Un indecoroso balletto sta accompagnando il triste tramonto della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia costituita da Giovanni Malagodi nel 1962 e presieduta negli anni da personalità prestigiose come Gaetano Martino, Vittorio Badini Confalonieri, Franco Mattei, Ruggiero Moscati, Giancarlo Lunati, Valerio Zanone e Roberto Einaudi.
Fino ad oggi sono rimasto testimone attento e silenzioso nella speranza che un’istituzione prestigiosa alla quale avevo dedicato molti anni della mia esistenza arrivasse a un definitivo chiarimento, qualunque fosse. Adesso, anche per rispondere ai tanti amici e conoscenti che me lo chiedono, ho deciso di esprimere pubblicamente il mio pensiero ricordando sinteticamente cosa la Fondazione è stata in passato e perché ogni soluzione diversa dal suo scioglimento sarebbe impropria e non auspicabile.

Posta in liquidazione con una delibera dell’assemblea dei soci alla fine del 2014, riesumata l’anno successivo da un consiglio d’amministrazione falcidiato dalle dimissioni, rilevata dalla Fondazione Lucio Piccolo nel 2016 in cambio di una patrimonializzazione mai avvenuta, la Fondazione Einaudi di Roma era stata finalmente dichiarata estinta dalla competente prefettura nel luglio di quest’anno. Ma dopo l’estate, accogliendo un ricorso, la prefettura è tornata sui suoi passi concedendo una proroga in attesa che le ipotesi di ricapitalizzazione – sempre annunciate e mai realizzate – trovino finalmente conferma. Nel frattempo, non essendo in condizione nemmeno di pagare l’affitto, la Fondazione è stata trasferita dalla sede storica di largo dei fiorentini in un appartamento a Monte Mario messo a disposizione da una loggia massonica, i dipendenti sono stati licenziati, gli archivi e la biblioteca non sono consultabili per mancanza di personale, le attività si limitano alla presentazione di libri. La “marcia indietro” della prefettura è quindi difficilmente comprensibile: vero è infatti che con una sede concessa ad uso gratuito e la completa mancanza di personale dipendente le spese sono state azzerate ma è altrettanto vero che tale stato di cose impedisce alla Fondazione di svolgere i suoi compiti istituzionali che non sono certo quelli di trasformarsi in un circolo di affiancamento massonico. Rimane inoltre la contraddizione della mancanza di un patrimonio in grado di rappresentarne il presupposto legale. Si resta in attesa, come in una telenovela di cattiva qualità, di conoscere come sarà finalmente effettuata la sospirata “ripatrimonializzazione” (su cui insiste anche la prefettura), quale sarà il progetto culturale su cui la Fondazione dovrà stabilire le priorità operative (sempreché continui l’attività) e chi saranno i nuovi soci sostenitori che dovrebbero consentirle di resuscitare. In ogni caso è triste constatare come intanto la Fondazione abbia compromesso il patrimonio di prestigio e di credibilità che l’aveva accompagnata in passato, aggirandosi ormai come un ingombrante fantasma nel labirinto delle tante istituzioni culturali che si richiamano al liberalismo.

Le origini
Il 30 ottobre 1961 moriva Luigi Einaudi. Pochi mesi dopo Giovanni Malagodi costituiva la Fondazione a lui intitolata con l’intento di raccoglierne e rilanciarne la testimonianza politica e fornire al contempo un robusto inquadramento ideologico al partito liberale, alla cui ricostituzione dopo la guerra Einaudi (come Croce) aveva contribuito.
L’eredità politica di Einaudi andava ben oltre la semplice riaffermazione di un generico liberalismo. Lo statista piemontese aveva elaborato negli anni, anche attraverso le proprie variegate esperienze personali, una concezione del liberalismo capace di tenere insieme la grande tradizione del liberismo anglosassone, gli insegnamenti della scuola austriaca di Mises e Hayek, e l’idealismo liberale italiano di Benedetto Croce. Per questo il suo pensiero, articolato in una quantità di scritti che attraversavano quasi un secolo di storia italiana, parve a Malagodi il più adatto a disegnare un modello di società che, tenendo conto delle specificità italiane, si ispirasse alle nuove sensibilità sociali emerse dal manifesto di Oxford sottoscritto nel 1948 dai partiti e movimenti liberali di tutto il mondo. Un liberalismo quindi lontano dalle asprezze di un capitalismo incontrollato e capace invece di regolare l’economia di mercato liberandolo da quei “lacci e lacciuoli” corporativi e burocratici che più volte anche Guido Carli aveva denunciato.
Nacque con tali finalità ed obiettivi la Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia con sede in Roma; da non confondere con quella quasi omonima di Torino costituita poco tempo dopo per gestire la grande biblioteca di Luigi Einaudi e che aveva trovato ospitalità nel prestigioso palazzo d’Azeglio messo a disposizione dalla Fiat.
Nel 1984 la Fondazione modificò il proprio statuto sciogliendo i legami (peraltro già molto attenuati) di affiancamento al partito liberale, assumendo una connotazione indipendente da ogni militanza politica, ulteriormente ribadita e rafforzata nel 2002.

Le iniziative
Molto ha fatto la Fondazione nei suoi cinquant’anni di vita per diffondere la cultura liberale, guadagnandosi un meritato prestigio; negli ambiti più diversi essa si è confrontata con i ritardi e le inerzie delle nostre istituzioni mediante iniziative che sono sempre state riconosciute di livello elevato e per questo meritevoli di attenzione da parte di ogni settore della cultura politica ed economica.
Il suo Comitato Scientifico è stato per molti anni presieduto dall’economista Domenico Da Empoli e si deve anche al suo impulso il conseguimento di successi importanti, a partire dall’assegnazione di molte borse di studio a studenti meritevoli che hanno poi svolto ruoli importanti nell’economia, nella politica, nell’università e nel mondo della comunicazione.
Particolare attenzione fu dedicata sin da principio ai problemi dell’economia a partire, negli anni ottanta, dalla prima presentazione in Italia della teoria della public choise (con la prestigiosa partecipazione del suo ispiratore, il premio Nobel James Buchanan) cui hanno fatto seguito altre iniziative che hanno approfondito le trasformazioni dell’economia di mercato man mano che la globalizzazione andava dispiegandosi risolvendo problemi secolari ma anche sollevando perplessità per le conseguenze di taluni effetti collaterali. Convegni, seminari, ricerche, in cui si sono impegnati molti giovani studiosi che alla Fondazione hanno legato i loro primi successi: tra gli altri Salvatore Carrubba, Angelo Maria Petroni, Giuseppe Vegas.
Nel 1995 la Fondazione, precipitata in uno stato di inerzia per vicissitudini finanziarie ormai lontane persino nel ricordo, stava per essere cancellata anche dai contributi pubblici. Poi, col decisivo impulso di Valerio Zanone che ne era divenuto presidente, gradualmente ma con decisione essa si è rimessa in piedi realizzando nuovi progetti, trasferendo la sede dai locali prestigiosi ma angusti di palazzo Fiano a San Lorenzo in Lucina in un appartamento più comodo in un edificio che fa parte del complesso edilizio dei Sacchetti in largo dei fiorentini, rivitalizzando la direzione scientifica con l’apporto decisivo di Giovanni Orsina, al quale va riconosciuto il grande merito di avere valorizzato gli archivi storici (e in particolare quello di Malagodi), stabilendo rapporti di collaborazione con altre associazioni e fondazioni liberali (tra cui la Fondazione Cortese di Napoli e il Centro Einaudi di Torino), favorendo la creazione e le attività dell’Associazione Amici della Fondazione nella speranza che per suo tramite si potessero convogliare nuove risorse umane e finanziarie.
Le tematiche affrontate negli anni successivi sono state numerose e non è questa la sede per enumerarle dettagliatamente. Ne ricordo alcune particolarmente importanti, cominciando dalla questione della compatibilità del federalismo (tanto popolare in quegli anni) con la tradizione politica del liberalismo italiano, trattata nel 1999 con ricerche che per la prima volta ne hanno analizzato costi e benefici al di là di pregiudiziali ideologiche che trasformavano un problema storico che risaliva al Risorgimento in una rissa caratterizzata da luoghi comuni e approssimazioni. Le presentazioni della ricerca di base a Torino e a Roma costituirono un vero successo con la partecipazione di personaggi importanti dell’economia, delle imprese e delle istituzioni. La ricerca fu seguita da una significativa integrazione in cui venne approfondito il ruolo che veniva ad assumere la Capitale con il suo hinterland in un eventuale contesto federale; anche la sua presentazione fu occasione di serrato dibattito a cui parteciparono il Sindaco, i presidenti della Regione e della Provincia e molti rappresentanti della politica e della società civile.
I problemi della comunicazione e dell’informazione, cruciali per la cultura liberale in un momento in cui trasformazioni spettacolari ne cambiavano radicalmente le modalità di impiego e di diffusione, sono stati affrontati alla fine degli anni ’90 con varie iniziative culminate nei primi anni del 2000 con un ciclo triennale di seminari realizzati a Napoli in collaborazione con la Fondazione Cortese e l’Università Suor Orsola Benincasa. Incontri assai diversi dai consueti convegni-passarella dove gli invitati arrivano, dicono frettolosamente la loro, e se ne vanno spesso senza nemmeno ascoltare opinioni diverse; i seminari infatti, intitolati “L’informazione come condizione di libertà”, erano preparati da linee-guida elaborate da un ristretto gruppo di lavoro (costituito da docenti ed esperti della storia e della comunicazione) che nelle sessioni pubbliche venivano sottoposte a un ampio confronto cui partecipavano interlocutori impegnati direttamente nella gestione dei mass-media. Si superavano in tal modo le generiche asserzioni di principio sulla libertà di informazione e sul suo ruolo portante nelle democrazie liberali per affrontare i problemi concreti del sistema di informazione nel nostro Paese.
Sarebbe stato un campo immenso su cui attuare altri percorsi di ricerca (che furono anche tentati con la costituzione a Firenze di un gruppo di lavoro interdisciplinare coordinato da Gilberto Tinacci Mannelli) ma purtroppo mancarono le risorse e negli anni successivi non si andò oltre l’organizzazione di un convegno annuale – peraltro molto apprezzato – in cui veniva presentato un rapporto di aggiornamento sull’evoluzione delle tecnologie digitali realizzato dagli amici di Italmedia Consulting; un appuntamento ospitato non casualmente dalla Federazione Nazionale della Stampa al quale partecipavano sempre i massimi rappresentanti dei principali mass-media pubblici e privati e dove non mancava mai un intervento dell’ Authority della Comunicazione (AGCOM) e di un rappresentante del Governo al massimo livello.
Dei problemi della scuola in senso specifico la Fondazione non si è occupata molto, con mio grande rammarico; vanno comunque ricordate alcune iniziative culminate nel 1997 in un grande convegno dove venne riesumata (inutilmente) la proposta di Einaudi di sopprimere il valore legale dei titoli di studio.

