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FCA (controllata dalla famiglia Agnelli) e Autostrade per l’Italia (controllata dalla famiglia Benetton) hanno chiesto di usufruire della garanzia statale prevista dalla recente legge di rilancio dopovirus per accedere a finanziamenti bancari straordinari (7 miliardi per FCA, 1 e mezzo per Autostrade). Si sono levate proteste sdegnate contro chi paga le tasse all’estero e vuole soldi dallo Stato italiano (sarebbe il caso di FCA) e chi specula su concessioni capestro di cui hanno fatto le spese le vittime del crollo del viadotto di Genova. In entrambi i casi emergono una preoccupante superficialità demagogica (e probabilmente una sostanziale ignoranza della realtà) e un atteggiamento moralistico incompatibile con chi pensa che l’economia di mercato abbia una funzione sociale quando ottimizza i fattori di produzione e rispetta le regole fissate dallo Stato per garantire la concorrenza.

FCA
L’ex Fiat non ha semplicemente cambiato nome. E’ diventata, per merito di quel grande dirigente d’azienda che fu Sergio Marchionne, una multinazionale che incorpora l’americana Chrysler (con i suoi marchi tra cui la famosa Jeep) e i marchi italiani Ferrari, Maserati, Lancia, Alfa Romeo. Ha 100 stabilimenti in tutto il mondo (Brasile, Stati Uniti, Polonia, Turchia, Serbia) di cui 9 in Italia (basti ricordare Pomigliano, Cassino, Melfi). E’ controllata dal gruppo Exor quotato in borsa (come d’altronde la stessa FCA) che fa capo alla famiglia Agnelli. E’ quotata in borsa: ai risparmiatori e agli investitori (compresi i fondi sovrani e i fondi pensione) che ne consentono la necessaria capitalizzazione deve garantire un’adeguata remunerazione. E’ in procinto di realizzare una fusione col gruppo francese PSA (Peugeot Citroen) per raggiungere le dimensioni necessarie per affrontare la grande sfida mondiale che comporterà la riconversione del parco automobilistico mondiale verso la trazione elettrica. Se chiude gli stabilimenti italiani (che sono tra i più onerosi) chi ci rimetterà saranno i lavoratori (86.000 circa).
Si rimprovera a FCA di non pagare le tasse in Italia. In realtà le sedi di produzione di FCA nel nostro paese fanno capo a FCA Italy (con sede a Torino), una società ovviamente controllata da FCA group ma che ha un proprio bilancio e in base ad esso paga le tasse in Italia. Non vengono pagate invece le tasse sui profitti della holding perchè ha trasferito la sua sede legale ad Amsterdam (quella fiscale è a Londra). Tuttavia le ragioni riguardano più il diritto civile olandese (che consente assetti societari più agili e convenienti per la controllante) che non il tornaconto fiscale. Fino a quando le norme del diritto societario non saranno unificate in Europa (ma ho forti dubbi che ciò possa avvenire per la forte differenza tra le diverse tradizioni giuridiche) le imprese (soprattutto se multinazionali) cercheranno sempre di mettere la sede legale dove le tasse sui profitti sono più basse. Forse un modo di fare pagare le tasse in Italia ci sarebbe: diminuirle allo stesso livello degli altri paesi concorrenti e semplificare le procedure giudiziarie e burocratiche che complicano la vita agli imprenditori.

Autostrade
Se esistono responsabilità penali per il crollo del ponte Morandi di Genova lo accerterà la magistratura; le nostre leggi sono in proposito tra le più severe del mondo. Il problema del rinnovo delle concessioni è invece una questione politica ed economica (per le eventuali penali che lo Stato dovrebbe pagare in caso di rescissione anticipata). Il governo deve decidere se mantenere il sistema delle concessioni o nazionalizzare tutte le autostrade affidandole all’ANSA; in entrambi i casi la pubblica amministrazione deve dimostrare di essere affidabile per i controlli nel primo caso o per la gestione diretta nel secondo. Quello che non si può fare in uno stato di diritto è escludere dalle gare una ditta per ragioni che la magistratura deve ancora accertare.
Entrando nel merito della scelta che bisogna fare osservo soltanto che un confronto è possibile: da una parte la storia infinita e tormentata della Salerno-Reggio Calabria (a gestione diretta dell’ANSA) dall’altra il funzionamento delle autostrade private come la Milano – Napoli, autentica dorsale strategica del Paese, che insieme ad altre affidate in concessione a società diverse dall’ASI costituisce la maggior parte della rete autostradale. Ombre e luci in entrambi i casi ma il bilancio complessivo non lascia adito a dubbi sulla convenienza di un sistema di concessioni. Esso tuttavia non consentendo alcuna concorrenza richiede un controllo molto severo da parte dello Stato ed è questo il vero punto debole del sistema italiano. Il problema dunque non è di sostituirsi ai privati nella gestione (quando lo ha fatto i risultati non sono mai stati soddisfacenti) ma impiegare risorse umane ed economiche competenti in grado di esercitare in maniera efficiente i controlli previsti dalla legge, fino alla revoca delle concessioni quando si accertino violazioni significative.
Va aggiunto che la famiglia Benetton, controllante di Autostrade, è anch’essa una multinazionale che gestisce autostrade in altri paesi e che attraverso la Aeroporti di Roma ha consentito al “Leonardo da Vici” di Fiumicino di pervenire a un livello di efficienza che finalmente lo colloca nel novero dei migliori in Europa.
Resta la macchia tragica del crollo del ponte di Genova che poteva e doveva essere evitato. Ma, anche in questo caso, dov’era lo Stato nella sua funzione di controllo? E perché Grillo ha rimosso un vecchio post sul suo blog in cui nel ribadire la sua contrarietà alla costruzione della bretella autostradale della Gronda (che avrebbe liberato Genova dall’intenso traffico di transito che premeva sul viadotto crollato) affermava che il ponte Morandi sarebbe durato ancora cent’anni? Domande a cui nessuno dà risposte se non nella ricerca di un facile capro espiatorio che ha certamente le sue colpe ma rappresenta anche un’eccellenza dell’imprenditoria italiana a cui migliaia di risparmiatori hanno dato fiducia.

Giuseppe Conte batta un colpo. Non sempre e non tutto si può mediare: viene il momento che bisogna decidere sapendo che qualunque essa sarà verrà sepolto da insulti e grossolane semplificazioni. Il popolo dei social non ragiona, sentenzia.

Franco Chiarenza
7 giugno 2020

La pandemia da coronavirus Covid-19 è in evidente fase di stallo o di regressione, avendo superato, almeno in Italia, il suo picco di letalità. Quanto abbiano contribuito a questo esito le misure di isolamento adottate da molti paesi (tra cui il nostro) e quanto invece si debba a una naturale evoluzione del virus sarà motivo di discussione quando tutto sarà finito. Non sono un epidemiologo ma di storia un po’ me ne intendo e ricordo che in passato altre pandemie non sono cessate certamente per misure di contenimento e nemmeno per l’intercessione di santi e madonne.
Quel che è sicuro è che più dall’epidemia i danni maggiori provengono in epoca contemporanea dal lockdown che l’accompagna i quali in tempi di globalizzazione dei fattori produttivi non sono paragonabili a quelli delle epidemie di un tempo. Adesso dobbiamo preoccuparci quindi di due priorità: come uscire dal blackout economico che si è venuto a creare e come prepararci ad analoghe emergenze (non necessariamente sanitarie) quando si riproporranno.

