietica l’Alleanza atlantica aveva perso la sua principale ragione di essere; se guerra (fredda) c’era stata gli Stati Uniti coi loro alleati europei l’avevano vinta e quindi veniva meno la necessità di un’alleanza difensiva. Avrebbe avuto un senso mantenerla in vita trasformandola in una struttura multilaterale militare da utilizzare per stabilizzare le possibili aree conflittuali ancora presenti in Europa e in Medio Oriente in collaborazione con la Russia e non contro di essa; in questa direzione andavano l’accordo che il governo italiano promosse nell’incontro di Pratica di Mare tra la NATO e la Russia nel 2002, e, ancor prima, l’inserimento della Russia nel G7 (gruppo degli stati economicamente più avanzati, di fatto le maggiori potenze occidentali). Non si andò avanti in questo orientamento per tre ragioni: il prevalere in Russia di partiti nazionalisti e nostalgici contrari alla trasformazione del paese in una democrazia liberale; il timore dei paesi dell’Europa dell’Est di dovere fronteggiare le mire egemoniche e revansciste della Russia; l’interesse degli Stati Uniti di mantenere – attraverso il controllo della NATO – un potere di dissuasione militare che avrebbe impedito all’Unione Europea di crescere politicamente e militarmente.
  • Non è vero invece che la NATO allargandosi ad est ai paesi che avevano chiesto di farne parte abbia rappresentato un pericolo per la sicurezza della Russia, non soltanto per il carattere difensivo dell’Alleanza, ma soprattutto perché le basi militari e missilistiche presenti in Europa non erano quantitativamente comparabili con quelle russe.

Resta da capire – così stando le cose – perché Putin abbia deciso di intervenire militarmente in Ucraina, posto che un’adesione di quel paese alla NATO era ormai da escludersi e poteva facilmente essere formalizzata in un accordo complessivo insieme alla concessione di maggiori tutele alle minoranze russofone del Donbas e all’accettazione del fatto compiuto in Crimea.
L’unica spiegazione possibile è che Putin abbia deciso di scatenare una guerra preventiva per stabilire una zona di influenza russa nell’Europa dell’Est consolidando un’egemonia che a sud attraverso il controllo del mar Nero arrivasse al Medio Oriente e a nord dalla base di Kaliningrad controllasse il Baltico e gli stati neutrali che vi si affacciano (Svezia e Finlandia).
Ammetto che si tratta di una spiegazione debole a fronte dei rischi che un intervento armato avrebbe comportato e che il leader russo non poteva ignorare: isolamento internazionale (Cina esclusa), ricompattamento dell’Europa occidentale (con la pericolosa appendice di un riarmo tedesco), rafforzamento della NATO (proprio quando molti la davano per spacciata, almeno nel format attuale), danni economici rilevanti per un paese che per la maggior parte esporta gas e materie prime e importa manifattura e tecnologia. Evidentemente alcune conseguenze erano state sottovalutate a cominciare dalla resistenza accanita degli ucraini (anche russofoni anti-Putin) per continuare con la capacità americana di fornire assistenza militare e coperture tecnologiche in quantità e qualità tali da mettere in difficoltà un esercito più tradizionale come quello russo. A ciò si è aggiunta la parallela guerra della comunicazione, fondamentale nel mondo odierno, che ha visto Zelensky in netto vantaggio evidenziando l’arretratezza culturale del regime di Mosca e il suo isolamento auto-referenziale.

E allora? Se di guerra preventiva si è trattato, contro chi o che cosa?
Contro l’egemonia americana. Putin pensa a se stesso come l’angelo vendicatore della sconfitta dell’Unione Sovietica; non del comunismo, si badi bene, (di cui non ha alcuna nostalgia) ma di quella ricomposizione dell’impero zarista che, più o meno consapevolmente, l’Unione Sovietica aveva realizzato. E con le stesse mire egemoniche: Baltico, Polonia, Balcani, Medio Oriente.
Chi ostacola questo disegno? L’America. Da quando nel 1945 ha abbandonato il suo isolazionismo ed è corsa a salvare l’Europa dal nazifascismo stabilendo con essa un legame profondo derivato da origini comuni, valori ideologici condivisi, interessi economici in gran parte complementari, l’America coi suoi alleati in Oriente (Giappone, Corea, ex colonie britanniche) ha realizzato un’area di influenza socio-economica e culturale senza precedenti, all’interno della quale le regole politiche liberal-democratiche erano dominanti.
Putin ha capito che l’unico sistema realmente alternativo potenzialmente in grado di competere con l’egemonia americana è quello cinese, soprattutto da quando ha abbandonato le utopie egualitarie del marxismo rimodellando la propria economia per renderla capace di inserirsi con successo nei processi di globalizzazione capitalistica. Il presidente russo ha deciso quindi di anticipare i tempi costringendo la Cina di Xi Jinpeng a schierarsi con lui nel comune intento di ridimensionare la presenza euro-americana; ma in realtà le convergenze economiche e politiche dei due regimi sono molto limitate. La Cina difende l’autoritarismo perché lo ritiene necessario per modernizzare il paese ancora segnato da ataviche arretratezze di cui è cosparso il suo immenso territorio, Putin lo utilizza per realizzare un impossibile ritorno al passato, alle tradizioni religiose, al rifiuto della decadenza dei costumi importata dall’Occidente, per creare in sostanza un neo-zarismo paternalistico e chiuso ad influenze culturali che ritiene devianti.

Se le cose stanno così (ma la mia è soltanto un’ipotesi) tra i tanti errori che Putin ha compiuto c’è anche quello, coerente con una concezione ottocentesca dei rapporti di forza, di non aver compreso la rivoluzione comunicativa (e quindi informativa) del secolo XXI la quale – piaccia o no – offre alle popolazioni nelle loro diverse articolazioni (religiose, sociali, economiche, culturali) una capacità di intervento nella determinazione dei propri interessi che era sconosciuta in passato: contro questa rete che tutto avvolge in un’infinità di connessioni è impossibile combattere con i carri armati e i missili.