Opef
Una delle iniziative più originali, anche se apparentemente estranea agli ambiti di ricerca che la Fondazione si era data, è stata la costituzione di un osservatorio per le politiche energetiche ed ambientali (OPEF). Ambiente ed energia non hanno mai rappresentato in passato un punto centrale della sensibilità dei liberali storici (come non lo fu per altre culture politiche del secolo scorso). Soltanto da pochi decenni i problemi della tutela ambientale, strettamente associati alla questione energetica, sono apparsi determinanti per il futuro dell’umanità, anche se certe tendenze estremiste di alcuni movimenti “verdi” allarmavano i liberali che hanno visto in esse emergere un pericoloso integralismo che, prendendo a pretesto l’emergenza ambientale, potrebbe facilmente degenerare nella negazione di alcuni fondamentali diritti individuali. Che tuttavia il problema di una più consapevole tutela ambientale fosse reale non era più da mettere in dubbio e che con esso la cultura liberale dovesse fare i conti era un fatto incontestabile. Da questa constatazione, da una felice intuizione di Marcello Inghilesi e dal sostegno di Massimo Romano, nacque l’OPEF il quale nel corso di un decennio ha sviluppato molti temi specifici soprattutto attraverso l’organizzazione di “laboratori” che hanno consentito, lontano da clamori mediatici e speculazioni elettoralistiche, a tutti i soggetti interessati di confrontarsi senza contrapposizioni strumentali e sbandieramenti ideologici. Intorno al tavolo (quasi sempre nella splendida sede dell’ABI in palazzo Altieri) si sedevano amministratori pubblici, esperti, banchieri, imprenditori pubblici e privati, rappresentanti delle Autorità di garanzia dei diversi settori. Una formula che permetteva scambi di informazioni e l’allacciamento di sinergie lasciando la politica politicienne fuori dalla porta, salvo confrontarsi con essa in occasione di convegni pubblici che per la concretezza delle proposte hanno registrato sempre grande interesse e ai quali hanno partecipato i protagonisti del settore energetico italiano ed europeo (in uno di essi intervenne il commissario per l’energia dell’Unione Europea). Ma quando – essendo divenuto presidente della Fondazione Mario Lupo – si tentò il “colpo grosso” di trasferire questa attività in una iniziativa di ancor maggiore visibilità da realizzare con la LUISS, facendola finanziare dall’industria petrolifera ed elettrica, si commise l’errore di abbandonare l’esperienza precedente col risultato inevitabile che i sogni di grandezza rimanessero tali mentre vennero meno i più modesti “laboratori” che pure si erano dimostrati utili e costruttivi.

L’associazione degli amici
L’Associazione degli amici della Fondazione venne costituita nel 1997 con tre principali finalità: innanzi tutto aprire la partecipazione a singole persone (va ricordato infatti che i soci della Fondazione erano prevalentemente enti privati e pubblici, come la Banca d’Italia, e fondazioni bancarie come la Compagnia di San Paolo di Torino e la Fondazione Banco di Sicilia, imprese e comunque soggetti collettivi). In secondo luogo per raccogliere risorse finanziarie crowdfunding che potessero in qualche misura compensare la riduzione dei contributi pubblici. Infine per gestire iniziative sul territorio come corsi di formazione, convegni su problemi d’attualità, e presentazioni di libri.
In tale contesto l’Associazione ha organizzato – anche per conto della Fondazione – moltissime presentazioni e incontri tra cui vanno ricordati quelli che, con grande successo, si sono svolti nello splendido Oratorio del Gonfalone su temi di attualità con la partecipazione di personalità di primo piano del mondo politico ed economico.
Un’altra importante funzione affidata all’Associazione, che operava in piena autonomia e aveva propri organi dirigenti, era quella di sostenere le “scuole di liberalismo” che da tempo venivano organizzate da Enrico Morbelli, e che hanno coinvolto centinaia di giovani in diverse città (Roma, Milano, Torino, Parma, Bologna, Napoli, Bari, Lecce, Sulmona, Catanzaro, Messina, Palermo).
La formula era (ed è tuttora) molto semplice: ogni corso consisteva mediamente in una quindicina di lezioni tenute da personalità della cultura liberale (talvolta anche prestigiose); i frequentanti che lo desideravano potevano concorrere attraverso l’elaborazione di tesine scritte all’assegnazione di modesti premi in danaro messi a disposizione da sponsor volontari (tra cui in passato la stessa Fondazione Einaudi) oppure fruire della possibilità di frequentare i corsi estivi dell’IES in alcune università europee (per esempio Aix en Provence, Gummersbach). Le scuole di liberalismo hanno consentito – soprattutto nel periodo che seguì la contestazione studentesca degli anni ‘60 – una diffusione dei principi liberali al di fuori dei canali istituzionali (scuole, università) troppo spesso egemonizzati da culture politiche ed economiche ostili al liberalismo. Per questo è sembrato opportuno ad alcuni di noi mantenerle in vita sottraendole alle recenti e inquietanti vicissitudini della Fondazione trasformando l’Associazione degli Amici della Fondazione Einaudi in Associazione Scuola di Liberalismo. In tal modo le scuole di liberalismo, sotto la direzione del “sempregiovane” Enrico Morbelli, continuano a svolgere la loro attività.

Imparzialità
Dopo avere definitivamente reciso nel 1984 i legami col partito liberale la Fondazione ha sempre rifiutato di appoggiare schieramenti politici ed elettorali pure quando in qualche modo si richiamavano alle dottrine liberali. Così fu per il centro-destra, dove pure militavano personalità importanti del mondo liberale come Antonio Martino, Alfredo Biondi, Giuliano Urbani, Marcello Pera, e per il centro-sinistra in cui per un certo periodo si riconobbero Valerio Zanone, Raffaello Morelli, il gruppo di Critica Liberale. La barra della Fondazione rimase sempre ancorata al centro, non tra i diversi schieramenti ma al di sopra di essi, “una scelta – come recita una solenne dichiarazione del suo consiglio d’amministrazione del 2002 – non di neutralità ma di imparzialità: non di neutralità perché la Fondazione ha il suo fondamento ed orientamento nella cultura liberale, ma di imparzialità perché la cultura liberale, per gli stessi connotati che la distinguono, non conduce ad opzioni partitiche predeterminate”.
In piena coerenza con tali principi nel 2007, quando decise di impegnarsi politicamente nell’Ulivo (centro-sinistra), Valerio Zanone lasciò la presidenza della Fondazione che aveva mantenuto per diciassette anni. Gli succedette Roberto Einaudi, nipote diretto di Luigi. La sua presidenza fu caratterizzata da un’impresa straordinaria, quella di realizzare e portare in giro per l’Italia una grande mostra sulla figura di suo nonno, attraverso la cui vita era possibile ripercorrere la storia del nostro Paese nella prima metà del secolo XX. Il suo successo fu significativo dimostrando l’esistenza di una sensibilità liberale diffusa che andava ben oltre le contrapposizioni strumentali cui il liberalismo era stato sottoposto nel contesto italiano. La mostra fu inizialmente allestita al palazzo del Quirinale e inaugurata dal presidente Napolitano con un discorso molto importante perché segnò la definitiva presa di distanza dal suo passato comunista e il pieno riconoscimento della validità del pensiero liberale che negli scritti e nelle azioni di Luigi Einaudi trovava la sua migliore configurazione; un atto di onestà intellettuale che va riconosciuto. La mostra fu poi riallestita a Milano, Torino, Napoli e Ravenna. Difficoltà finanziarie e organizzative impedirono che continuasse il suo itinerario, ma comunque il segno che essa ha lasciato, soprattutto tra i giovani che l’hanno visitata in numero sorprendente, è stato importante.