Come uscirne
Sulla exit strategy da adottare le opinioni sono tutt’altro che condivise. Nella maggioranza parlamentare che sostiene il governo una inedita alleanza tra l’estrema sinistra e i “cinque stelle” non nasconde l’intenzione di approfittare dell’occasione per insistere in una politica di sovvenzioni e aiuti a pioggia che compensi tutti coloro che sono stati danneggiati dall’epidemia; se poi un po’ di pioggia cade anche al di fuori del limite, pazienza! Naturalmente impiegare la maggior parte delle risorse disponibili a fini sostanzialmente assistenziali comporta una riduzione del sostegno alle imprese e l’avvio di un diffuso intervento pubblico che potrebbe portare al superamento dell’economia di mercato e a un rafforzamento del dirigismo paternalistico. La parte più moderata del partito democratico non condivide certamente questa direzione di marcia ma appare molto timida nelle contromosse, forse per il timore di non apparire abbastanza “di sinistra” e non lasciare ai Cinque Stelle uno spazio elettorale fondato sul voto di scambio assistenziale.
Il presidente Conte, ormai collaudato mediatore, forte di un imprevedibile consenso, procede col solito sistema delle addizioni per accontentare tutti: cinquecento pagine di provvedimenti che faranno a pugni tra loro per assicurarsi le risorse di copertura.
L’opposizione, dopo qualche esitazione dovuta al richiamo irresistibile del populismo demagogico, sembra avere imboccato la strada delle priorità imprenditoriali come presupposto del rilancio economico. Ma anche questa scelta urta con le tentazioni anti-europeiste sempre affioranti e con una visione autarchica che, soprattutto nel partito di Giorgia Meloni, continua a esercitare una forte attrazione. Salvini, per la sua formazione politica, sarebbe in perfetta sintonia con Fratelli d’Italia ma deve fare i conti con Zaia, Giorgetti e quanti nella Lega difendono prospettive più legate agli interessi dei ceti produttivi.
Berlusconi fa storia a sé. Ha finalmente capito l’importanza di restare al centro e in qualche modo proporsi come ago della bilancia in un confronto elettorale che potrebbe risolversi in un pareggio tra l’attuale maggioranza di governo e l’opposizione di destra. Di conseguenza contesta il governo proprio sul terreno delle prospettive dirigistiche e dello scarso sostegno alle imprese, avendo però cura di condividerne sostanzialmente la politica europeista (anche per quanto riguarda il MES che è l’unico strumento che possa farci avere i soldi subito e non in un futuro tutto ancora da definire come gli eurobond o il recovery fund).
Nel frattempo il mondo imprenditoriale si accinge a dar battaglia non appena il nuovo presidente di Confindustria diverrà operativo e sarà interessante vedere in quale misura egli riuscirà a rappresentare la protesta e le preoccupazioni di tutti i ceti produttivi (non soltanto industria ma anche commercio, artigianato, servizi, ecc.) proponendo alternative effettivamente praticabili. In autunno le elezioni regionali rappresenteranno uno step inevitabile e l’attuale governo si troverà comunque al capolinea: per essere sostituito da un altro con la stessa maggioranza oppure per accelerare lo showdown di elezioni anticipate. Non vedo politicamente realizzabile l’ipotesi di cui tanto si parla di mettere in piedi un nuovo governo tecnico che metta tutti d’accordo affidato a Draghi come avvenne in passato col governo Monti. Ma mai come adesso i tempi dell’economia non coincidono con quelli della politica: i mesi che ci separano dall’autunno saranno cruciali per le scelte che dovranno essere fatte.
Per i liberali la strada da percorrere è obbligata: alleggerire il peso fiscale sulle imprese (in particolare l’IRAP), sostenere con garanzie pubbliche l’indebitamento finalizzato alle attività produttive (come in parte si è fatto con i più recenti provvedimenti) ma soprattutto cogliere l’occasione in un momento in cui le resistenze corporative sono più deboli per realizzare quelle riforme di struttura che si invocano da sempre: introduzione nelle scuole di conoscenze sul funzionamento delle istituzioni democratiche e sui principi dell’economia di mercato, riforme per accelerare le cause civili e per semplificare le procedure degli appalti, liberalizzazione del commercio e dei servizi superando il sistema corporativo e corruttivo delle licenze (sostituendolo con accertamenti ex-post del rispetto delle regole), superamento del reddito di cittadinanza come attualmente erogato convertendolo in misure di sostegno all’occupazione per i giovani e in aumenti significativi delle pensioni sociali per gli anziani. Servirebbe anche istituire un servizio civile obbligatorio per giovani di entrambi i sessi al compimento del diciottesimo anno di età ma forse è chiedere troppo.

Le future emergenze
La seconda priorità, meno urgente ma di fondamentale importanza, proviene dall’esperienza del Covid 19, affrontata a colpi di decreti del presidente del consiglio, uno strumento amministrativo che mal si concilia coi suoi contenuti quando incidono sulle libertà costituzionalmente garantite.
Dobbiamo aggiornare le norme di legge, anche eventualmente ritoccando la Costituzione, per affrontare tempestivamente le emergenze che si riproporranno e che potrebbero essere non soltanto sanitarie (terremoti, eventi climatici, terrorismo, ecc.). Occorre concordare tra maggioranza e opposizione procedure chiare, garanzie per il mantenimento del controllo parlamentare, principi inderogabili sulla transitorietà delle misure da adottare. Un utile esercizio per accordarsi in modo diverso dal passato anche su altre modifiche costituzionali cercando intese su singole questioni e rinunciando a palingenetiche riforme complessive che allarmano l’opinione pubblica e favoriscono convergenze negative. Proprio l’esperienza del Covid-19 per esempio ripropone la revisione dell’ordinamento regionale e il riordino delle competenze sanitarie. E con la stessa procedura si potrebbero affrontare altri nodi che appesantiscono la governabilità (ben più importanti della riduzione del numero dei parlamentari su cui andremo a votare entro l’anno) come per esempio il superamento del bicameralismo perfetto.
Si potrebbe, volendo.

Franco Chiarenza
26 maggio 2020

 

P,S. Invito i miei lettori a vedere su You Tube la “War Room” di Enrico Cisnetto del 25 maggio con gli interventi di Paolo Mieli, Massimo Cacciari e Giuseppe De Rita. Uno scenario cupo e pessimistico: speriamo che sbaglino. All’insegna di “Io speriamo che me la cavo”.