Franco Chiarenza
20 aprile 2022

© Eric Drooker – www.drooker.com

La diversità italiana riguarda anche il variegato mondo che si definisce liberale; soltanto da noi infatti si levano tante voci che in nome del rifiuto all’omologazione si smarcano da opinioni considerate effetto di pregiudizi orchestrati da mass-media compiacenti. Lo abbiamo visto coi no-vax difesi da alcuni noti intellettuali e lo rivediamo oggi per l’Ucraina. Mi chiedo: davvero essere liberali significa fare i bastian-contrari ad ogni costo? La mia risposta è no perché altro è garantire la libertà di espressione, altro condividere alcuni contenuti per il solo fatto che contestano il parere della maggioranza. Poiché appartengo alla scuola del liberalismo metodologico (per il quale si è liberali più per il metodo che si adotta nel confronto che non per la qualità dei contenuti) credo che i liberali nel discutere di questi problemi debbano distinguere le questioni di principio dall’analisi dei fatti.

Sui no-vax, per esempio, c’è una questione di principio dalla quale i liberali non possono derogare: la libertà di ciascuno trova il suo limite nel rispetto dei diritti altrui. Se quindi si dimostra che determinate azioni provocano danno agli altri (per esempio tramite contagio infettivo) l’obbligo di vaccinazione è perfettamente compatibile con l’essere liberali. Naturalmente si può contestare che la libera circolazione sia davvero dannosa, e non, come insinuano alcuni no-vax, pretesti per limitare i diritti individuali, ma bisogna dimostrarlo in maniera convincente. Altrimenti scatta un altro principio liberale per il quale in caso di dissenso tra opinioni diverse prevale quella che raccoglie i maggiori consensi, il che si misura – almeno fino ad oggi – attraverso gli strumenti che la democrazia rappresentativa ci mette a disposizione: parlamento e governo. Ciò vuol dire che i liberali contestano ai dissenzienti il diritto di manifestare? Assolutamente no; le manifestazioni, quando non si trasformano in azioni violente, sono tutelate dalla Costituzione e rientrano nella libertà di esprimere con ogni mezzo il proprio pensiero. E allora? Allora significa soltanto che i no-vax non possono definirsi liberali, pur restando liberi, nell’ambito della legalità, di manifestare il proprio dissenso “illiberale”.

Nel caso dell’Ucraina la questione di principio preliminare è ancora più netta. Aggredire militarmente una nazione sovrana è sempre e comunque inaccettabile, qualunque siano le giustificazioni addotte; ancor di più se chi aggredisce rivendica un diritto alla “difesa preventiva” che trasformerebbe il mondo intero in una rissa permanente. L’Ucraina per esempio è stata attaccata dalla Russia per il timore che, pur esercitando la propria legittima sovranità, potesse trasformarsi in una base militare ostile; ma essa, come altri stati federati, faceva parte dell’Unione delle Repubbliche sovietiche e, come altri, dopo lo scioglimento dell’URSS aveva optato nel 1991 per l’indipendenza, ottenendo il pieno riconoscimento della comunità internazionale (Russia compresa). Nessuno quindi aveva il diritto di interferire militarmente per limitare la sua sovranità, qualunque ne fossero le motivazioni. Chi pensa che tale questione di principio possa essere accantonata per ragioni geo-politiche o per motivi di convenienza, esprime legittimamente un’opinione (purtroppo molto diffusa) ma non può definirsi liberale. Tra le ragioni dell’intervento la Russia ha anche sollevato la tutela delle minoranze russofone presenti nel Donbass e in altri territori ucraini. In proposito va rilevato che il problema delle garanzie per le minoranze costituisce un problema assai diffuso in tutto il mondo (e persino in Italia) ma è da tempo considerato come questione da regolare attraverso accordi che non mettano in discussione i confini nazionali riconosciuti dalla comunità internazionale che oggi si esprime essenzialmente nella partecipazione all’ONU, di cui l’Ucraina è membro a pieno titolo sin dal 1991.
Detto ciò si potrebbe por fine al dibattito. Ma nel caso dell’Ucraina il contesto geo-politico, da mantenere ben separato dalle questioni di principio, merita un approfondimento al quale, esaminate le tante diverse opinioni, non mi sottraggo.