La crisi
Da un certo momento in poi la Fondazione aveva cominciato ad avere serie difficoltà economiche. Il problema non era soltanto suo ma, quale più quale meno, di tutte le associazioni e fondazioni culturali, malgrado esse rappresentino in uno stato moderno quel tessuto connettivo della partecipazione che sin dai tempi di Tocqueville è considerato il fondamento di una democrazia liberale. Le cause di questa progressiva asfissia sono molte e tra queste possiamo menzionare innanzi tutto la diminuzione drastica dei finanziamenti pubblici (perché quando si tratta di tagliare le spese le prime vittime sono sempre le entità culturali). Il che di per sé non sarebbe un male se fosse accompagnato dal varo di una legislazione in grado di incoraggiare soggetti privati a finanziare la cultura (anche quella politica ed economica) attraverso adeguati vantaggi fiscali; ma diventa esiziale quando ciò non avviene.
Un’altra ragione – forse anche più importante – è legata al venir meno delle identità ideologiche su cui le fondazioni di cultura politica si erano prevalentemente costituite. Le loro specificità sono venute attenuandosi e il brodo, a forza di allungarsi, è diventato troppo omogeneo ed insipido, per cui molte di esse hanno finito per rappresentare soltanto strumenti di ricerca storica delle proprie matrici originarie e di conservazione degli archivi provenienti soprattutto dai protagonisti della prima repubblica. In questo quadro si comprende perché – in assenza di progetti di ricerca autenticamente innovativi e proiettati sul futuro – venisse meno l’interesse delle imprese e delle banche a impegnarsi finanziariamente nei confronti di strutture che avevano perso la capacità di analizzare i cambiamenti sociali e di proporre soluzioni innovative da immettere nel circuito del confronto politico. In un paese – come il nostro – disinteressato alla propria storia e in cui la politica procede con aggiustamenti di basso profilo senza essere mai in grado di superare l’ordinaria amministrazione, ogni tentativo di andare oltre la contingenza e di prospettare scenari di lungo termine è destinato a perdersi in una prassi riduttiva, miope quanto cinica, dove la regola dominante sembra essere quella attribuita a Luigi XV: après moi le dèluge.

Eppure non mancavano i grandi temi su cui la cultura liberale – soprattutto nel nostro Paese – doveva confrontarsi e cercare convergenze orizzontali che prescindessero dagli schieramenti politici tradizionali. Era su questi che la Fondazione doveva focalizzare i suoi sforzi anche per connotarsi come laboratorio prestigioso dell’evoluzione del pensiero liberale. Penso, per esempio, a una riforma liberale della giustizia che elimini i tribunali amministrativi o quanto meno ne riduca le competenze e soprattutto attui finalmente la separazione delle carriere e delle funzioni nella giustizia penale, alla delegificazione e alla riduzione della presenza pubblica per allineare la nostra società ai modelli funzionali delle democrazie nordiche e anglosassoni. Problemi da risolvere anche attraverso una coraggiosa riforma della Costituzione legittimata da un’assemblea costituente eletta esclusivamente a questo fine in modo da non confondere la normale dialettica politica tra maggioranza e opposizione con la ricerca di intese condivise sulle regole del gioco. Sembrava che su ognuno di questi temi le convergenze non mancassero ma ogni volta che la Fondazione cercava di affrontarli senza le cautele dovute alle corporazioni che presidiano lo status quo, quegli stessi amici che ci avevano incoraggiato hanno prudentemente preferito restare nel vago o addirittura scomparire. E senza convergenze e mezzi finanziari ogni iniziativa rischiava di trasformarsi in una giostra donchisciottesca contro i mulini a vento.

Lupus in fabula
Di fronte alle crescenti difficoltà finanziarie, dopo le dimissioni di Roberto Einaudi dalla presidenza, il consiglio d’amministrazione decise nel 2011 di affidare la Fondazione a Mario Lupo, un manager di lungo corso il quale, proprio per l’esperienza acquisita, pareva in grado di raccogliere le risorse necessarie per rilanciarla o quanto meno consentirne la sopravvivenza. Purtroppo, malgrado l’impegno profuso dal nuovo presidente, l’obiettivo non venne raggiunto e non è questa la sede per ricordare le ragioni del dissenso che portò me e Marcello Inghilesi a dimetterci dalla vice-presidenza; ma va detto che, al di là dei metodi di gestione, la questione di fondo restava la mancanza di una strategia in grado di creare un’immagine identitaria chiaramente percepibile mentre si procedeva invece nell’accattonaggio di qualche inutile ricerca su cui lucrare modesti margini. Sta di fatto che gli SOS della Fondazione cadevano regolarmente nel vuoto; finché si parlava di teoria e si facevano aulici appelli alla carenza di una cultura liberale tutto andava bene, quando si passava agli aspetti più concreti, tutti si voltavano dall’altra parte.
Fu allora – nel 2014 – che si profilò un possibile “salvataggio” da parte di un “cavaliere bianco”, che peraltro nel caso specifico assumeva indubbie tonalità azzurre; si trattava infatti di Silvio Berlusconi il quale, consapevole del deficit di cultura politica che caratterizza ancora oggi una parte rilevante della dirigenza di centro-destra, con evidenti conseguenze di dilettantismo, incompetenza, subordinazione agli inganni burocratici, debolezza nei confronti internazionali, e chi più ne ha più ne metta, deluso come può esserlo chi ha avuto in mano le carte migliori e non ha saputo giocarle, aveva “scoperto” tardivamente che la destra vince le elezioni ma non ha la cultura politica per governare. Su tale ipotesi di salvataggio, perseguita da Mario Lupo pur sapendo come essa avrebbe trasformato radicalmente la natura stessa della Fondazione (destinata probabilmente a diventare una scuola di formazione per quadri dirigenti di Forza Italia), i consiglieri d’amministrazione e i soci più importanti si divisero. Per alcuni di noi (Zanone,Einaudi, Inghilesi, Ortis, e altri) la Fondazione, con cinquant’anni di storia alle spalle, non poteva prestarsi a questa manovra; non soltanto perché contravveniva palesemente a un indirizzo che essa aveva posto a fondamento della sua stessa ragion d’essere ma anche perché – a nostro avviso – Berlusconi e il suo movimento politico non potevano essere considerati parte del pur variegato contesto culturale che si richiama al liberalismo: populismo, demagogia, culto del leader, rifiuto dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, ambiguità sulla laicità delle istituzioni, non appartengono alla cultura liberale, ma semmai al conservatorismo nazional-popolare. Il progetto comunque fallì perché Berlusconi si tirò indietro, forse anche per l’opposizione di alcuni importanti esponenti del centro-destra come Paolo Romani e Renato Brunetta. Pare che Giorgia Meloni, allora ancora nel berlusconiano “Popolo della libertà”, abbia esclamato: “Ma che c’entriamo noi con Einaudi?”.
E aveva ragione.

Epilogo (provvisorio)
La storia della Fondazione ha avuto un epilogo sconcertante di cui molti portano la responsabilità. Dopo il fallimento dell’ipotesi berlusconiana tutta la vecchia guardia (Zanone, Einaudi, Da Empoli, Inghilesi) e i soci più prestigiosi (Banca d’Italia, Compagnia di San Paolo ed altri minori) sostennero che l’unica soluzione onorevole fosse ormai rappresentata dallo scioglimento della Fondazione che infatti fu deliberato dall’assemblea dei soci alla fine del 2014. Ma Mario Lupo, e con lui la maggioranza di un consiglio d’amministrazione decimato dalle dimissioni, pur di evitarne la chiusura ritenne invece di dovere accettare l’offerta di una fondazione siciliana intitolata al poeta Lucio Piccolo; offerta che sin dall’inizio si presentava quanto meno discutibile considerando che la fondazione proponente non si occupava di problematiche affini, non aveva disponibilità liquide certe per onorare gli impegni che andava assumendo e non forniva alcuna adeguata garanzia. In breve l’avvocato Giuseppe Benedetto si trasferì dalla presidenza della Fondazione Piccolo a quella della Fondazione Einaudi, un’assemblea improvvisata avallò l’operazione, i soci più prestigiosi uscirono, Roberto Einaudi si dimise protestando (Valerio Zanone era nel frattempo morto, non senza esprimere pochi giorni prima la sua contrarietà).
I nuovi dirigenti, malgrado l’immissione di quadri giovani che apportarono inizialmente un interessante contributo di idee (senza peraltro risolvere i problemi di fondo della Fondazione), tentarono un rilancio che non andò lontano in assenza di una patrimonializzazione (o anche soltanto di adeguati finanziamenti). Il rifiuto di Giuseppe Benedetto di mettere a disposizione la presidenza per consentire su nuove basi il rilancio della Fondazione con il sostegno di una cordata di imprenditori e professionisti milanesi ha provocato uno scontro interno tra gli “occupanti” provenienti dalla Fondazione Piccolo (Benedetto, Giacalone, Pruiti Ciarello) e i fautori della “svolta” (tra i quali lo stesso Lupo, presidente onorario per norma statutaria); ne è conseguita un’epurazione dei dissenzienti (con modalità abbastanza sconcertanti) e l’abbandono di molti tra quanti avevano sperato di fare rivivere la Fondazione (tra gli altri Giovanni Orsina, che aveva accettato di presiedere il Comitato Scientifico, Lorenzo Castellani, che era stato nominato segretario generale, Piero Paganini, Enrico Morbelli, Saro Freni, Gianmarco Brenelli).
Una danza macabra sullo scheletro di un’istituzione che meritava di concludere i suoi giorni in maniera più dignitosa.