Si torna a parlare di “Stato imprenditore” per il dopo “coronavirus”. Ne ha scritto, tra gli altri, Mario Lupo sul “Sole 24 ore” e il suo intervento merita particolare attenzione non soltanto perché essendo ospitato dal quotidiano della Confindustria può apparire un segnale di disponibilità a discuterne da parte degli imprenditori, ma anche perché proviene da una persona nota per il suo impegno nell’impresa pubblica e privata e di chiaro orientamento liberale avendo anche presieduto la Fondazione Einaudi di Roma prima di prendere le distanze dalla sua attuale gestione.
Parliamone dunque serenamente e senza pregiudizi e tenendo conto della situazione di emergenza in cui si trova dopo la pandemia Covid-19 l’Europa e in particolare il nostro Paese.

In passato
Come è ben noto l’Italia ha una lunga tradizione di interventismo pubblico nell’economia che risale alle sue stesse origini industriali e che aveva trovato negli anni’30 una sistemazione giuridica con la creazione dell’IRI dopo la crisi mondiale del 1929. Non a caso a una nuova IRI tutti pensano quando si parla di intervento dello Stato. Hanno torto quanti lo ricordano semplicemente come un “carrozzone” costoso che salvava in perdita aziende decotte e serviva soprattutto a sistemare i tanti “clientes” dell’apparato politico (prima fascista, poi democristiano). Esso fu anche questo ma non possiamo negare la meritoria funzione di sostegno che svolse prima della guerra salvando importanti settori del credito e dell’imprenditoria, come pure dobbiamo riconoscere quanto dobbiamo all’IRI per la rapida realizzazione negli anni ’50 di quelle infrastrutture senza le quali la ripresa economica del Paese non sarebbe partita. Hanno però torto anche quanti ritengono che sopprimerlo sia stato un errore: in realtà alla fine del secolo scorso l’intervento pubblico non aveva più ragione di essere in settori non più strategici che con l’abbattimento delle barriere doganali dovevano confrontarsi con la concorrenza europea e, in parte, anche mondiale. Dove ancora la presenza dello Stato aveva senso, nell’approvvigionamento energetico per esempio, essa è stata mantenuta (seppure con partecipazioni di minoranza) rispettando le logiche di mercato e affidandola a un management che quasi sempre si è dimostrato efficiente (e quando non lo è stato ciò si deve a interferenze politiche le quali, anche con le migliori intenzioni, costituiscono sempre il vero rischio di degenerazione implicito nelle partecipazioni pubbliche).

Nel presente
Oggi lo Stato è ancora molto attivo, non soltanto nelle infrastrutture e nell’approvvigionamento energetico, ma anche in settori produttivi di grande importanza: basti pensare a Fincantieri e a Leonardo (ex-Finmeccanica) che, governate con criteri di efficienza imprenditoriale, rappresentano punte di eccellenza in Italia e nel mondo. Il problema non è dunque se possa esistere uno “stato imprenditore”: c’è già, come anche in Francia (è il caso di Renault) e altrove. E neanche se sia opportuno un suo ampliamento per fare ripartire l’economia dopo il Coronavirus; laddove se ne riscontri la convenienza nulla lo impedisce, anche in un contesto liberale, però ad alcune precise condizioni.
La prima è che si tratti di un intervento emergenziale dovuto alla necessità di ristabilire le condizioni di mercato preesistenti alla crisi. Nessun salvataggio dunque di aziende che erano già decotte e fuori mercato, e limitazione nel tempo dell’intervento pubblico che deve cessare appena l’impresa è in grado di affrontare il mercato (anche per non distorcere la concorrenza la cui tutela resta un punto fondamentale dell’economia liberale).
La seconda condizione è che la partecipazione pubblica sia di regola minoritaria, in modo da garantire un management qualificato non condizionato da logiche politiche. Quando ciò non sia possibile (vedi Alitalia) occorre procedere alla nomina dei vertici con procedure trasparenti soggette al controllo parlamentare (come avviene negli Stati Uniti quando il Senato verifica le competenze e i curricula dei candidati a incarichi pubblici di rilievo).
La terza condizione è che non vi siano privilegi sindacali rispetto alla normativa comune.

Per fare questo è necessario ricostituire l’IRI o qualcosa che gli somigli? Non credo. Se le intenzioni sono quelle di superare l’emergenza e tornare al più presto alle logiche di mercato una struttura centrale è inutile e rischia di trasformarsi in un carrozzone burocratico dominato da esigenze clientelari. Esiste già Fintecna che può perfettamente adempiere allo scopo.
Mi permetto però di suggerire, arrivati a questo punto, due altre priorità che mi paiono anche più urgenti di quella di una partecipazione pubblica nelle imprese.

Lavori pubblici
Con i soldi che verranno (dall’Europa o altrove) occorre fare ripartire le tante opere pubbliche impantanate nelle paralizzanti procedure burocratiche. Le regole stabilite per la ricostruzione del ponte di Genova (che, a quel che pare, hanno funzionato bene) vengano estese ad altre che abbiano una valenza strategica riconosciuta.
Forse è venuto anche il momento di riprendere il progetto per il ponte sullo stretto di Messina: un’opera imponente la cui costruzione darebbe fiato per alcuni anni all’economia e all’occupazione e apporterebbe indubbi benefici alla Calabria e alla Sicilia, e per la quale è certamente possibile ottenere un co-finanziamento dell’Unione Europea. Infiltrazioni mafiose? Se non sappiamo difendercene da soli non faremo più nessuna opera pubblica nel sud mentre nulla garantisce che le infiltrazioni emigrino al nord (come è già avvenuto).

Debiti della pubblica amministrazione
Basterebbe che la pubblica amministrazione (Stato, Regioni, enti territoriali) pagassero i debiti arretrati con le imprese che hanno vinto ed eseguito da tempo gli appalti perché molte aziende possano ricapitalizzarsi, diminuire i costi finanziari e ripartire senza altri sostegni pubblici. Non lo dico soltanto io, lo affermano coralmente tutti gli imprenditori, piccoli e grandi. Non si tratta infatti, come molti pensano, soltanto di liberare risorse per le grandi imprese ma soprattutto per quelle medie e piccole, più esposte ai condizionamenti bancari. Ditte, fornitori locali, aziende che maledicono il giorno in cui hanno partecipato a un appalto pubblico.

Sono cose che si possono fare subito. Purtroppo invece molti preferiscono un’ambigua politica di sussidi, sostegni, finanziamenti pubblici politicamente condizionati che appaiono finalizzati al superamento delle stringenti logiche di mercato, in una parola l’anticipazione di una pianificazione industriale dettata dallo Stato approfittando del Covid-19 per voltare le spalle all’economia liberale (che è cosa diversa dal liberismo senza regole). Per conseguire tale obiettivo (che non è soltanto di alcuni settori della destra sopranista) serve davvero un nuovo IRI e anche bello grosso; un serbatoio gigantesco dove piazzare amici e sostenitori incompetenti e spesso invadenti. Le smentite pioveranno da ogni parte ma diceva l’infido e diffidente Andreotti che a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.