La prima delle ragioni dei “giustificazionisti” (dell’aggressione russa) consiste sostanzialmente nei comportamenti “provocatori” della NATO che, violando gli impegni presi dopo la scomparsa dell’URSS, avrebbe inglobato nell’alleanza tutti i paesi dell’Europa orientale che erano membri del patto di Varsavia, aggiungendovi quelli baltici che si erano resi indipendenti. Se anche l’Ucraina – come aveva chiesto – fosse entrata a far parte della NATO i suoi missili sarebbero stati a poca distanza dalla Russia compromettendone la sicurezza. E’ un argomento che colpisce l’opinione pubblica meno informata e consente di distribuire equamente tra le due parti in conflitto la responsabilità di una guerra che, ovviamente, fa orrore a tutti.
Però le cose non sono andate così. E’ vero che dopo il crollo del muro di Berlino vi erano stati generici affidamenti verbali da parte americana di non allargare l’ambito dell’alleanza atlantica ai paesi che si erano liberati dal giogo sovietico, ma non ne era seguito alcun impegno ufficiale; anche perché i paesi interessati hanno insistito per farne parte. Poteva la NATO rifiutare protezione a paesi che la chiedevano proprio perché avevano fondate ragioni per difendersi dall’imperialismo russo? Si potrà obiettare che gli USA pretesero la smobilitazione dei missili sovietici a Cuba nella famosa crisi del 1962 ma dopo averla ottenuta (in cambio peraltro di misure analoghe in Turchia) il governo di Washington ha sempre rispettato la sovranità cubana, limitandosi a contrastarla con misure economiche (sanzioni) e politiche; insomma i carri armati – piaccia o no – fanno la differenza, tant’è che ancora oggi, a cinquant’anni di distanza a Cuba governa un regime esplicitamente anti-americano.
Ma anche se le nefandezze attribuite alla NATO fossero vere forse ciò potrebbe giustificare quelle che Putin sta perpetrando in Ucraina? Quando l’America ha compiuto interventi armati ingiustificati o comunque discutibili, giornali, opinionisti, intellettuali, uomini politici di parte avversa, si sono giustamente scatenati contro il governo di Washington; non ho visto nulla di simile in Russia dove le poche centinaia di giovani coraggiosi scesi in piazza per protestare sono spariti dalla circolazione senza che nessuno se ne scandalizzasse.
Certamente anch’io – come altri liberali – sono convinto che negli anni ’90, dopo il crollo del regime comunista non si colse l’occasione per trasformare l’alleanza atlantica in uno strumento diverso volto a garantire pace e sicurezza nelle “aree calde” dell’emisfero occidentale in collaborazione con la Russia e non contro di essa. In un primo tempo infatti i tentativi di incorporare la Russia in un sistema di coordinamento e stabilizzazione dettero qualche risultato (il G7 per esempio divenne G8 con la Russia) ma non si andò molto oltre per il prevalere a Mosca di un regime sempre più autoritario (elezioni truccate, oppositori imprigionati, stampa imbavagliata, ripudio dello stato di diritto, “superamento” del liberalismo”) che allarmavano i paesi europei, confinanti e non. Peraltro, malgrado il peggioramento delle relazioni, la presenza militare della NATO non ha mai assunto dimensioni tali da potere costituire una minaccia per la Russia essendo le forze armate russe di gran lunga superiori (anche nello spiegamento di armi nucleari). Per di più la NATO, malgrado le incessanti richieste dell’Ucraina e della Georgia (quando la sua sovranità non era ancora stata limitata da Putin; ma nessuno ricorda tale precedente) è stata molto prudente e non ha mai allargato ulteriormente il suo perimetro.
Un altro argomento molto usato dai “giustificazionisti” è quello della neutralità e del disarmo dell’Ucraina come richiesta legittima della Russia. Ma esso rientra in quello più ampio (e di principio) della legittimità di imporre limitazioni alla sovranità di altri paesi, non soltanto nei fatti ma anche formalmente; in proposito si citano i precedenti dell’Austria e della Finlandia dimenticando però che si tratta di due paesi usciti sconfitti dal crollo del nazismo nel 1945 i quali, come avvenne anche per la Germania e l’Italia, non poterono fare valere le proprie ragioni quando i vincitori ne decisero i destini. Per l’Ucraina è diverso, si tratta di legittimare l’uso delle armi per coartare la volontà di un altro popolo. Si chiama guerra (e non è un caso che Putin non voglia definirla tale). Comunque poiché la politica (soprattutto quella internazionale) è fatta di compromessi, alla fine probabilmente i russi riusciranno a imporre una soluzione del genere; ma non viene in mente ai liberali che si tratta di una misura che limitando la libertà degli ucraini di decidere da che parte stare non è compatibile con i principi di autodeterminazione a cui dicono di ispirarsi?
Infine resta l’Europa. Sull’adesione dell’Ucraina all’Unione le obiezioni dei “giustificazionisti” sono più deboli, limitandosi a porre la condizione che il paese a sovranità limitata non entri a far parte di eventuali future forme di integrazione politica e militare. Se proprio l’Ucraina vuole far parte del parlamento europeo faccia pure, purché sia chiaro che prima di votare al Consiglio dei capi di stato e di governo a Bruxelles il governo di Kiev farà bene a consultarsi con Mosca.

Ai “giustificazionisti geopolitici” che teorizzano il diritto dei più forti di ottenere garanzie dai più deboli (invece del contrario, come ogni liberale dovrebbe volere) si aggiungono gli opportunisti, quelli che dicono che non bisogna aiutare la resistenza ucraina perché tanto non può impedire il peggio: meglio arrendersi senza tante storie e smettere di disturbare il nostro quieto vivere. Sono della stessa razza di quelli che non si sono mai schierati, il cui neutralismo è sempre servito a coprire la loro viltà, né coi nazi-fascisti né coi partigiani, né coi terroristi né con lo Stato, sempre grigi, pronti a schierarsi col vincitore e soltanto quando è chiaro chi ha vinto. Ci sono sempre stati, ci saranno sempre, non fanno la storia ma ne condizionano gli sviluppi collaterali. Quando non avranno altri argomenti diranno che non vogliono adeguarsi al pensiero unico. Sono liberali? Se lo fossero io dovrei collocarmi altrove.

P.S. Non ho trattato un’altra specie di “giustificazionisti” quella degli anti-americani “a prescindere”. Sono più numerosi di quanto si crede (anche in America) e sostengono tutte le accuse correnti contro l’egemonia degli Stati Uniti (di cui peraltro profetizzano soddisfatti l’imminente crollo ad opera dei benemeriti cinesi) in quanto portatori di un modello intrinsecamente illiberale perché fondato sulle diseguaglianze strutturali. Ad essi dico soltanto che un liberale, in prima fila nel criticare i difetti del sistema americano, considera l’equilibrio dei poteri che si è consolidato in duecento anni di storia l’esempio più significativo di una cultura liberale realizzata ma se proprio dovessi scegliere tra l’imperialismo americano e quelli che ci propongono Putin e Xi Jinpeng non ho dubbi dove collocarmi. Ma il bello è che non avrebbero dubbi nemmeno gli anti-americani (andandosi a rifugiare in America come hanno fatto i loro progenitori italiani, tedeschi e ebrei).
Conosco l’obiezione: né con gli uni né con gli altri, invece in Europa. Ma allora bisogna farla questa Europa politica e militare; il che ha dei costi non indifferenti. E quando mi volto per arringare questi europeisti del né mi ritrovo solo come Alberto Sordi all’uscita della galleria nel film “Tutti a casa”.

Franco Chiarenza
30 marzo 2022

Caro Franco,

ho letto il tuo “Russia: ieri, oggi, domani” e, nonostante sia un pezzo raziocinante come al solito, trovo abbia una carenza che desidero segnalarTi, convinto che un liberale, anche se ha il vezzo di qualificarsi qualunque, non possa trascurare un aspetto così essenziale per i liberali.