Mi sono chiesto il perché di tanto accanimento che certo non può essere attribuito a uno sviscerato amore per la Fondazione e la sua storia essendone il presidente Benedetto, il vice-presidente Giacalone (di chiare origini lamalfiane), l’avvocato Priuti Ciarello, rimasti in passato sempre estranei; la sola risposta che ho trovato è che gli attuali occupanti intendano trasformare la Fondazione in un soggetto partitico, perno di improbabili avventure elettorali. A confermare le mie supposizioni è giunta puntualmente la costituzione di un mini-partito, LiberItalia, – appoggiato formalmente dalla Fondazione – che si propone di affrontare la competizione elettorale.
Cui prodest?

Franco Chiarenza
20 ottobre 2017

P.S. Cinquant’anni di storia non si possono ridurre in poche pagine. Chiedo scusa quindi per le tante omissioni – specialmente per quanto riguarda le iniziative della Fondazione – che in questo scritto sono state inevitabili. Esse peraltro, insieme a inesattezze che molti dei protagonisti potranno contestarmi, non tolgono valore all’insieme del quadro che ho voluto tracciare per dare, soprattutto a chi non ha vissuto la nostra esperienza, il senso complessivo di ciò che ha rappresentato nel contesto delle culture politiche del dopoguerra la Fondazione Luigi Einaudi di Roma. E perché, nell’impossibilità di mantenerne il livello qualitativo, sia preferibile sancirne la definitiva cessazione. Parce sepulto.

L’opinione pubblica italiana (me compreso) che aveva accolto con soddisfazione le esplicite aperture europeiste del nuovo presidente francese è rimasta senza parole. La tanto temuta Marine Le Pen non avrebbe potuto fare peggio: prima l’inutile sgambetto all’Italia convocando a Parigi i duellanti libici che si sono lasciati con un accordo sulla carta da attuarsi in primavera dell’anno prossimo e di difficilissima realizzazione, poi la nazionalizzazione dei cantieri navali di Saint Nazaire dopo che la Fincantieri ne aveva acquisito l’anno scorso il 67% delle azioni dal fallimento della sudcoreana STX (la quale le aveva comprate molti anni prima senza alcuna opposizione da parte del governo francese). Una nazionalizzazione che sarebbe stata più comprensibile se l’acquirente non fosse stato un partner europeo, ma che si tinge in questo caso di un protezionismo nazionalista in antitesi non soltanto alle dichiarazioni d’intenti di Macron ma anche alla politica di apertura ai capitali europei (e soprattutto francesi) che l’Italia ha perseguito nell’ultimo decennio.
Anche il brutale respingimento di poche decine di immigrati che avevano varcato il confine a Ventimiglia rientra in questo quadro di malcelata ostilità verso l’Italia di cui non si comprendono le ragioni rappresentando esso una vera e propria retromarcia rispetto alla carta d’identità che il presidente francese aveva esibito prima di essere eletto e che oltretutto rischia di provocare effetti collaterali di lunga durata anche per le future strategie europee. Se infatti tra la fine dell’anno e l’inizio del 2018 dovesse davvero avviarsi un processo di unificazione tra i paesi del “nocciolo duro” dell’Europa con cessioni di sovranità in campo militare e di coordinamento finanziario, attizzare un clima nazionalistico d’antan appare controproducente e porta acqua al mulino degli oppositori del progetto.

En attendant
E’ ancora presto per trarre da queste prime mosse maldestre conclusioni definitive sulla capacità di Macron di rappresentare una leadership di dimensioni europee; non sempre è vero (almeno in politica) che la giornata si vede dal mattino.
Il governo Gentiloni ha reagito bene: mentre i rispettivi ministri si scambiavano battute al vetriolo, il presidente del consiglio e il ministro dell’Economia, pur non nascondendo il fastidio e la delusione, si sono mantenuti su una prudente posizione di attesa; a loro spetterà in sostanza l’ultima parola se si cercherà un’intesa al massimo livello. La Commissione Europea, che pure in materia avrebbe qualcosa da dire, per ora tace; il segretario del partito democratico invece purtroppo parla cercando di mettersi in competizione nazional-demagogica con il governo francese minacciando la nazionalizzazione di Telecom (di cui virtualmente la francese Vivendi ha ormai assunto il controllo). Ancora una volta invadendo le competenze del governo e mettendo in difficoltà Gentiloni. Ma la politica non è una partita di “monopoli”; qualcuno dovrebbe spiegarlo al “segretario fiorentino” il quale potrebbe forse utilmente rileggere gli insegnamenti del suo lontano predecessore che si chiamava Machiavelli.

Intanto però la vecchia Unione burocratizzata e accusata di inefficienza e incapacità di rappresentare gli autentici valori europei si muove mettendo in discussione l’evoluzione giuridica e costituzionale della Polonia e dell’Ungheria, sempre più tentate ad avvicinarsi al modello di “democrazia autoritaria” di Putin, e insistendo per la ricollocazione dei profughi che affollano l’Italia e la Grecia. Anche con la Gran Bretagna le trattative continuano e la Commissione di Bruxelles non sembra voler lasciare spazio a iniziative bilaterali. La Corte di giustizia, da parte sua, nel respingere interpretazioni forzate della convenzione di Dublino ribadisce tuttavia che i cambiamenti, quando si rendono necessari, si fanno modificando i trattati non cercando di aggirarli; una conclusione che, se in apparenza mette in difficoltà l’Italia, in prospettiva potrebbe rafforzarne la posizione negoziale all’interno dell’Europa.

 

Franco Chiarenza
31 luglio 2017

La cosiddetta “roulette russa” è, come è noto, un tragico gioco che consiste nello spararsi alla tempia con una pistola a tamburo a sei colpi e un solo proiettile; se si è sfortunati e parte il colpo è la fine. L’elezione di Trump presentava per i repubblicani rischi analoghi; bisognava solo capire delle tante vulnerabilità del nuovo presidente quale sarebbe esplosa prima: l’imprevedibilità del personaggio, il suo “entourage” (anche familiare), le posizioni ambigue e contraddittorie che avevano caratterizzato la sua campagna elettorale, l’ostilità dei mezzi di informazione in un paese dove la stampa indipendente ha sempre esercitato un forte controllo sul potere esecutivo non lasciavano molti margini. Ma il colpo è partito dove meno era prevedibile, il cosiddetto “Russiagate”.

La guerriglia fredda
Il fatto che il governo russo avesse influito sulle elezioni presidenziali sviluppando un sistema di fakenews in grado di delegittimare la candidata democratica era stato inizialmente percepito come possibile, anche fastidioso, ma non determinante. Ma gli sviluppi delle inchieste che si sono susseguite sugli stretti rapporti tra alcuni collaboratori di Trump e personaggi dell’amministrazione russa sono andate a toccare un nervo sempre scoperto dell’opinione pubblica americana, quello di contenere le pretese egemoniche del Cremlino in Europa e in Oriente; una “guerriglia fredda” che ha continuato a trascinarsi dopo la fine del sistema sovietico e che ha trovato nuovo alimento nell’arbitraria annessione della Crimea e nei tentativi di limitare la sovranità dell’Ucraina. Se davvero la Russia ha aiutato Trump (anche finanziando alcuni suoi collaboratori) quale sarebbe stato il prezzo da pagare?
Trump aveva ingenuamente pensato, mal consigliato forse da Bannon, che gli Stati Uniti avrebbero potuto facilmente ritirarsi dal ruolo di “gendarme della democrazia” nel mondo praticando una politica di spartizione delle rispettive egemonie con la Russia. Ciò avrebbe permesso a Trump di realizzare quel sogno isolazionistico che dovrebbe consentire all’America di “fare da sé” risolvendo tutti i problemi economici attraverso politiche protezionistiche variamente calibrate. A Putin, che dalla globalizzazione ha tutto da temere, una linea politica siffatta sarebbe andata benissimo, anche perché lasciando scoperta un’Europa debole e divisa riapriva le possibilità di creare un’egemonia sul Vecchio Continente o almeno su una parte di esso.
Ma questa strategia, al di là di ogni valutazione ideologica, presentava due incognite che non hanno tardato a manifestarsi: l’ostilità di una larga parte dei repubblicani eredi dell’antica politica kissingeriana del contenimento della potenza russa, e la nuova realtà della Cina la quale, forte di uno sviluppo capitalistico senza precedenti, al contrario della Russia ha puntato tutte le sue carte sulla globalizzazione. C’erano poi, nella strategia di Trump, altri effetti collaterali che non avrebbero mancato di fare sentire la loro influenza: i rapporti col Giappone, le reazioni europee, le divergenze col Canadà (oltrechè naturalmente col Messico).