Franco Chiarenza
19 maggio 2020

E’ passato, quasi in silenzio, accanto a quello della Liberazione, un altro anniversario, quello dell’uccisione di Benito Mussolini avvenuta tre giorni dopo. Lo ricordo perché sulle circostanze che portarono alla sua frettolosa soppressione non c’è mai stata chiarezza e molti sono gli interrogativi che ancora oggi possiamo porci.
Mussolini e la sua storica amante Claretta Petacci erano stati catturati dalle brigate partigiane mentre tentavano la fuga nascosti in una carovana militare tedesca che, secondo gli accordi presi con gli alleati, stava abbandonando il Paese ormai quasi completamente occupato dalle truppe anglo-americane. Sulla loro morte le testimonianze furono contraddittorie e parziali, le ambiguità imbarazzanti, i dettagli stessi dell’improvvisata esecuzione poco credibili.

Mussolini aveva governato l’Italia come dittatore per circa vent’anni. Le sue responsabilità erano indiscutibili. Ne ricordo tre che mi paiono le più gravi: l’eliminazione di ogni forma di democrazia pluralista col suo seguito di persecuzioni violente nei confronti degli oppositori, l’alleanza con il nazismo di Hitler e la conseguente vergogna delle leggi razziali, la cinica e dilettantesca entrata in guerra in condizioni di impreparazione che è costata al popolo italiano centinaia di migliaia di morti e distruzioni immense materiali e morali. Ce n’è abbastanza per una condanna esemplare, perché preoccuparsi di come realmente è stata eseguita? Per almeno due ragioni: perché per un liberale, soprattutto in casi esemplari come quello di cui trattiamo, la forma è importante quanto la sostanza, e soprattutto perché è stata un’occasione mancata per fare i conti non con uomo ma con un’ideologia.
Un vero processo a Mussolini fatto da una Corte italiana (senza delegarlo a tribunali costituiti dalle potenze vincitrici, come fu quello di Norimberga) avrebbe consentito di esprimere solennemente un giudizio sulle responsabilità storiche del fascismo e sulla sua natura illiberale e anti-democratica ottenendo due importanti risultati: un coinvolgimento popolare che avrebbe rappresentato il fondamento della nuova nazione, e, non meno rilevante, la dimostrazione davanti al mondo che il nostro Paese era in grado di fare da solo il proprio esame di coscienza e punire i responsabili della soppressione della libertà. Perché non si volle fare? Quali interessi spingevano ad eliminare rapidamente e silenziosamente il maggiore responsabile della nostra tragedia nazionale e i suoi complici? E poi: perché uccidere Claretta Petacci, la quale non aveva avuto alcun ruolo politico nelle vicende del fascismo?

Se è vero che l’uccisione immediata di Mussolini fu autorizzata dal CLNAI (ma una documentazione convincente in proposito, non creata ex-post, in realtà non esiste) si trattò di un errore gravissimo. C’era forse un pericolo di fuga o che l’ex-dittatore potesse essere messo in salvo da formazioni militari fasciste? Non risulta.
Si è detto che si voleva impedire che Mussolini cadesse nelle mani degli anglo-americani perché ciò avrebbe comportato un processo intentato dai vincitori come quello che fu poi imbastito a Norimberga nei confronti dei criminali di guerra nazisti. Ma la spiegazione non regge a un’analisi attenta dei fatti. Cosa impediva al CLN di prendere in consegna il prigioniero e chiedere che fosse giudicato in Italia da un tribunale speciale dato che, a differenza di ciò che avverrà in Germania, un governo legittimo riconosciuto dagli alleati esisteva e, a quell’epoca, era già espressione del CLN (governo Bonomi)? Perché quell’esecuzione frettolosa davanti al cancello di una casa semi-abbandonata in una strada secondaria?
Si è detto che un processo pubblico avrebbe fatto emergere le corresponsabilità dell’intero popolo italiano; e allora? Ragione di più per farlo, distinguendo le responsabilità di chi impose un regime di violenza anche psicologica e di chi lo subì più o meno passivamente. Se quindi questa è stata la ragione dell’esecuzione sommaria si trattò di una valutazione cinica ed errata che inevitabilmente si rifletteva sul futuro creando le condizioni per un ritorno alla normalità pieno di ambiguità, come di fatto avvenne.
Si è detto che Mussolini portava con sé documenti che provavano la simpatia di Churchill per il fascismo. Vero o no si tratta di questione irrilevante. Tali simpatie erano ampiamente note come pure i tentativi di Roosevelt e Churchill per mantenere l’Italia estranea al conflitto (anche chiudendo un occhio sul regime totalitario che la governava). E poi sembra francamente difficile che Audisio (che secondo la versione ufficiale avrebbe da solo effettuato l’esecuzione), esponente di primo piano del PCI e più tardi deputato comunista, agisse per proteggere gli interessi degli inglesi.
Si è detto che conveniva alla Corona fare scomparire un testimone scomodo delle connivenze tra la dinastia sabauda e il fascismo. Ma, anche in questo caso, nulla di più di ciò che era stato evidente a tutti si poteva rivelare e, in ogni caso, non si vede la convenienza dei comunisti ad assecondare un tale disegno.
Le perplessità aumentano se si pensa a quel che avvenne dopo l’uccisione di Mussolini e che si sarebbe potuto evitare con un regolare processo, qualunque ne fosse l’esito, anche la condanna a morte. Chi autorizzò la macabra esposizione dei cadaveri appesi con un gancio a testa in giù, sotto lo sguardo ironico dei cineoperatori americani che ne diffondevano le immagini in tutto il mondo e che non giovarono certo al nostro prestigio internazionale?
Quando la soppressione dei dittatori avviene con modalità poco trasparenti, più simili a un linciaggio che a una regolare esecuzione, la ragione è sempre la volontà di evitare un processo pubblico: come avvenne, tanto per fare esempi più recenti, nel caso di Ceasescu in Romania nel 1989 e di Gheddafi in Libia nel 2011.

In conclusione le domande sono tante e non hanno mai ricevuto risposte convincenti neanche da parte dei protagonisti dell’epoca. Non so se ci sono ancora archivi sconosciuti da aprire: ma se ci sono vanno cercati nell’ex PCI o in quelli dei suoi principali dirigenti di allora, a cominciare da Luigi Longo che nella vicenda dell’esecuzione di Mussolini svolse – a quanto pare – un ruolo decisivo.