Al punto 3 tu richiami che, secondo gli accordi Helsinki del ’75, “i diritti delle minoranze etniche e linguistiche sarebbero stati tutelati mediante forme di autonomia da concordare“. Poi al punto 5 richiami “un’autonomia speciale alle regioni russofone del Donbass che, per la verità, non è mai stata realizzata“. Ma dal richiamo non trai le conseguenze generali (decisive nella fattispecie), con la parziale giustificazione che era scoppiata una guerra civile sostenuta dai russi. Così nel prosieguo sorvoli sulla mancata concessione dell’autonomia speciale che Putin ha reiteratamente richiesto invano anche la settimana precedente l’inizio delle attuali ostilità militari. Ma questo sorvolare non è accettabile. Primo perché il sostegno dei russi alla guerra civile nel Donbass è presunto (come quello degli ambienti Nato e della CIA dal ’14 in Ucraina o prima nelle primavere arabe o prima in Libia) ed anche successivo (d’altra parte le lotte tra filorussi e ucraini sono un retaggio storico, cioè una volontà dei popoli per usare una tua frase). Secondo perché non riflettere sui passaggi comprovanti gli interessi di Putin, è appunto il difetto di comportamento (che non a caso prescinde dal liberalismo) seguito dalla NATO e dagli ambienti super conservatori degli USA a fatica fronteggiati da Biden (e fatti trasparire con la frase di pochi giorni fa in cui Biden ha contrapposto esplicitamente le sanzioni alla terza guerra mondiale).

Il sorvolare sul dato di fatto della mancata attuazione dell’accordo per l’autonomia speciale, ha la gravissima conseguenza di accettare il ritorno alla guerra fredda, con la contrapposizione tra regime della libertà e regime comunista. E quindi di far riemergere come allora il pericolo della guerra atomica. Oltretutto, essendosi dimostrato nei fatti che la fine della guerra fredda ha prodotto molti vantaggi per la libertà nel mondo.

Il punto pericoloso della carenza in tema di liberalismo, sta qui: agevolare senza battere ciglio il ritorno alla guerra fredda. Non soltanto perché comporta pure il ritorno al rischio atomico. Ma in primo luogo perché esprimere l’idea che il ritorno a quel clima favorisca le democrazie libere. Oggi è l’esatto contrario. Perché sono di più i soggetti con armi atomiche, perché sono di più e maggiormente diffusi i motivi di tensione fatti emergere dalla crescita tecnologica e del livello di vita, perché sono di più i raggruppamenti di paesi attivi a livello internazionale con interessi divaricati. E soprattutto per la questione più importante: salvo i periodi in cui si fa la guerra vera e propria, la libertà vive di conflitti democratici ma non è esportabile (e neppure creabile con interferenze esterne di vario tipo) e deve essere fatta maturare nei luoghi in tensione. Ragion per cui i liberali non stanno a guardare sognando i marchi rispettivamente attribuiti alle varie nazioni, ma si attivano per far sì che i comportamenti reali nelle relazioni tra nazioni differenti siano il meno possibile distanti quelli della libertà. Quindi, se la prospettiva non è quella di voler arrivare alla guerra, aizzare l’opinione pubblica in modo massiccio contro gli stati avversari dipingendoli assalitori perfino al di là del vero e non tenendo conto dei loro espliciti punti di vista, è intrinsecamente illiberale.

Tanto più che i primi dello scorso febbraio a Pechino, nel comunicato stampa congiunto di Xi Jinping e Putin si denunciavano i cinque consecutivi allargamenti della Nato (fatto vero) e si insisteva sulle “legittime richieste per la sicurezza russa”. Dopo questo comunicato, i governi occidentali della NATO e degli USA avrebbero dovuto precipitarsi a premere su Zelensky – che è indiscutibilmente da loro assai influenzato – per indurlo a fare subito quello che non aveva fatto fino ad allora (l’autonomia speciale al Donbass) e a smettere con gli atteggiamenti provocatori funzionali alla guerra con la Russia. Naturalmente questo avrebbero fatto se fossero stati liberali. Ma lo sono esclusivamente a parole. E si comportano con l’esplicito obiettivo di sollevare i russi contro Putin (ma non dovevano essere evitati i tentativi di destabilizzazione negli altri paesi?).

Insomma, la carenza politica da colmare presto è quella dell’accettare l’omettere la cultura liberale. Che si batte senza incertezze contro la politica fatta di pure emozioni e incline alle pratiche illiberali effettive, anche se mascherate altrimenti. L’Ucraina non è un nuovo idealismo democratico e non combatte anche per noi europei (ragionamenti che per alcuni dovrebbero portare all’arruolare volontari per la libertà in Ucraina). Concetti simili appartengono solo alle stagioni di guerra. E occorre che ci decidiamo. O si passa alla terza guerra mondiale (sarebbe una follia che però giustificherebbe tali idee dissennate e illiberali) oppure, restando in pace, ci si comporta in modo coerente non aizzando l’opinione pubblica verso la guerra (tesi della cultura liberale). Perciò i liberali debbono presidiare con fermezza quest’ultima posizione e battersi senza sognare al fine di costruire in tutto il mondo, nel tempo, istituzioni più libere mediante il diffondere la pratica degli scambi nel segno della libertà civile e del senso critico per osservare e scegliere, che negli ultimi secoli ha pure prodotto in concreto un grande sviluppo economico sociale.

Raffaello Morelli

Caro Raffaello,

innanzi tutto ti ringrazio per l’attenzione che hai dedicato al mio scritto e scusami per il ritardo nel risponderti. Confrontarsi tra noi liberali è sempre utile; farlo con te richiede attente riflessioni perchè le tue idee non sono mai banali.
Vengo ai punti di contestazione che mi pare siano sostanzialmente due: la mancata autonomia al Donbass e la campagna anti-russa pregiudizialmente ostile.