Il birillo
E’ cominciata allora la continua oscillazione del presidente dilettante. Il rapporto preferenziale con Putin si è rotto e il Congresso lo ha obbligato a firmare l’inasprimento delle sanzioni alla Russia, la tanto disprezzata Europa è stata improvvisamente richiamata alla sua funzione di partnership all’interno dell’alleanza atlantica, la politica prudente di Obama in Medio Oriente è stata sostituita da un interventismo che ricorda i precedenti di Bush in Iraq, i componenti del suo staff salgono e scendono senza una chiara direttiva strategica, il segretario di Stato Tillerson sembra muoversi in totale autonomia, e perfino sulla revoca della contestata riforma sanitaria promossa dai democratici non si è trovato un accordo e l’Obamacare potrebbe restare in funzione ancora a lungo.
Quanto Trump riuscirà a resistere in queste condizioni è difficile prevedere; ma potrebbe arrivare prima del previsto il giorno in cui, ripetendo la celebre frase di Cicerone, qualcuno si leverà nel Campidoglio americano domandando: quousque tandem abutere, Donald, patientia nostra?

 

Franco Chiarenza
25 luglio 2017

La difficile questione degli immigrati non si risolve a colpi di cannone né verbali né sparati da navi da guerra; la partita va giocata con attenzione e tenendo conto dei rapporti di forza, delle coincidenze elettorali, delle sensibilità identitarie (talvolta minoritarie ma esibite con grande vigore contando sulla complicità dei media). Gentiloni e Minniti la stanno giocando bene, forti anche del fatto che Renzi in questo caso non li disturba più di tanto, ben felice se sarà questo governo di transizione ad accollarsene onori ed oneri (soprattutto questi ultimi).
Minniti sta cercando di mettere ordine nel caos delle prime accoglienze, delle ong, delle identificazioni, che rappresentano l’impegno italiano più importante e su cui il governo si gioca la propria credibilità nelle altre capitali europee.
Gentiloni da parte sua con una serie di mosse azzeccate ha ottenuto due risultati molto importanti: rimettere in primo piano la questione e condizionare l’adesione italiana a future integrazioni alla “europeizzazione” del problema della ricollocazione (a questo sono serviti gli incontri trilaterali con Merkel e Macron). Di più: il problema della Libia è tornato in evidenza con un significativo cambiamento di rotta. Non si parla più di improbabili governi libici unitari ma si tratta con chi c’è, rafforzando Serraj a Tripoli e cercando di comprare la collaborazione delle tribù che controllano il Fezzan da dove transitano in gran parte i profughi provenienti dai paesi sub-sahariani. Anche in questo caso l’intesa con Francia e Germania è necessaria per evitare che il sostanziale “protettorato” che si cerca di realizzare non venga percepito come un’azione unilaterale dell’ex-potenza coloniale.
In questa situazione in movimento la minaccia di respingere dai nostri porti le navi che non battono bandiera italiana (come la maggioranza delle ong) ha una valenza più psicologica e mediatica che realistica ma serve ad allarmare le opinioni pubbliche del resto d’Europa e spingerle a un’attenzione che finora era mancata. La vecchia idea di Renzi – riproposta forse per non sentirsi escluso – di non pagare più i contributi all’Europa se non verranno effettuati i ricollocamenti deliberati dalla Commissione Europea, appare semplicistica e irrealizzabile considerando i tempi e le procedure che i trattati prevedono per sanzionare i paesi inadempienti; peraltro le procedure di infrazione nei confronti di alcuni stati sono partite e suscitano il dovuto allarme in Ungheria, Cechia, Slovacchia, anche perché il crescente clima di ostilità tra le istituzioni comunitarie e la Turchia, ormai avviata sulla strada di un autoritarismo che lascerà sempre meno spazio alla libertà di espressione e all’attività politica degli oppositori, potrebbe preludere al venir meno del contenitore turco che fino ad oggi ha salvato l’Europa balcanica da una massiccia immigrazione da est.
In questo quadro si inserisce l’improvvisa richiesta americana all’Italia affinché svolga un ruolo più attivo – anche militare – per riportare l’ordine in Libia; sicuramente improvvisata e approssimativa come ormai ci sta abituando l’amministrazione Trump, essa significa tuttavia che il supporto strategico americano non verrà meno se, in altri modi e con altri mezzi, i paesi europei interessati alla stabilizzazione del Mediterraneo condurranno fino in fondo un’azione comune per fermare in Africa i flussi migratori. E soprattutto per riportare il problema dell’Africa e del suo sviluppo al centro della nostra attenzione perché – al di là di ogni ragione morale – è nel nostro interesse.

 

Franco Chiarenza
15 luglio 2017

Renzi ha faticosamente conquistato il controllo quasi assoluto del partito democratico ma si trova in mano una macchina che non sa bene come guidare e verso quali obiettivi indirizzare; né serve a dare qualche indicazione in proposito il suo libro che si presenta più come una resa dei conti rancorosa ed egocentrica piuttosto che un serio progetto per la nazione come ci si sarebbe aspettati.
Dispiace dirlo ma Renzi continua a deludere e mostrare purtroppo una mediocrità forse congenita ad alcuni tratti negativi della sua personalità e quindi difficilmente correggibile; lo dico con angoscia perché il fallimento di Renzi è una sciagura per il Paese, un’occasione perduta che non cesso di rimpiangere.

I modelli circostanti
La vittoria di Macron in Francia, anche per le dimensioni che l’ha caratterizzata, lo ha disorientato; convinto che il vento anti-europeo fosse irresistibile si trova davanti a una reazione orgogliosa che attraversa il Vecchio Continente e che si esprime attraverso le difficoltà della Brexit, le elezioni olandesi e francesi, il riposizionamento dell’Austria, l’attesa di una probabile vittoria della Merkel in Germania che rimetterebbe in moto il processo di integrazione europea.
Il successo, anche in termini di consenso mediatico e diplomatico, del governo del suo successore a palazzo Chigi, ha rappresentato un altro elemento di sorpresa; Gentiloni dimostra che si può fare molto senza eccitazioni esibizionistiche, senza roboanti annunci in dimensioni twitter, senza atteggiamenti “mussoliniani” (certamente inconsapevoli ma purtroppo frequenti) del genere “noi contro tutti, li ridurremo a pezzi, dovranno venire a patti”, tanto più ridicoli provenendo da un partito lacerato che stenta a governare un paese in gravissime difficoltà.
L’arresto (anche se non ancora il ridimensionamento) del successo dei Cinque Stelle, certamente non per merito del PD ma piuttosto per demerito di alcuni improvvisati governanti che Grillo ha portato ad amministrare importanti città, dimostra che un movimento senza una chiara strategia alternativa sulle grandi scelte che attendono il Paese (integrazione europea, fisco, giustizia, investimenti infrastrutturali, scuola e università, riduzione dei “lacci e lacciuoli” che strangolano l’economia, autonomia degli enti locali, riforme istituzionali) non riesce a trasformare un consenso basato sul discredito della classe politica in proposta di governo.
La possibilità di un Macron italiano è improbabile. Ma le incertezze di Renzi potrebbero aprire al centro dello schieramento politico uno spazio (equivalente almeno a quello che coprì Monti con la sua sciagurata decisione di partecipare alla gara elettorale) sufficiente a determinare le future alleanze di governo, soprattutto se si voterà con un sistema sostanzialmente proporzionale. Uno spazio che sarebbe in gran parte ottenuto a spese del PD.

Le alleanze
Il problema delle alleanze, infine, viene gestito in maniera approssimativa e personalistica. Vale come esempio la ricostruzione che Renzi fa nel suo libro sulla fine del “patto del Nazareno”. Racconta infatti Renzi che la scelta di Mattarella per la successione di Napolitano al Quirinale fu una reazione rabbiosa al fatto che Berlusconi e D’Alema avessero trovato un accordo sul nome di Amato. Uno statista non misura i fatti in relazione a problemi di suscettibilità ma valutandoli per quel che rappresentano in rapporto alla strategia che si vuole attuare; la scelta di Amato, per varie ragioni (competenza giuridica, esperienza di governo, capacità di mediazione, formazione politica laica e socialista), sarebbe stata più compatibile con il progetto di riforma istituzionale che lo stesso Renzi aveva immaginato (vedi il programma della Leopolda) e che rappresentava l’obiettivo del patto tra maggioranza e opposizione. Non è da escludere inoltre che avrebbe facilitato e migliorato il testo della nuova Costituzione.
Oggi il problema si ripropone perché – a numeri invariati – nessuno avrà la maggioranza per governare con l’attuale legge elettorale. Bisognerà quindi nuovamente fare i conti con l’oppositore più disponibile che – per molte ragioni – continua ad essere Berlusconi. Tutti l’hanno capito, sarebbe meglio esporsi proponendo un patto di unità nazionale con pochi ma chiari obiettivi per la prossima legislatura, piuttosto che ripetere il gioco – ormai consunto – di chiedere all’elettorato un mandato in bianco da utilizzare secondo le convenienze.