 

Franco Chiarenza
28 aprile 2020

La gente comune, in maggioranza priva di una laurea in economia, non ci capisce più nulla: MES no, eurobond sì, BEI bòh, fondi speciali non si sa. Poi c’è la BCE col QI, il SAFE. Tutti si improvvisano economisti e aumentano la confusione. Si litiga tanto ma non si comprende bene su che cosa. Certo si tratta di soldi, questo almeno è chiaro; soldi nostri che l’Europa non vuole restituirci (secondo Salvini e Meloni) e di cui sdegnosamente potremmo anche fare a meno chiedendoli a Cina, Giappone, (e perchè no alla Corea?); soldi europei di cui abbiamo bisogno (secondo Conte e Gualtieri) e che non possiamo ottenere da nessuno al di fuori dell’Europa. Allora, come stanno realmente le cose?
Secondo il Liberale Qualunque stanno semplicemente così.

Cosa intendiamo per Europa
L’Europa non è quella che gli europeisti vorrebbero e nemmeno quella che i sovranisti (meglio chiamarli nazionalisti) immaginano. Si tratta, oggi come oggi, di un club di stati nazionali che si sono associati per convenienze economiche e a tal fine hanno messo insieme alcune risorse finanziarie creando strumenti adatti per amministrarle: alcuni di essi hanno addirittura rinunciato a battere moneta in favore di una moneta unica in grado di fronteggiare l’egemonia del dollaro americano sui mercati internazionali. Tutto il resto è fumo negli occhi: parlamento europeo, corte di giustizia, burocrazia di Bruxelles. Certo, molti di noi, i liberali più di tutti, vorrebbero che fosse molto di più, ma dobbiamo essere realisti: oggi l’Unione Europea è sostanzialmente quella che abbiamo descritto e quindi, come in qualsiasi club che si rispetti, bisogna fare i conti con tutti i suoi soci ognuno dei quali ha un voto e le decisioni quasi sempre vanno prese all’unanimità. Ma come accade in tutti i club, i soci sembrano tutti uguali ma qualcuno di loro conta di più (per ricchezza, prestigio, origini familiari, ecc.). E’ il caso di Francia e Germania, ma pure l’Italia, per varie ragioni che qui sarebbe troppo lungo elencare, fa parte del gruppo di soci più autorevoli anche se la sua immagine si è molto incrinata negli ultimi anni.
Quando uno dei soci si trova in difficoltà ha il diritto di chiedere l’aiuto degli altri ma chi deve garantire i prestiti necessari ha anche il diritto di chiedere adeguate garanzie; funziona così ovunque, nelle famiglie, nelle collettività, nei mercati. Se uno dei soci bara e dichiara situazioni che non corrispondono alla realtà i casi sono due: o viene espulso dal club oppure i soci gli danno l’aiuto necessario a precise condizioni e con vincoli molto stringenti. E’ quello che è avvenuto con la Grecia e tra i soci che chiedevano garanzie per aiutarla c’eravamo anche noi. Piaccia o meno così ha funzionato l’Unione Europea fino ad oggi; chi non ci sta può sempre andarsene (come ha deciso di fare la Gran Bretagna).

Coronavirus
Con l’arrivo micidiale della pandemia Covid 19 le regole esistenti sono sembrate insufficienti a tutti i soci; non è di questo che si discute. Per fare ripartire l’economia dopo la batosta occorrono misure straordinarie e ciò vale per l’Italia ma anche per gli altri paesi. La Banca Centrale Europea si è attivata (dopo qualche esitazione) e acquisterà titoli (anche italiani) per centinaia di miliardi. Quali sono allora i problemi? Sono due: la quantità di risorse da immettere nel sistema per impedire strozzature finanziarie (che potrebbero venire anche dai mercati extra-europei) ma che non possono superare certi limiti senza il rischio di innescare processi inflattivi incontrollabili, e come distribuire i fondi cash immediatamente disponibili. Ed è qui che casca l’asino, o meglio si fa sentire il pregiudizio dei nostri partner nei confronti della capacità dei nostri governi di utilizzare correttamente risorse che provengono dalla cassa dell’intero circolo, e cioè di tutti i suoi componenti. Hanno torto?
Bisogna essere onesti: in passato l’Italia si era impegnata a ridurre il debito pubblico almeno della metà per allinearlo a quello degli altri soci e non lo ha fatto. Ha chiesto tempo e deroghe per sistemare alcune condizioni strutturali che strozzavano l’economia e non lo ha fatto; al contrario ha disperso le risorse disponibili in misure assistenziali di dubbia efficacia. Ha ottenuto l’assegnazione di fondi europei destinati alle aree meno sviluppate (in cui rientrava il nostro Mezzogiorno) e non li ha utilizzati, tanto che per la maggior parte sono finiti dirottati in altri paesi (come Spagna e Portogallo). Cosa pensereste se foste tedeschi o olandesi qualunque? Uno dei “difetti” della democrazia è che bisogna tenere conto non soltanto dei governi ma anche delle opinioni pubbliche, e queste si formano anche su pregiudizi amplificati dai mass-media; non sempre i governi, soprattutto se dispongono di maggioranze deboli, riescono a mediare tra la “pancia” delle credenze populiste e i veri interessi del loro paese. E’ sempre stato così, figurarsi in tempi di social-network.
Detto questo resta il fatto che il “club Europa” – piaccia o no – si fonda su un’economia di mercato regolata in cui i problemi del disagio e dell’emarginazione si risolvono aumentando l’efficienza produttiva e con essa i posti di lavoro, riservando le misure di assistenza sociale a quanti si trovano realmente in condizioni di povertà; il che, almeno nella percezione delle pubbliche opinioni dei paesi settentrionali, il nostro paese non ha fatto. In sostanza, per non farla troppo lunga, i nostri partner non si fidano di come spenderemo le risorse che il club potrebbe metterci a disposizione e vorrebbero essere certi che i soldi vadano realmente alle persone e alle strutture produttive danneggiate dal coronavirus e non vengano dispersi in altre direzioni. L’opposizione (Salvini e Meloni) indignata invoca l’orgoglio nazionale, la maggioranza si batte sui tavoli europei per strumenti flessibili che non implichino controlli e supervisioni; ma l’Italia col suo deficit da record mondiale si trova in difficoltà e rischia l’isolamento. Ecco in cosa consiste la partita che si sta giocando a Bruxelles.