Per quanto riguarda il Donbass è innegabile che gli accordi di Minsk prevedevano la concessione di un’autonomia speciale che, di fatto, non è stata nemmeno messa all’ordine del giorno da parte del governo ucraino. Dimentichi tuttavia che la guerra civile era già in corso e non si è arrestata in seguito agli accordi; anche ammesso (e non concesso) che la Russia non fosse già direttamente coinvolta nel conflitto, resta il fatto che esso è servito come pretesto per un’invasione che è andata ben oltre la questione delle minoranze russofone, mettendo in discussione gli stessi accordi di Helsinki sulla intangibilità dei confini. Addirittura Putin ha contestato la stessa legittimità dell’esistenza di uno stato ucraino, malgrado con esso esistessero da molti anni regolari relazioni diplomatiche. Il che fa presumere che altri stati dove vivono minoranze russofone (come i paesi baltici) corrano il rischio di vedere contestata la loro indipendenza. Naturalmente l’appartenenza alla NATO fa la differenza e questo spiega almeno in parte perchè Putin abbia scatenato una guerra preventiva per impedire che l’Ucraina ne seguisse l’esempio.
In effetti questo è il punto geo-politico: ha diritto una grande potenza nucleare di limitare la sovranità di uno stato confinante per garantire la propria sicurezza? Secondo Putin evidentemente sì, ma questa convinzione apre uno scenario inquietante se la sicurezza di uno stato è valutata dal governo del paese che ritiene di essere minacciato. La sicurezza può diventare il pretesto per condizionamenti di altro tipo (politici ed economici per esempio) che di fatto limiterebbero il diritto dei popoli di scegliere il modello di società che preferiscono. E poi in cosa consiste la minaccia alla sicurezza russa? Non certo nelle forze armate ucraine o baltiche; consiste nella NATO e in particolare negli USA che nell’alleanza sono preponderanti. Questo dunque è il vero nodo della questione: la Russia vuole allontanare la NATO dai propri confini perchè la ritiene un’alleanza ostile; ma è lecito il sospetto che il timore di Putin non sia limitato all’aspetto militare (anche perchè le forze schierate sono equivalenti e semmai in favore dell’armata rossa) ma piuttosto coinvolga una sfera di influenza che comprende il sistema politico e i contesti economici e sociali, esattamente come avveniva durante il regime comunista.
E’ quindi comprensibile e legittimo che le nazioni interessate non siano d’accordo e cerchino di difendersi. Quando un paese piccolo ha la sventura di confinare con uno grande che vuole imporre la sua egemonia ha due scelte: o accettarne una sostanziale subordinazione oppure allearsi con una grande potenza alternativa che funzioni da deterrente, come fece infatti (con successo) Fidel Castro quando si alleò con l’URSS per sfuggire alla colonizzazione americana. La resistenza ucraina quindi potrebbe essere spiegata non tanto per mantenere all’interno dei propri confini la Crimea e il Donbas quanto per la volontà di differenziarsi dall’involuzione politica ed economica della Russia.
Putin ha ragione quando sostiene che la cultura russa e quella ucraina hanno molti aspetti in comune; ma non quando ne trae come conclusione che non esista un’identità nazionale ucraina, la quale invece affonda le sue radici nei ruteni che hanno fatto parte per secoli dell’impero asburgico e che, diversamente dai russi, erano prevalentemente cattolici. Fu Stalin, con metodi brutali che ricordano sinistramente quelli che sta utilizzando l’attuale autocrate russo, a stroncare la resistenza ucraina e imporre la “russificazione” del paese.

Per quanto riguarda l’inopportunità di un ritorno alla guerra fredda e al clima di reciproca delegittimazione che l’avevano caratterizzata, posso convenire con le tue preoccupazioni ma rilevo che non si tratta soltanto del risultato di una campagna mediatica occidentale ma di un preciso obiettivo di Putin (da lui chiaramente enunciato) di tornare a una contrapposizione frontale per evitare contaminazioni che contrasterebbero il suo progetto di sperimentare nuove forme di democrazia plebiscitaria in grado di prendere il posto di quelle liberali ormai superate dalla storia (sempre parole di Putin).
Non bisogna dimenticare che la guerra fredda è stata una guerra come tutte le altre, anche se non combattuta sul campo, ed è stata vinta dall’alleanza occidentale anti-sovietica, piaccia o no; il che non poteva non comportare nuovi equilibri nell’Europa dell’Est anche per rispondere a una pressante richiesta di quei governi liberamente eletti, i quali nella dimensione economica dell’Unione Europea e in quella militare della NATO intendevano tutelare la loro sicurezza che non era certo minacciata dagli americani. Oppure conta soltanto la sicurezza della Russia che in realtà viene spesso confusa con quella del regime di Putin?

Non ho difficoltà ad ammettere che dopo la caduta del sistema comunista sovietico la NATO (e quindi pure noi) perse l’occasione di trasformare l’alleanza in un patto di non aggressione e di sicurezza che garantisse stabilità anche a contesti geo-politici in fase di trasformazione (Medio Oriente, Africa, ecc.). Il presupposto di tale nuova Alleanza però non poteva che essere l’accettazione dei principi di uno stato di diritto liberal-democratico (che nulla ha a che fare con l’esportazione della democrazia) almeno al proprio interno; se il progetto fallì fu responsabilità degli opposti estremismi con cui i liberali purtroppo devono sempre fare i conti.
Vi furono errori da parte della Nato? Certamente, a cominciare dall’infelice intervento contro la Serbia dopo l’implosione della Federazione Jugoslava. Ma non possono essere usati in nessun modo per giustificare quello che Putin sta facendo in Ucraina.
Se accettiamo il principio della liceità di interventi armati a tutela della propria presunta sicurezza si aprirebbe un vaso di Pandora incontrollabile: la Turchia di Erdogan contro i curdi, l’Iraq contro gli sciti, India contro Pakistan, Cina per riprendersi Taiwan. Anche noi potremmo schierare le nostre armate contro la Slovenia per riprenderci Capodistria e fare una guerra preventiva contro il Tirolo per difendere gli italiani di Bolzano! Il che guasterebbe i miei progetti di villeggiatura nel Renon.

Cordiali saluti

Franco

PS Naturalmente sarò lieto di pubblicare sul mio blog la tua lettera con la mia risposta. F.