Che fare?
Il vero problema di Renzi è l’anti-renzismo. I suoi atteggiamenti, la sua arroganza, invece di attirargli consensi lo hanno messo nelle stesse condizioni in cui si trovò a suo tempo Berlusconi: costringere la politica italiana a misurarsi sulla sua persona invece che sui problemi del Paese. Per cui già vediamo che il cemento che tiene insieme le sinistre (da Pisapia a Bersani con i relativi seguiti) è soltanto l’anti-renzismo, i sindacati hanno ritrovato una precaria unità sulla pregiudiziale anti-renziana, una possibile alleanza tra l’estrema sinistra e Grillo sarebbe anch’essa fondata sostanzialmente su un’avversione condivisa nei confronti del leader del PD, il centro-destra non avrebbe alcun interesse a spezzare tale condizione di isolamento, e all’interno della stessa maggioranza renziana si avvertirebbero inevitabilmente i primi scricchiolii.
Naturalmente in tale contesto il coinvolgimento del padre di Renzi nello scandalo CONSIP e la questione Boschi – al di là dell’effettiva consistenza degli addebiti e dei sospetti – non contribuisce a risollevare l’immagine dell’ex-premier e rende facile l’azione di delegittimazione portata avanti con spregiudicatezza dai Cinque Stelle.
Per salvarsi Renzi dovrebbe fare il contrario di quello che fa. A cominciare dal sostegno al governo Gentiloni che – al di là delle parole – tutti percepiscono come forzato e condizionato da una voglia di tornare a palazzo Chigi per imporre le “sue” soluzioni; nessuno ha dimenticato l’”Enrico stai sereno” che preannunciò la brutale liquidazione di Letta. Questa volta però sarebbe diverso e non è detto che finirebbe come allora. La proposta di risolvere il deficit strutturale del nostro bilancio modificando il trattato di Maastricht, al di là dei suoi discutibili contenuti (perché ancora una volta sposta il problema sugli altri invece di fare i conti con noi stessi), per il modo in cui è stato espresso e per provenire dal capo della maggioranza che sostiene il governo, è servita soltanto a mettere in difficoltà Gentiloni e Padoan (del quale va sottolineata la gelida risposta: “riguarderà il futuro governo”). Anche le forzature sul cosiddetto “ius soli”, un problema davvero trascurabile per le sue reali conseguenze ma indecorosamente ammantato da ragioni di civiltà assolutamente indimostrabili, rientrano nel disegno di mettere in difficoltà Gentiloni. Forse anche nella speranza di costringerlo alle dimissioni e anticipare le elezioni. Un disegno che però potrebbe trovare proprio al Quirinale ostacoli prevedibili.
L’unica cosa quindi che Renzi dovrebbe fare è proprio quella che per il suo temperamento non sa fare: stare fermo. Quando ero giovane circolava una battuta molto volgare: se stanno per mettertelo nel di dietro meglio restare immobili; ogni movimento facilita il compito di chi ci sta provando.

P.S. Sto leggendo una interessante biografia dell’ultima imperatrice della Cina, la famosa Cixi. Di fronte alle ingiunzioni arroganti e offensive dei plenipotenziari inglesi e francesi in cui però erano contenute precise richieste sull’apertura della Cina alla libertà di commercio e misure per la modernizzazione del Paese, rispondendo alle reazioni indignate dei suoi cortigiani l’imperatrice replicò che gli occidentali “non avevano tutti i torti. Quando Hart (un inglese che lei stessa aveva posto a capo delle dogane con grandi vantaggi) suggerisce di adottare i metodi occidentali per l’estrazione mineraria, la cantieristica navale, la produzione di armi e l’addestramento militare” ha sostanzialmente ragione. La forma poco importava perché “rendere forte la Cina è il solo modo per garantire che i Paesi stranieri non entrino in conflitto e ci guardino dall’alto in basso”.
Chi ha orecchie per intendere

 

Franco Chiarenza
10 luglio 2017

Il dibattito politico italiano è ossessionato dalla ricerca di una presunta purezza originaria che si sarebbe perduta. A sinistra si invoca il dire “qualcosa di sinistra”, a destra si lamenta la mancanza di una destra apertamente reazionaria; ed entrambi gli estremismi attribuiscono gli insuccessi elettorali, l’aumento dell’astensionismo, il successo di un movimento moralistico ideologicamente neutrale come quello di Grillo, al fatto che destra e sinistra non sono più chiaramente identificabili.
In realtà le cose non stanno come gli irriducibili reduci di antiche contrapposizioni di sistema vorrebbero. E, da un punto di vista liberale, non si tratta di un’evoluzione negativa ma, al contrario, di un processo di evoluzione che rimette il sistema di governo al servizio dell’individuo e delle sue scelte; riduce gli spazi di militanza e di delega fiduciaria e aumenta la variabilità dei risultati elettorali in funzione della maggiore o minore capacità di intercettare i punti di vista delle diverse componenti della popolazione. Si tratta di un fenomeno che riguarda tutte le democrazie occidentali ma che in Italia sta soltanto adesso manifestandosi in misura massiccia per il discredito che i partiti sono riusciti ad accumulare nel tempo.
L’errore che le maggiori forze politiche italiane (di centro sinistra e di centro destra) commettono consiste nella convinzione che per contrastare questa tendenza sia sufficiente inseguire affannosamente le preoccupazioni più rumorosamente evidenti che emergono (magari attraverso discutibili talk show che pretendono di rappresentarle) proponendo soluzioni confuse e demagogiche, spesso espresse da slogan ingenui ed infantili (quando non addirittura bizzarri), i quali dovrebbero indurre masse di elettori sprovveduti ad affidarsi ancora una volta alle loro cure. Una strategia perdente che non tiene conto dei cambiamenti avvenuti nella società e della più elevata capacità critica di settori crescenti della pubblica opinione, spesso silenziosi ma in attesa soltanto di qualche ancoraggio affidabile come quello che in circostanze assai simili si è prodotto in Francia con Macron.
Bisognerebbe fare il contrario: una forza politica che si candida al governo dovrebbe presentare un progetto complessivo ispirato da finalità ultime in cui sia ancora possibile scorgere origini storiche e culturali differenziate ma dove la soluzione dei problemi più immediati trovi una proposta convincente e concretamente realizzabile, tenendo conto dei limiti oggettivi entro i quali può effettivamente svolgersi oggi l’attività di governo (qualunque sia il soggetto politico chiamato a svolgerla).

Su generiche propensioni alla solidarietà sociale piuttosto che alla conservazione degli equilibri esistenti non si possono fondare scelte credibili di governo. Le priorità che incidono sulle preoccupazioni più diffuse sono in realtà tra loro conflittuali. Il contrasto alla disoccupazione non passa attraverso generiche e fumose “politiche del lavoro”, ma piuttosto nel realizzare riforme strutturali che rendano attrattivi gli investimenti nei settori produttivi. Tali riforme però comportano un ridimensionamento e una maggiore efficienza della burocrazia, l’eliminazione di vincoli corporativi ancora massicciamente presenti, investimenti pubblici nelle infrastrutture, diminuzione della litigiosità nella giustizia amministrativa, razionalizzazione degli apparati di sicurezza, distinzione dei ruoli e delle carriere nella giustizia penale, riforma degli studi superiori e universitari che riporti il nostro sistema formativo a livelli di credibilità in Italia e all’estero. Lo sappiamo da tempo che queste sono le priorità; perché non vengono mai affrontate o – peggio – quando lo sono con risultati così mediocri? E’ semplice (ma non si vuole dire). Perché qualsiasi soluzione davvero radicale e risolutiva comporta “morti e feriti”, cioè urta contro interessi diffusi, resistenze sindacali, privilegi acquisiti, indolenze inconfessabili. Ognuno vorrebbe cambiamenti radicali per gli “altri” ma nessuno è disposto ad accettarne per se stesso. Le dirigenze dei partiti quindi, pur consapevoli della necessità di compiere cambiamenti radicali, ne temono le conseguenze elettorali e affrontano i problemi con provvedimenti parziali, attenuati, sostanzialmente inidonei alla loro soluzione. Vale per la destra come per la sinistra.

Occorre fare come Macron. Dire con chiarezza (talvolta persino con spavalderia) cosa si vuole fare, senza alcuna concessione a chi la pensa diversamente, e sulla propria “agenda” di governo chiedere il consenso; le mediazioni – se saranno necessarie – verranno dopo e comunque saranno realizzate partendo da una posizione di forza incontestabile. Se non si fa così non se ne esce, in Italia come in Europa. Un’Europa che deve affrontare – possibilmente unita – grandi sfide planetarie che si chiamano Africa, Medio Oriente, rapporti commerciali con il Nord America, regolamentazione dei flussi finanziari che provengono dalla Cina e dai paesi produttori di petrolio.
Il problema dell’immigrazione – infine – va affrontato tenendo conto dell’evoluzione demografica, guardando al futuro, stabilendo con fermezza modi e tempi dei processi di integrazione che dovranno servire a mantenere l’identità culturale (non etnica) del nostro Paese e dell’Europa.
La paura, come sempre, non è una buona consigliera. Ma per battere la paura bisogna ragionare. Per ragionare bisogna conoscere i problemi e evitare di prospettare soluzioni semplicistiche e quasi sempre irrealizzabili. Bisogna guardare lontano, anche a costo di perdere qualche voto.