Italexit?
Inutile girarci troppo intorno: nel club o ci si sta con le regole che noi stessi abbiamo contribuito a scrivere o se ne esce. Cambiare le regole si può ma è un lavoro lungo e difficile che certo non si risolve in poche settimane, e anche l’ipotesi di creare un altro club più esclusivo con i soci disposti a trasformarlo in una vera comunità politica fondata su valori condivisi richiede tempi lunghi. Adesso non ci sono alternative: cercare aiuti fuori dall’Unione significa fare un passo verso l’uscita come appunto vorrebbero le minoranze nazionaliste (non soltanto in Italia).
Ma poi: chi ci dovrebbe aiutare e a quale prezzo? Perchè gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone o chiunque altro (a prescindere dal fatto che sono anch’essi duramente colpiti dalla pandemia) dovrebbero darci consistenti aiuti senza adeguate garanzie? Certo, il “piano Marshall” – spesso evocato – era un aiuto a fondo perduto ma era stato concepito per aiutare un paese distrutto dalla guerra e che non aveva risorse sufficienti per superare l’emergenza; l’Italia di oggi, malgrado tutto, non è nelle stesse condizioni. E poi dove va a finire la “dignità nazionale” sempre evocata dalla coppia Salvini-Meloni?
“Faremo da soli” è la sdegnata risposta di Salvini, e non è una minaccia da prendere alla leggera perchè in realtà fare da soli si può. Basta uscire dall’euro, deprezzare la moneta che lo sostituisce, rapinare il risparmio privato trasformandolo forzosamente in titoli di credito garantiti dallo Stato, difendere la produzione nazionale creando barriere doganali, evitare i fallimenti attraverso indiscriminate nazionalizzazioni; ma il prezzo che pagherebbero gli italiani sarebbe altissimo.
Buona parte delle esportazioni non troverebbe sbocchi adeguati, merci e servizi esteri dovrebbero essere pagati in dollari (il cui cambio sui mercati finanziari ci penalizzerebbe), il potere d’acquisto reale diminuirebbe e con esso i consumi interni; insomma un avvitamento all’indietro che ci riporterebbe agli anni ’30 del secolo scorso. E magari, passo dopo passo, dopo avere riesumato dal fascismo autarchia e corporativismo, anche il modello politico potrebbe modificarsi per passare da una democrazia liberale a una democrazia illiberale (come propongono gli esempi di Putin e di Orban).
Prima di buttare alle ortiche quello che abbiamo costruito negli ultimi settant’anni stateve accorte.

Franco Chiarenza
16 aprile 2020

Vent’anni fa moriva ad Hammamet in Tunisia, dove si era rifugiato dopo la condanna inflitta dalla magistratura milanese per corruzione e finanziamento illecito del suo partito, il controverso leader socialista Bettino Craxi. L’anniversario è stato l’occasione per riaprire il dibattito sul personaggio che, in ogni caso, è stato un protagonista indiscusso dell’ultimo periodo della prima repubblica.
Prescindendo dalle motivazioni della condanna giudiziaria è necessario riflettere sul suo progetto politico, sulle reali circostanze che hanno determinato la sua caduta, sulle conseguenze della sua scomparsa dalla scena politica. Il mio punto di vista – quello di un liberale qualunque – era già chiaro quando ne scrissi nell’omonimo libro e qui di seguito lo ripropongo, con l’avvertenza di leggere tutto il capitolo relativo alla prima repubblica, necessario per inquadrare la personalità di Craxi nell’ultima grande contrapposizione progettuale e ideologica della nostra storia recente.

Le generazioni future sentiranno spesso il nome di Bettino Craxi nelle rievocazioni della prima repubblica italiana: come un lestofante che ha governato per un breve periodo l’Italia per alcuni, come un geniale statista che ha difeso l’onore dell’Italia, travolto da una congiura di veleni giudiziari che l’hanno costretto all’esilio, per altri. Quali furono i suoi rapporti con i liberali e con il liberalismo?

Per i liberali Craxi ha rappresentato un forte punto di riferimento per alcune importanti ragioni:

  1. Egli ha rappresentato dal 1976 al 1990 la prima vera svolta social-democratica del partito socialista facendolo uscire dalle nebbie filo-comuniste e dalle utopie marxiste; la sua strategia era orientata a un riformismo istituzionale e politico in grado di consentire un avvicendamento al governo tra una sinistra democratica e una destra conservatrice, come avviene di norma negli altri paesi occidentali, costringendo il partito comunista a una trasformazione radicale e definitiva. A questo fine Craxi cercò anche di rinnovare l’immagine del PSI sostenendo esplicitamente i dissidenti dell’Europa dell’est (vittime del comunismo) e quelli dell’America latina (vittime dei regimi autoritari di destra) e avviando alleanze organiche con i socialisti spagnoli e francesi e in particolare con i loro leader Gonzales e Mitterrand. In breve creò un partito socialista in grado di costituire un interlocutore credibile anche per la cultura liberale, come riconobbe nel 1984 Malagodi iniziando il suo discorso al Senato in occasione della presentazione del governo Craxi con un incipit rimasto famoso: “E’ un appuntamento che aspettavo dal 1904” (riferendosi all’anno in cui Giolitti aveva invano invitato i socialisti ad entrare nel governo).
  2. Craxi ha inaugurato uno stile di governo, nei due anni in cui lo diresse, diverso per molti aspetti da quello dei suoi predecessori. Ha scelto come ministri personalità reclutate al di fuori della nomenklatura di partito, come Francesco Forte, Franco Reviglio, Renato Ruggiero, Antonio Ruberti. Il suo linguaggio era chiaro e scandito in modo da farsi comprendere da tutti (eccezione assoluta nella comunicazione politica di quel tempo), sapeva difendere senza farsi condizionare dalle chiassose dimostrazioni di piazza orchestrate dai comunisti le priorità di appartenenza a un’alleanza politica e militare come la NATO (come avvenne per la collocazione dei missili americani Cruise e Pershing in risposta agli SS20 installati dai sovietici) e, per contro, rivendicò con forza il principio della competenza nazionale quando rifiutò agli Stati Uniti la consegna dei terroristi palestinesi responsabili del dirottamento della nave “Achille Lauro”, arrivando fino a un confronto molto serrato con lo stesso presidente Reagan. Aveva anche il gusto della sfida, come dimostrò con la riduzione della scala mobile, contro la quale i comunisti lanciarono una dura campagna che si concluse con un referendum da cui uscirono sconfitti.
  3. La spinta impressa dalla nuova politica socialista ha imposto ai comunisti l’esigenza di fare i conti con la propria storia e con le trasformazioni politiche che stavano determinando il superamento della “guerra fredda”, ormai perduta dall’Unione Sovietica. I comunisti lo odiarono soprattutto per questo, perché sentivano sul collo il fiato di una social-democrazia incombente che minacciava di marginalizzarli, come era avvenuto per altri partiti comunisti occidentali. Come ha scritto giustamente Luciano Pellicani “prima che Craxi irrompesse sulla scena nessun leader socialista o social-democratico aveva osato mettere in discussione il marxismo”; averlo fatto con decisione, senza complessi di inferiorità, è costato al leader socialista la damnatio memoriae cui gli estremisti massimalisti di sinistra lo hanno condannato.

Assai diversa la valutazione su Craxi per ciò che attiene le politiche economiche; il leader socialista sottovalutò (come quasi tutta la dirigenza politica del tempo) la crescita indiscriminata del debito pubblico, l’invadenza soffocante del settore pubblico, l’esigenza di rinnovare la normativa sul lavoro. La sua originaria cultura socialista si era certamente annacquata nella contiguità con le social-democrazie europee, ma si era trasformata in un dirigismo politicizzato e clientelare che si inserisce a pieno titolo nelle carenze culturali della classe politica allora prevalente.

Tuttavia Craxi è stato condannato in via definitiva dopo tre gradi di giudizio per corruzione e finanziamento illegale del partito da lui diretto.