Antonio era figlio di Gaetano Martino, il professore gentiluomo messinese che è stato negli anni ’50 ministro degli Esteri e finchè visse dirigente rispettatissimo del partito liberale. A lui si deve quella conferenza di Messina tra i ministri degli Esteri europei che rilanciò il processo della costruzione europea bloccato dalla bocciatura della CED e che nel 1957 portò ai trattati di Roma e alla creazione della Comunità Economica Europea, primo embrione dell’Unione. Di lui ho un ricordo piacevole per la sua capacità di ascolto quando cercava di stemperare i nostri ardori di giovani liberali anti-malagodiani e per la tranquilla saggezza in cui ritrovavo il meglio di una classe dirigente meridionale colta e paziente.
Antonio Martino fu eletto deputato nel 1993, ereditando naturalmente la base elettorale del padre, ed è stato anch’egli esponente importante del PLI al cui interno ha sempre rappresentato la componente di destra, divenuta minoranza durante le segreterie di Valerio Zanone e Renato Altissimo. Una posizione che derivava anche dai suoi studi economici e dalla condivisione delle teorie neo-liberiste di cui fu sempre convinto sostenitore. Nel breve periodo in cui anch’io feci parte della direzione centrale del partito (1988/89) mi trovai a condividere alcune sue posizioni critiche nei confronti della segreteria e mi chiese cosa mi spingesse ad appoggiare Altissimo. Gli risposi che anche se era vero che entrambi criticavamo la posizione attendista e troppo filo-governativa del partito (anche quando i voti del PLI non erano più determinanti per la maggioranza) io lo facevo per dare ai liberali una libertà di movimento che consentisse di intercettare un elettorato sempre più inquieto in cui affioravano preoccupazioni che il PLI avrebbe potuto rappresentare (ambientalismo, laicismo, rigore contro la corruzione, distanziamento dalla invadenza partitocratica, ecc.) mentre lui pensava alla creazione di un grande partito liberal-conservatore in grado di costituire un’alternativa all’alleanza tra cattolici e socialisti che stava paralizzando la dialettica politica del Paese.

Ho ricordato questo episodio perchè, meglio di tante analisi politologiche, esso spiega perchè Antonio Martino sia stato un convinto sostenitore di Silvio Berlusconi quando, con la sua discesa in campo si crearono le condizioni per la creazione di “Forza Italia” (di cui infatti orgogliosamente rivendicava la tessera n.2). La speranza di stemperare le evidenti propensioni populiste del leader ha sempre accompagnato la sua carriera successiva nei governi Berlusconi come ministro degli Esteri (1994/1995) e della Difesa (2001/2006). Emarginato di fatto dai settori in cui avrebbe potuto meglio esprimere le sue competenze (che erano soprattutto economiche), ha mantenuto compostamente il ruolo di rappresentare la faccia pulita di quello che poi si sarebbe trasformato in un partito personale, autocratico nella sua conduzione, con tratti profondamente illiberali nell’azione politica. Resta la sua testimonianza di gentiluomo, la sua ironia, il suo senso dello Stato. Le sue scelte d’altronde erano state quelle di una gran parte del vecchio gruppo dirigente del PLI; con lui condivisero l’illusione di un grande “partito liberale di massa” personaggi autorevoli come Alfredo Biondi, Giuliano Urbani, Marcello Pera, Raffaele Costa, Gianfranco Ciaurro, Antonio Marzano e molti altri.

Franco Chiarenza
8 marzo 2022

Che nell’opinione pubblica emergano posizioni diverse nei confronti del blitz di Putin che di fatto sta annettendo alla Russia una parte dell’Ucraina non stupisce e rientra in una sana dialettica democratica. Anche perchè, come sempre in politica, non mancano argomenti validi per i favorevoli quanto per i contrari. Stupisce di più trovare tra coloro che difendono l’operato della Russia alcuni amici liberali. Soltanto per questa ragione ritengo necessario fare un po’ di chiarezza nella mia qualità di componente della tribù dei “liberali qualunque”.