Solo i grandi statisti sono presbiti; i politicanti sono miopi. Servono urgentemente lenti multifocali.

Franco Chiarenza
2 luglio 2017

La politica italiana dà l’ennesima prova della propria inconcludenza; si spacca – dividendosi come sempre in tifoserie irragionevoli – su un problema che davvero non rientra nelle nostre priorità: il cosiddetto ius soli, il diritto cioè ad acquisire la cittadinanza in maniera automatica se si nasce sul territorio italiano, a prescindere dalla nazionalità dei genitori. Una storia vecchia che mi riporta alla mente tempi antichi quando i rampolli della buona borghesia venivano fatti nascere in Svizzera (dove appunto vigeva lo ius soli) perché non si sa mai: coi tempi che correvano e i comunisti alle porte una cittadinanza svizzera poteva sempre servire (soprattutto se accompagnata da adeguati conti bancari).

Il dibattito italiano
La questione ha assunto improvvisamente in Italia una connotazione politica perché collegata col problema dell’immigrazione irregolare. La sinistra “buonista” e comprensiva ha voluto sfidare la destra “cattiva” e discriminatoria sul suo terreno trasformando un problema che andava risolto col semplice buonsenso in una battaglia ideologica che restituisse finalmente alla sinistra “dura e pura” caratteri inconfondibili e condannasse definitivamente Salvini alla riprovazione morale dell’esercito crociato (che, abbandonando antiche diffidenze “laiciste”, ha trovato in papa Francesco un leader carismatico ben più significativo di D’Alema). Salvini naturalmente non aspettava altro; messo in difficoltà su argomenti seri come la gestione dell’immigrazione, i rapporti con l’Europa (soprattutto dopo la sconfitta della Le Pen in Francia), le politiche di bilancio, la crescente impopolarità delle Regioni (anche di quelle governate dalla Lega), è subito saltato sulla zattera che la sinistra gli offriva per riproporsi come difensore dei valori nazionali, srenuo combattente che si oppone all’invasione di negri e musulmani in nome dell’imprescindibile identità italiana. Poveri noi, in che trappola meschina ci siamo lasciati trascinare!

I diritti dei bambini
Quali conclusioni deve trarne un “liberale qualunque”? Una sola: lasciate stare i bambini, non caricateli di scelte che non sono in grado di compiere in modo libero e autonomo. Vale per il battesimo imposto subito dopo la nascita (una volta, nel cristianesimo primitivo, non era così: si veniva battezzati da adulti), vale per le madri fanatiche che trascinano i figli nelle manifestazioni, vale anche per la nazionalità che, fino al conseguimento della maggiore età, non può che essere quella dei genitori. Create piuttosto i presupposti culturali per rendere facile la scelta di nazionalità al conseguimento dei 18 anni di età, facendo di tale decisione un momento solenne di riconoscimento e di partecipazione alla comunità (come avviene, per esempio, negli Stati Uniti).
Diverso è il discorso dei diritti che devono essere collegati alla residenza e non alla cittadinanza: diritto all’assistenza sanitaria, all’istruzione gratuita, e accesso a tutti gli strumenti che lo Stato mette a disposizione dei giovani italiani. Non sarebbe ragionevole?

Ma poiché il buonsenso è diventato merce rara so già come andrà a finire: i pasdran di destra e di sinistra seppelliranno il liberale qualunque di contumelie più o meno eleganti. Ed io mi troverò additato come complice di Salvini.
Non abbiamo davvero cose più serie di cui occuparci nell’ultimo squarcio di legislatura?

P.S. Segnalo il rischio che un allargamento incontrollato ed automatico della nazionalità possa produrre una cittadinanza di serie A collegata ad una regolare residenza la quale perciò può usufruire delle molte possibilità che l’Unione Europea (e lo stesso Stato) prevede per i cittadini europei “regolari”, e una cittadinanza di serie B praticamente inutile che serve soltanto a stabilire una questione di principio.

Franco Chiarenza
20 giugno 2017

Le elezioni politiche in Gran Bretagna hanno prodotto un risultato opposto a quanto aveva previsto e sperato il primo ministro May al momento di sciogliere la Camera dei Comuni. I giovani hanno votato in massa per il partito laburista consentendo al suo discusso leader Jeremy Corbyn di riemergere proprio quando la sua leadership pareva a rischio dopo le incertezze che avevano accompagnato il referendum sulla Brexit. Theresa May dal canto suo si ritrova senza una chiara maggioranza in parlamento e di fronte a una probabile resa dei conti all’interno del partito conservatore. Tutto ciò alla vigilia dell’apertura ufficiale delle trattative con l’Unione Europea per negoziare tempi e modi dell’uscita della Gran Bretagna.

Perché May ha voluto le elezioni
Contrariamente a quel che molti pensano la sconfitta della May non rappresenta una vittoria degli europeisti e men che meno un compito facile per i negoziatori dell’Unione. Vero è che probabilmente molti di coloro che hanno votato contro i conservatori lo hanno fatto anche per un tardivo pentimento nei confronti di un’uscita che si prospetta sempre più traumatica. Ma è anche cosa nota che la debolezza induce a comportamenti intransigenti proprio per far fronte agli inevitabili contraccolpi che potrebbero derivarne nell’opinione pubblica del proprio paese.
Se è vero – come pare – che la May sperava in un’ampia maggioranza per consentirle di gestire la trattativa con una sorta di mandato in bianco, ciò non serviva a strappare concessioni all’Unione ma piuttosto a far digerire i bocconi amari che vasti settori dell’economia, della finanza, e delle protezioni sociali inglesi dovranno trangugiare. La posizione forte era necessaria per ragioni di politica interna non per modificare i termini di un accordo che comunque si prospetta difficile soprattutto per la Gran Bretagna.

Cosa succederà adesso
La situazione si presenta adesso molto ingarbugliata. Se Theresa May formerà una maggioranza con gli estremisti protestanti dell’Ulster, le reazioni in Irlanda saranno durissime. Dopo la lunga guerra civile tra cattolici e protestanti l’Irlanda aveva vissuto negli ultimi anni un periodo di pace e di prosperità anche grazie all’Unione Europea che aveva consentito l’abbattimento delle barriere tra l’Eire e l’Irlanda del Nord; non a caso gli irlandesi del nord avevano votato a grande maggioranza per la permanenza nell’Unione Europea). Ricreare ostacoli alla libera circolazione delle persone e delle merci ricondurrebbe il processo di pacificazione (e di potenziale unificazione) al punto di partenza e complicherebbe ulteriormente la trattativa tra Bruxelles e Londra.
A questo punto un cambiamento alla testa del governo britannico non è improbabile. Senza il fardello degli errori (anche di comunicazione) compiuti dalla May e con una maggioranza transitoria che preluda a nuove elezioni, sarebbe possibile forse per la Gran Bretagna presentarsi al tavolo con le mani più libere di quanto non siano quelle dell’attuale premier.

Franco Chiarenza
15 giugno 2017

Taormina potrebbe passare alla storia per avere ospitato un vertice delle sette maggiori potenze industriali dell’Occidente che ha segnato l’inizio della fine dell’alleanza euro-americana, almeno nei modi in cui essa si è realizzata a partire dalla seconda guerra mondiale. Naturalmente tutto si svolgerà in tempi e modalità ancora da definire e non senza difficoltà per le resistenze che comunque la nuova politica produrrà anche all’interno degli Stati Uniti e dello stesso partito del presidente Trump. Ma che comunque qualcosa si sia spezzato per sempre non è soltanto una sensazione.

L’alleanza atlantica
Prima di Taormina il presidente americano ha compiuto due visite significative: a Roma in Vaticano per incontrare papa Francesco, a Bruxelles per partecipare al vertice dell’Alleanza Atlantica. Le due tappe servivano a chiudere (almeno nelle intenzioni di Trump) due fronti che rischiavano di creargli problemi in America, dove le difficoltà che sta incontrando sono già fortissime; il primo col mondo cattolico che, dopo essere rimasto sostanzialmente neutrale nella campagna elettorale, sembrava non avere gradito alcune arroganti contrapposizioni della nuova amministrazione. Il secondo per rassicurare l’opinione pubblica del suo Paese sulla vigilanza anti-russa in un momento in cui proprio su tale questione il suo staff è sotto tiro; le riserve sulla NATO si sono quindi ridotte a una richiesta di maggiore partecipazione finanziaria agli oneri che il suo apparato militare comporta.
Ma in realtà anche l’alleanza atlantica potrebbe restare compromessa dalla nuova politica americana non tanto per le intenzioni riduttive di Trump quanto perché, a fronte della Brexit e del neo-isolazionismo USA, la Germania sarà certamente tentata di rilanciare un riarmo europeo continentale su cui troverebbe orecchie attente nella Francia di Macron.