E’ un fatto innegabile, e chi è liberale non può essere favorevole al finanziamento illegale della politica (anche quando la legge che lo riguarda è per molti aspetti assai discutibile) e pertanto esige rigore e trasparenza da chi rappresenta il Paese nelle sedi istituzionali e nei partiti. Ma occorre riconoscere che in tutti i partiti era diffusa l’idea che la spartizione di tangenti per finanziare la politica dovesse essere in qualche modo tollerata; si trattò di un errore non soltanto dal punto di vista della moralità politica ma anche per le conseguenze negative di immagine che al primo incidente non avrebbero tardato ad abbattersi sull’intero sistema politico. Il che si verificò puntualmente subito dopo il crollo del muro di Berlino e la successiva scomparsa dell’impero sovietico, quando, venendo meno l’anti-comunismo militante per cessazione di esistenza del nemico, la moralità politica tornò ad essere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.
Craxi non lo capì; Andreotti invece aveva ammonito gli amici che brindavano nel 1989 alla caduta del muro di Berlino: “Attenti a festeggiare, a quel muro eravamo aggrappati tutti”.

Il famoso discorso di Craxi alla Camera del 3 luglio 1992 è passato alla storia per la franchezza con cui il leader socialista ammise le proprie responsabilità. Lo ricorda?

Tutti coloro che lo ascoltarono (me compreso) ebbero la sensazione di uno spartiacque storico, di quelli che segnano la fine di un’epoca e, inevitabilmente, l’inizio di una nuova. Con uno stile asciutto e senza perifrasi Craxi tentò una duplice operazione: la chiamata a correo di tutto il sistema politico che aveva utilizzato per il finanziamento della politica i suoi stessi mezzi (“Non credo che ci sia nessuno in quest’aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo”) ma soprattutto la delegittimazione della magistratura che applicava strumentalmente una legislazione che da tempo non corrispondeva più alla situazione reale e alle esigenze del sistema politico (“Un finanziamento irregolare o illegale al sistema politico…….non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura”).
Il tentativo non riuscì; ma Craxi era stato facile profeta nel prevedere che la furbizia dei topi di abbandonare la barca nel momento in cui affondava non avrebbe salvato né la barca né i topi. Peccato che, invece di contestare fino in fondo l’azione sostanzialmente ingiusta (ma non illegale) della magistratura, egli sia fuggito in esilio; accettando le conseguenze delle sentenze di condanna fino alla carcerazione egli avrebbe trasmesso al Paese un messaggio di ben diversa consistenza, costringendo l’opinione pubblica a interrogarsi sulle ragioni più profonde di una vicenda drammatica e senza precedenti.

Perché l’azione dei magistrati fu “sostanzialmente ingiusta”? Essi – si potrebbe obiettare – non fecero che applicare le leggi.

Ma talvolta l’applicazione formale delle leggi può essere sostanzialmente ingiusta: “summum ius, summa iniuria” dicevano i nostri progenitori romani. L’illegalità dei comportamenti politici era talmente diffusa da non consentire alternative; lo spiega bene lo storico Giovanni Orsina quando scrive che “…essendo quella politica un’arena fortemente competitiva, una volta diventati consuetudinari i comportamenti illegali divengono di fatto obbligatori per chiunque desideri prendere parte alla vita pubblica. Rispettare la legge, infatti, significherebbe collocarsi in una posizione di svantaggio irrimediabile…..l’illecito si trasforma in regola, e la trasgressione di quella regola – ossia il comportamento formalmente legale – è sanzionata con l’espulsione dal sistema”. Craxi aveva quindi sostanzialmente ragione nella sua “chiamata a correo” dell’intera classe politica di governo dato che il sistema tollerava un’ipocrisia di massa come quella del finanziamento illegale dei partiti nella connivenza totale di tutti coloro che partecipavano alla partita, nel tacito sottinteso che quelle regole non sarebbero mai state applicate, tanto più che la prassi illegittima che alimentava i costi della politica era stata denunciata inutilmente già dagli anni ’50.
In tale contesto l’unico modo di uscirne era l’approvazione di un’amnistia calibrata e selettiva, accompagnata da una nuova legge sul finanziamento della politica, meno demagogica e più rigorosa nei controlli. Lo proposero politici ragionevoli come Alfredo Biondi e giuristi di sinistra come Giovanni Conso, in quel momento guardasigilli, ma la magistratura milanese scatenò contro questa ipotesi una campagna mediatica senza precedenti, appellandosi al populismo più deteriore, ottenendo da una classe politica spaventata la rapida archiviazione della proposta. Si trattò di una clamorosa ulteriore invasione di campo delle procure in terreni che costituzionalmente sono loro preclusi. Ricorda Sergio Romano: “Non mi piacque che la magistratura esautorasse le istituzioni politiche. Piaccia o no, quando un fenomeno acquista le dimensioni di Tangentopoli, la terapia deve essere principalmente politica, non giudiziaria.”.

Perché il partito post-comunista preferì accelerare il processo di dissoluzione del vecchio sistema politico, piuttosto che ricercare un ragionevole accordo con il partito socialista per la costituzione di un polo democratico di sinistra?

Per rispondere a questa domanda bisogna ricordare il clima di quegli anni. L’odio dei comunisti per i socialisti “craxiani” era alimentato da vari fattori:

  1. Craxi era considerato social-democratico, il che, nella terminologia corrente dei partiti comunisti, significava “traditore della causa” e complice della borghesia capitalista;
  2. Le personalità dei leader che impersonavano i due partiti, Craxi e Berlinguer, non potevano essere più diverse: moderno, spregiudicato, sensibile ai nuovi modelli sociali che l’economia di mercato stava determinando in Occidente, il primo; austero, moralista, pessimista, critico di ogni forma di consumismo, paternalista “illuminato”, il secondo;
  3. Il diverso atteggiamento nei confronti del cattolicesimo: improntato a una difesa molto netta della laicità dello Stato da parte di Craxi (cui si deve anche la revisione del Concordato), caratterizzato invece in ampi settori del vecchio PCI dalla ricerca di possibili intese fondate su una comune diffidenza nei confronti del modello americano e nord-europeo della “società del benessere” (alcuni dei più stretti collaboratori di Berlinguer erano molto vicini al Vaticano, come Antonio Tatò, il quale, non a caso, definì sprezzantemente il leader socialista in una lettera a Berlinguer “un bandito politico”);
  4. L’incessante e pervasiva campagna di ostilità anti-craxiana favorita dai vertici del partito comunista: erano gli anni in cui nei festival dell’Unità si serviva la “trippa alla Bettino”, a dimostrazione della cordialità di rapporti tra le rispettive basi.