  1. La guerra in corso si svolge su due piani distinti che si intersecano ma non vanno confusi: c’è un conflitto tra stati in cui una grande potenza sta cercando di sopraffare e di annettersi un paese confinante e che si esprime attraverso un duro scontro militare, e c’è una contrapposizione ideologica tra una concezione autoritaria dello Stato e quella opposta articolata in un sistema liberal-democratico. Non sempre i due piani coincidono: ci sono fautori del populismo autoritario anche nell’Unione Europea (Polonia, Ungheria), oggi silenti ma pronti a riemergere, e ci sono (per fortuna) convinti democratici anche in Russia (repressi con durezza dal regime). I liberali non possono nelle loro valutazioni non tenere conto che lo scontro ideologico è più importante di quello tra forze armate nazionali. Come d’altronde avvenne anche nella seconda guerra mondiale.
  2. Le rivendicazioni storiche di Putin non rappresentano quindi il punto della questione; inutile addentrarsi in una discussione sul patriarcato di Kiev, sulla linea di confine tra russofoni e autoctoni (sostanzialmente ruteni), sulle infinite modifiche territoriali e etniche prodotte da secoli turbolenti caratterizzati da antiche ambizioni egemoniche della Russia ma anche dai tentativi ricorrenti di molti popoli slavi di staccarsi dalla “Grande Madre”. Se dovessimo rifarci alla storia apriremmo un contenzioso infinito che coinvolgerebbe anche il nostro Paese dove esistono minoranze di lingua tedesca (Alto Adige) e che è stato privato di territori certamente in prevalenza italofoni come l’Istria del Litorale, alcune città della Dalmazia, e, cedute alla Francia per ragioni e modalità diverse, la città di Nizza e la stessa Corsica (dove la lingua ufficiale si rifaceva alla lunga dominazione dei pisani e dei genovesi.). E’ tipico delle dittature appoggiare le proprie mire espansioniste e egemoniche a rivendicazioni etniche superate dalla storia (e infatti hanno rappresentato per Hitler e Mussolini il pretesto per scatenare la seconda guerra mondiale).
  3. Per queste ragioni che riguardano quasi tutti i paesi europei vennero sottoscritti anche dall’Unione Sovietica nel 1975 a Helsinki degli accordi che stabilivano l’inviolabilità dei confini stabiliti dopo la seconda guerra mondiale, giusti o sbagliati che fossero, e che i diritti delle minoranze etniche e linguistiche sarebbero stati tutelati mediante forme di autonomia da concordare (come noi abbiamo fatto per l’Alto Adige). Putin non lo nega ma sostiene che tali accordi sono stati violati dalla Nato in occasione del conflitto in Bosnia e col riconoscimento del Kosovo sottratto nel 2008 alla sovranità serba. Il che è vero ma senza dimenticare che la complessa vicenda dello smembramento della Jugoslavia generò una vera e propria guerra che durò anni e che non si è mai completamente risolta; e comunque è stata gestita col coinvolgimento delle Nazioni Unite.
  4. Altrettanto irrilevanti sono le motivazioni fondate sull’”accerchiamento” della NATO che non ci sarebbe mai stato se le popolazioni confinanti (e non soltanto i loro governi) non temessero le mire egemoniche della Russia, ben a ragione considerando le vicende storiche del secolo scorso quando i carri armati soffocarono brutalmente ogni tentativo di riforma. Per essere credibili nel sostenere che l’odierna Russia è cosa diversa dall’URSS bisognerebbe non ricalcarne l’autoritarismo e le mire egemoniche condensate mirabilmente nella teoria brezneviana della “sovranità limitata” dei paesi confinanti.
  5. Dopo l’annessione della Crimea (russofona) con gli accordi di Minsk la Russia si era impegnata a rispettare la sovranità dell’Ucraina, in cambio di un’autonomia speciale alle regioni russofone del Donbass che, per la verità, non è mai stata realizzata, anche perché in esse era subito scoppiata una guerra civile sostenuta dai russi.
  6. Putin ha ragione quando lamenta che gli equilibri in Europa dopo la fine della guerra fredda si sono modificati a favore degli occidentali; dimentica però di dire che tali cambiamenti sono stati condivisi e sollecitati dalle popolazioni dei paesi ex-satelliti e che, venuta meno la giustificazione ideologica staliniana, la sicurezza della Russia è largamente garantita dal suo “status” di potenza nucleare e da un apparato militare perfettamente in grado di impedire eventuali attacchi alla sua indipendenza, da qualunque parte provengano.
  7. Ciò di cui non parlano i sedicenti liberali in cerca di giustificazioni per l’azione russa – quasi si trattasse di questione secondaria – è la volontà delle popolazioni coinvolte in questo conflitto. Quanto contano le intenzioni e i propositi degli abitanti dei paesi confinanti, chiamati in realtà a scegliere non tanto tra gruppi etnici differenti ma tra modelli politici e sociali tra loro incompatibili quali sono oggi quello europeo occidentale e il sistema politico instaurato a Mosca? La sicurezza che chiede Putin riguarda la Russia o non piuttosto il suo regime autocratico e repressivo ?
  8. Oggi – piaccia o no a Putin – l’Europa liberal-democratica arriva fino al confine russo. E’ un diritto inalienabile degli ucraini decidere se farne parte, come a suo tempo hanno fatto liberamente lituani, lettoni, estoni e polacchi. Il timore di Putin probabilmente non è legato alla sicurezza militare (dove la sua superiorità sul campo è schiacciante) ma alle possibili contaminazioni che potrebbero minare il suo regime come avvenne quando si dissolse l’Unione Sovietica.
  9. La Russia deve fare oggi le scelte che non fece in passato. Se consolidare un modello di democrazia plebiscitaria guidata da un autocrate, secondo una tradizione collettivista di matrice orientale che tiene poco conto dei diritti individuali (a cominciare da quello di manifestare il proprio dissenso) oppure tornare a imboccare la strada della costruzione di uno stato di diritto compatibile con quello che caratterizza le democrazie liberali occidentali. La scelta autocratica avvicinerà la Russia alla Cina pseudo-comunista, l’altro percorso la riporterebbe in Europa con la quale diverrebbe possibile realizzare forme di cooperazione anche intense e risolvere in modo pacifico ogni conflittualità con i paesi adiacenti.

Infine due ultime considerazioni:

  1. i rapporti tra Europa e Russia sono sempre stati caratterizzati dalla consapevolezza della loro inevitabile interdipendenza; ma mentre la Russia ha bisogno dell’Europa per modernizzare le sue strutture economiche e sociali, non è vero il contrario. L’Europa ha bisogno della Russia soltanto per le risorse energetiche di cui dispone e tale dipendenza potrà essere sostituita da fonti alternative in un periodo relativamente breve, avendo gli stati europei risorse e tecnologie in grado di farlo. Gli esiti della seconda guerra mondiale hanno favorito la creazione di un’area atlantica euro-americana (con appendici importanti nel Pacifico) molto più omogenea nelle strutture economiche e sociali e nelle relazioni culturali di quanto non sia l’unità geografica dell’Europa “fino agli Urali” come un’ importante corrente di pensiero avrebbe desiderato (da Pietro il Grande a De Gaulle). Si tratta di una realtà irreversibile, soprattutto per noi liberali. Stalin (assai più di Lenin) aveva concepito il comunismo sovietico come un sistema chiuso e autoreferenziale da salvaguardare da qualsiasi contaminazione liberale, militarmente in grado di difendersi da qualsiasi attacco esterno. Dopo la breve parentesi di Krusciov (il quale invece immaginava una capacità competitiva del sistema sovietico in termini di sviluppo economico e sociale) l’URSS è tornata a chiudersi come in una fortezza assediata senza riuscire, malgrado il suo potenziale di risorse naturali, a costituire una reale alternativa al modello delle democrazie occidentali, fino a implodere anche simbolicamente col crollo del muro di Berlino. Il dilemma della Russia post-sovietica consiste appunto se tornare alla concezione staliniana della “fortezza assediata”, oppure aprire un dialogo con l’Occidente. Il quadro geo-politico però non è più quello in cui operava l’Unione Sovietica: oggi bisogna fare i conti con la Cina, il cui regime totalitario, diversamente da quello russo, è stato capace di inventare un modello economico espansivo in grado di contrastare il sistema di contenimento liberal-democratico che – analogamente a quanto fu fatto in Europa – gli Stati Uniti avevano messo in piedi in Oriente per arginare il comunismo cinese. Non c’è spazio per un terzo incomodo: il futuro della Russia si gioca su questa opzione, o con le democrazie europee (trovando un accomodamento con gli Stati Uniti) oppure con la Cina;
  2. i rapporti economici tra Italia e Russia sono sempre stati buoni anche durante la guerra fredda. Ma essi non possono riguardare soltanto valutazioni di convenienza economica, anche se la dipendenza energetica rende assai fragile la nostra posizione contrattuale; tolto l’approvvigionamento di gas il nostro interscambio commerciale è piuttosto modesto comparato a quello di altri paesi europei. La teoria business is business comporta necessariamente il mantenimento di relazioni commerciali con paesi autoritari e illiberali (come per esempio l’Egitto, la Cina, l’Iran, l’Arabia ecc.); ma la Russia affaccia in Europa e i problemi di sicurezza riguardano chi è militarmente debole (come noi) non certo una potenza nucleare come quella che Putin ha ereditato dall’Unione Sovietica.