Il commercio internazionale
Il terreno su cui Trump troverà le maggiori difficoltà è la contestazione di ogni forma di multilateralismo commerciale che mette in crisi un aspetto fondamentale della globalizzazione. Negli Stati Uniti il mondo della finanza e l’industria tecnologica d’avanguardia non nascondono le loro perplessità le quali non mancano di riflettersi sul partito repubblicano e quindi sul governo.
A Taormina infatti qualche segnale di ripensamento è emerso, anche se la linea di tendenza isolazionista su cui Trump ha fondato la sua popolarità non potrà essere facilmente ribaltata. Questo è il punto più dolente su cui tutte le potenze dentro il G7 e fuori di esso (Cina e India soprattutto) sono in stand by in attesa di riorientare le proprie politiche economiche; anche se gli Stati Uniti costituiscono il mercato di consumo più grande del mondo il rifiuto di regolamentazioni internazionali potrebbe comportare una moltiplicazioni di guerre commerciali che si ripercuoterebbe sugli investimenti e sugli assetti finanziari fino ad oggi controllati in gran parte dagli Stati Uniti.

Il clima
I media europei hanno insistito molto nel rilevare l’isolamento in cui si è trovato Trump sul problema degli accordi di riduzione delle emissioni inquinanti. Ma il problema è in realtà più apparente che reale: si tratta di un debito elettorale che il presidente americano ha voluto onorare nei confronti dei minatori. Ma tutti sanno che le miniere di carbone sono in crisi per ragioni che prescindono dall’inquinamento, a cominciare dalla concorrenza delle scisti bituminose che lo stesso Trump intende favorire, e per terminare coi progressi dell’automazione nell’attività di estrazione che – a dire degli stessi imprenditori – ridurranno ulteriormente i posti di lavoro nelle miniere. Quando anche Trump si renderà conto del grande business rappresentato dalle energie alternative la marcia indietro, sia pure al di fuori di quei vincoli multilaterali che gli sono culturalmente indigesti, sarà inevitabile.

La reazione tedesca
Sulla strada del ritorno da Taormina la cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto tappa a Monaco di Baviera per intervenire a una manifestazione dell’Unione Cristiano Sociale, storico partito bavarese federato con la CDU, dove ha tenuto un discorso dai toni molto duri nei confronti di Trump. Una reazione attesa ma non nei tempi e nei modi in cui si è realizzata.
Non nei tempi perché si pensava che in piena campagna elettorale la Merkel avrebbe aspettato di misurare sul suo successo elettorale la risposta alla duplice sfida che arriva all’Europa dalla Brexit e da Trump. Non nei modi perché l’UCS rappresenta l’ala più conservatrice dell’alleanza di governo, quella, per intenderci, più aperta a suggestioni di tipo nazionalistico; la combattiva cancelliera ha preferito lanciare la sua provocazione proprio dove la sua proposta poteva trovare maggiori perplessità.
Adesso nessuno in Europa ha più alibi: Taormina ha significato anche questo, dalle parole e dalle generiche intenzioni si dovrà passare ai fatti. L’Europa – ha detto la Merkel – dovrà imparare a fare da sé, rinunciando alla protezione americana; a cominciare dalla copertura militare finora assicurata da una NATO a guida americana.

Theresa May, toccata e fuga
Infine la grande assente: la Gran Bretagna. L’orribile strage di Manchester ha consentito al primo ministro britannico di fare a Taormina soltanto una rapida apparizione. Il vertice infatti si è svolto nel pieno di una campagna elettorale da lei stessa voluta che sta mostrando inattese difficoltà per l’emergere di preoccupazioni diffuse (non soltanto in Scozia e in Irlanda del nord) sulle conseguenze di una uscita dall’Europa brusca e conflittuale. I laburisti cavalcano con decisione tali preoccupazioni sul versante dei diritti sociali, i liberali sulla convenienza economica, i sondaggi vanno riducendo i margini della maggioranza della May.

L’impressione che si ricava da queste convulse settimane è che la decisione di cambiare gioco da parte di chi fino ad oggi dava le carte sta producendo un momento di confusione in cui nessuno sa bene come comportarsi. Noi, come sempre, abbiamo offerto uno splendido palcoscenico per recitare la commedia (o la tragedia?), ma gli attori protagonisti sono altri.

 

Franco Chiarenza
31 maggio 2017

L’intesa per una legge elettorale proporzionale “alla tedesca” sembra essere stata raggiunta tra i principali partiti; l’accordo è stato trovato sacrificando la governabilità alla rappresentatività.
Allo stato attuale delle cose è in effetti l’unica soluzione possibile.

Perché il proporzionale
La presenza di un partito indecifrabile come i “Cinque Stelle” è stata la ragione principale della riesumazione del sistema proporzionale. Anche Renzi si è reso conto che a fronte di un populismo “liquido” e fondato su un astratta domanda di moralità politica più che su progetti di governo, e proprio per questo capace di raccogliere consensi su generiche proposte demagogiche, ogni forma di ballottaggio presenta gravi rischi (come ha dimostrato il referendum). I sistemi maggioritari potrebbero infatti favorire movimenti come i Cinque Stelle, che, non dimentichiamo, mantengono un consenso tra il 25% e il 30%, nonostante le pessime prove di governo nelle amministrazioni locali, a cominciare da Roma. L’esperienza ha dimostrato che soltanto un sistema proporzionale impedisce a formazioni populiste tendenzialmente anti-sistema di arrivare al potere: le elezioni olandesi e quelle spagnole lo dimostrano. Se Wilders e i Podemos sono stati fermati ciò è dovuto alla loro allergia a qualsiasi alleanza; può conseguirne (come è avvenuto) una instabilità di governo, ma si tratta comunque di un rischio minore rispetto a quello rappresentato da un sistema maggioritario che avrebbe potuto consegnare il potere a movimenti non integrati nelle istituzioni. Il caso francese è diverso perché il semi-presidenzialismo della quinta repubblica responsabilizza maggiormente l’elettorato, fa accantonare nel secondo turno differenze anche sostanziali, non consente mai al voto di protesta di trasformarsi in un programma eversivo.

Cinque Stelle
Poiché queste considerazioni sono ovvie e alla portata di tutti, è lecito chiedersi come mai Grillo abbia promosso un accordo che di fatto esclude il suo movimento dal governo, almeno se mantiene la promessa sempre ribadita di non fare alleanze organiche di maggioranza.
Le ipotesi sono tre: la prima è quella che la maggior parte degli osservatori condivide. Con un terzo dei deputati che rifiutano alleanze il movimento costringe il partito democratico ad allearsi con la destra in una sorta di union sacrée in un momento difficilissimo e alla vigilia di scelte fondamentali (come quella europea); gridando all’inciucio potrebbe così raccogliere ulteriori consensi e conseguire in successive elezioni quel 51% che gli permetterebbe di governare da solo. La seconda ipotesi è più maliziosa, ma forse più realistica: Grillo e la ditta Casaleggio si rendono conto di avere creato un movimento di massa ingestibile perché fondato su tanti malesseri intrinsecamente contraddittori; il loro problema è quindi di non far parte di nessuna maggioranza e di mantenere nei confronti di chi governa un potere di ricatto che non li esponga mai all’assunzione di responsabilità dirette. L’esperimento Raggi a Roma, dove Grillo si è trovato completamente spiazzato, potrebbe avvalorare tale ipotesi.
C’è una terza interpretazione, improbabile ma possibile: che Grillo cerchi di uscire dall’impasse cercando di costruire gradualmente un’alleanza organica con il partito democratico. Una strategia che troverebbe nella sinistra importanti appoggi e adeguate “sistemazioni” per i suoi colonnelli; basterebbe inserire il “reddito di cittadinanza” (che sembra l’unica proposta programmatica caratterizzante) nel programma del PD e il gioco sarebbe fatto. Certo, una parte della base pentastellare non gradirebbe. Ma c’è un altro dato di fatto: Grillo è stanco, ha messo in piedi una macchina che senza di lui andrebbe subito a sbattere, ma forse non sa in quale direzione guidarla.

La variabile “Mattarella”
Ma anche se l’accordo sulla legge elettorale sembra raggiunto, non è detto che le elezioni si facciano subito. Da un lato c’è l’esigenza di uscire dal clima di provvisorietà che caratterizza l’attuale governo, anche in vista di una situazione europea che nei prossimi mesi subirà probabilmente accelerazioni imprevedibili. D’altra parte c’è un bilancio da approvare con una manovra correttiva molto pesante che Renzi farebbe volentieri a meno di sottoscrivere ma che il presidente della Repubblica ritiene imprescindibile portare a compimento prima dello scioglimento delle Camere. La tentazione di lasciare la “patata bollente” nelle mani di Gentiloni e Padoan potrebbe essere irresistibile; in tal caso si arriverebbe alla scadenza naturale di febbraio.
C’è poi da registrare l’”effetto Macron”. Negli ambienti imprenditoriali e tra gli orfani del centrismo di Monti e di Oscar Giannino si cerca disperatamente un personaggio che possa rappresentare un punto di riferimento liberale. Non certo per ripetere il miracolo francese che, nelle condizioni date (e soprattutto col sistema proporzionale), non sarebbe possibile; ma con la speranza di portare in parlamento un gruppo abbastanza numeroso da condizionare le scelte di governo. Il riferimento a Calenda e a Parisi è d’obbligo.

Franco Chiarenza
25 maggio 2017