Qualcuno ha proposto: Biden voli a Mosca, si sieda al lungo tavolo che Putin riserva agli ospiti che non vogliono sottoporsi a tamponi e gli proponga un trattato di non aggressione e la creazione di una fascia di sicurezza con i paesi confinanti (che comprenda però anche i territori russi adiacenti) con reciproci controlli. Sarebbe ragionevole se il problema fosse davvero quello della sicurezza russa, ma è davvero così? O piuttosto la vera intenzione di Putin è di ricostruire la “cortina di ferro”, ideologica prima che militare, con o senza il consenso delle popolazioni interessate?

Franco Chiarenza
27 febbraio 2022

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella davanti al Parlamento in seduta comune per la cerimonia di giuramento
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Non c’è che da scegliere: da destra a sinistra passando per i talk show apparentemente neutrali è tutto un fiorire di lamentazioni sulla incapacità dei partiti, sulla loro inarrestabile crisi, sullo “spettacolo indecoroso” offerto dai mille grandi elettori, sui ritardi incompatibili con una seria democrazia, e chi più ne ha più ne metta. Dall’alto dei miei anni (pari a quelli di Mattarella) resto un po’ stupito e divertito. Scopriamo adesso che i partiti – almeno nel formato ideologicamente compatto di cinquant’anni fa – sono in crisi? E, dopo avere inveito contro la partitocrazia che toglieva autonomia ai rappresentanti del popolo, adesso che è successo ce ne lamentiamo? E quante volte l’elezione del presidente della Repubblica è avvenuta attraverso accordi di segreteria? Pochissime, mi pare. Tempi lunghi? Uno dei presidenti più popolari della storia repubblicana – Sandro Pertini – fu eletto alla sedicesima votazione. Ho l’impressione – ma forse sbaglio io – che le cose siano andate diversamente da come la raccontano tanti commentatori ed esperti delle vicende politiche.

Facciamo il gioco alla rovescia. Qual era il vero problema politico che rendeva importante questa elezione più di quanto sia avvenuto in passato? Il fatto che la presenza di Draghi era indispensabile per la sopravvivenza del governo – nessun altro essendo in grado di prenderne il posto con la stessa autorevolezza – e che quindi non era opportuno trasferirlo da palazzo Chigi al Quirinale. Molti giornalisti si sono lasciati influenzare dalla disponibilità espressa da Draghi ma in realtà si trattava soltanto di una mossa tattica che serviva a portare allo scoperto le manovre di chi voleva affossarlo non come candidato al Quirinale ma come inquilino di palazzo Chigi; il silenzio di Letta, il blocco degli astenuti, preludevano a un chiarimento definitivo sul governo non sulla presidenza della Repubblica. La manovra infatti ha messo in gravi difficoltà Salvini il quale da un lato non voleva lasciare alla Meloni il monopolio della rappresentanza degli umori populisti e sovranisti (per i quali personalmente ha molta simpatia) ma dall’altra doveva tenere conto del cosiddetto “partito dei governatori” (Zaia, Fontana, e Fedriga, con Giorgetti dietro le quinte) schierato nettamente a favore dell’orientamento filo-europeo e filo-atlantico del governo.
Ma se Draghi era indispensabile a palazzo Chigi (almeno per ora) chi al Quirinale? Qualcuno che presumibilmente non lo tenesse occupato per l’intero settennato e che desse garanzie di continuità con la politica di Mattarella. E chi meglio di Mattarella stesso?
La verità è che sulla sua riconferma erano tutti d’accordo, salvo la Meloni che vedeva così naufragare il suo progetto di affondare Draghi ricattando Salvini e conseguire il duplice obiettivo di fare fallire il PNRR e andare a elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale che gli consentirebbe di assicurare a una destra egemonizzata da Fratelli d’Italia la maggioranza nel nuovo parlamento. C’era però un problema che riguardava la persona di Mattarella, non tanto per i suoi scrupoli costituzionali quanto per la necessità di spiegare all’opinione pubblica che l’opzione della riconferma nasceva da una impossibilità di trovare altre soluzioni condivise.
Per questa ragione Letta e Salvini (con Letta zio, cioè Gianni come arbitro?) hanno giocato a porte chiuse una partita di ping pong rimbalzandosi candidature reciprocamente inaccettabili. La Meloni l’aveva capito e candidando la Casellati (e poi la Belloni) cercava di mettersi di traverso; tuttavia la presidente del Senato era per molte ragioni impresentabile (ed è stata infatti cecchinata all’interno del centro-destra) e la Belloni era troppo poco conosciuta per rappresentare una candidatura credibile (e tuttavia si trattava di una mossa abile che non a caso Renzi ha cercato subito di “sterilizzare” con l’accusa pretestuosa della sua permanenza nei servizi segreti).
Fallita la manovra della Meloni, Salvini ha fermato l’ascensore col quale stava salendo da lei a metà strada e invece di imboccare il suo ufficio si è ritrovato in quello di Letta per l’ accordo definitivo.

Fantapolitica? Forse soltanto politica che da sempre passa anche attraverso espedienti tattici purché funzionali alle finalità strategiche (che in questo caso investono il futuro del Paese che non lo sa ma è davanti a un bivio: o con Macron e Scholz verso l’integrazione europea o con Orban e Kaczynski verso la sua dissoluzione).

Naturalmente la storia non finisce qui: Mattarella non potrà restare al Quirinale per altri sette anni, lo sanno tutti a cominciare da lui. Il problema si riproporrà quindi tra un anno. Dopo le elezioni, dicono i soliti “quirinalizi”. Ma, mi permetto di osservare, perché mai? Se l’obiettivo sarà a quel punto di portare Draghi finalmente in sicurezza in cima al Colle, meglio farlo con questo parlamento dove esiste un’obiettiva convergenza sull’opportunità di garantire attraverso la sua persona le relazioni con l’Europa e le alleanze internazionali piuttosto che correre il rischio di nuovi rapporti di forza che potrebbero scaturire dal prossimo parlamento. Non vi pare? Oppure sto confondendo i miei desideri con una realtà del tutto diversa?

Franco Chiarenza
06 febbraio 2022