Naturalmente non tutto il partito comunista si muoveva in questa direzione; vi erano gruppi consistenti che tentarono di cercare un accordo con Craxi, ma furono travolti dall’intransigenza settaria della maggioranza berlingueriana e dalla speranza che “mani pulite” potesse rappresentare un’occasione da non perdere per la “soluzione finale” (anche perché l’amnistia di pochi anni prima aveva messo definitivamente al sicuro il PCI dall’accusa, ampiamente dimostrata, di ricevere finanziamenti dall’Unione Sovietica). Anni dopo, nel 2000, Giorgio Napolitano, intervistato da Pierluigi Battista, ricordò che la via del dialogo era possibile, e che quando, per intercessione di Craxi, il PCI ottenne di entrare nell’Internazionale Socialista, “non arrivammo mai a riconoscere quanto D’Alema ha riconosciuto a Torino” (molti anni dopo). “Avevano ragione loro” è la tardiva e malinconica ammissione del nostro presidente galantuomo.

Ha nostalgia della prima repubblica?
No. La prima repubblica è responsabile:

  1. di avere creato una costituzione materiale che annullava l’equilibrio tra i poteri dello Stato concentrandone l’essenza decisionale nei partiti (partitocrazia);
  2. di avere consentito la distruzione di parti importanti delle risorse ambientali del Paese;
  3. di avere accentuato la dicotomia nord/sud aumentando la dipendenza assistenziale del Mezzogiorno dal clientelismo;
  4. di avere distrutto l’efficienza della pubblica amministrazione e la scuola pubblica;
  5. di avere accumulato un debito pubblico tra i maggiori dell’Occidente, un macigno che non soltanto è ricaduto sulle successive generazioni ma che rischia di perpetuarsi a lungo;
  6. di avere consentito alla magistratura di costruirsi un ruolo di “tutoraggio” sulle legittime istituzioni democratiche, incompatibile con una visione liberale dello Stato.

Credo che possa bastare. Qualche volgarità in meno rispetto alle sguaiataggini della seconda non basta ad assolvere le responsabilità politiche della prima repubblica.

 

Franco Chiarenza

Al centro del panorama politico italiano dell’anno appena trascorso c’è lui: Giuseppe Conte.
Chi l’avrebbe detto; quando comparve sulla scena dopo il faticoso accordo tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini nessuno lo conosceva. Era un avvocato con una cattedra universitaria a contratto come ce ne sono tanti e pareva una delle molte figure scialbe e sprovvedute che la piattaforma Rousseau candidava ai vertici del potere in nome del principio “uno vale uno”.
Tutti i commentatori (me compreso) lo descrivevano come un Arlecchino servo di due padroni, intento a comporre i dissidi tra gli alleati ma privo di iniziativa politica. Però ci si dimenticava che la maschera goldoniana rappresentava sì un “servo” ma sveglio e furbo.

Conte Uno
Ci volle poco al nuovo presidente per capire che la coalizione di maggioranza era intrinsecamente fragile e che il compromesso raggiunto nelle segrete stanze della Casaleggio§C consisteva in una sommatoria di promesse elettorali disorganica e destinata a esplodere in tempi brevi. Lasciando a Salvini e Di Maio tutto lo spazio necessario per le loro velleitarie riforme da sventolare dal balcone (quello d’angolo di palazzo Chigi è anche un po’ più grande di quello storico di palazzo Venezia) il presidente Conte si è dedicato ai rapporti con l’Europa, individuando in essi la vera chiave di volta per la sopravvivenza del governo. Insieme al ministro dell’economia Giovanni Tria ha messo in atto una strategia di contenimento dei colpi che a fasi alterne venivano sparati contro le istituzioni comunitarie da Salvini e Di Maio i quali pensavano così di cavalcare un’ondata populista e sovranista che avrebbe dovuto travolgere con le elezioni europee del 2019 le tradizionali maggioranze del parlamento di Strasburgo. Tria si occupava di ammorbidire le preoccupazioni create dagli sbandamenti del bilancio (poco compatibili con gli impegni che l’Italia aveva preso un anno prima), ma la parte più importante, quella di smussare le ripicche politiche e di garantire ai principali partner europei quell’affidabilità che i leader della maggioranza non davano, la svolgeva Conte. La sua faccia sorridente, le sue dichiarazioni fintamente ingenue, i suoi colloqui riservati (di cui ovviamente non conosciamo i contenuti), contribuivano a spegnere gli incendi che i suoi “padroni” avrebbero invece voluto alimentare. A cominciare dalle scabrose vicende dell’immigrazione clandestina che costituisce la prima ragione del consenso politico della Lega. La tranquilla sicurezza che il premier ostentava lascia pensare che tra l’avvocato pugliese e Beppe Grillo qualche intesa già ci fosse, anche alle spalle di Di Maio.

Conte Due
La vera svolta – del tutto imprevedibile – è avvenuta nel parlamento europeo eletto in maggio col voto di fiducia a Ursula von der Leyen, dove l’inatteso voto favorevole dei Cinque Stelle è stato determinante. Soltanto allora Salvini ha capito che la partita era finita, che non c’erano più le condizioni per proseguire un’alleanza di governo sempre più incomprensibile per la sua base, e, da quel giocatore d’azzardo che è, ha rovesciato il tavolo. Probabilmente hanno contribuito a una decisione così improvvisa e traumatica (per i modi e i tempi in cui si è prodotta) anche altre ragioni: la difficoltà di arrivare a fine anno con un bilancio condiviso, la vicenda poco chiara dei rapporti con la Russia (la quale, oltre che all’Europa, non era piaciuta affatto neanche agli americani), i segni di nervosismo che provenivano dai piccoli imprenditori, l’ostilità crescente della Chiesa (malgrado l’ostensione continua di simboli religiosi). Ma il punto fondamentale era l’Europa e a Bruxelles Conte aveva giocato bene la partita.
Certo, Salvini sperava che i Cinque Stelle non si alleassero con il partito democratico e conseguentemente il Quirinale fosse obbligato a sciogliere le Camere, ma aveva puntato sul cavallo sbagliato. Di Maio, di cui conosceva la radicata ostilità nei confronti della vecchia “casta” democratica, non aveva nel suo movimento una posizione paragonabile alla propria nella Lega (malgrado il pomposo titolo di “capo politico”); c’era sempre dietro le quinte il capo vero, il fondatore Beppe Grillo, il quale con Salvini non ha mai avuto un rapporto di empatia.
A questo punto Giuseppe Conte, dopo una requisitoria contro Salvini al Senato che ricordava ai pochi cultori di storia le “catilinarie” di Cicerone (si parva licet componere magnis), ha rapidamente cambiato cappello avviando un rapido confronto con il partito democratico e andando a presiedere un nuovo governo con i nemici di un tempo. Ha pensato Grillo a spegnere i sussulti e le prese di distanza che si manifestavano nel movimento, mentre Prodi e Veltroni non facevano fatica a convincere un Zingaretti riluttante. Renzi da parte sua, per non restare schiacciato in una tenaglia che lo avrebbe distrutto, ha anticipato i tempi per far credere che la nuova intesa fosse merito suo (il che ovviamente non è stato).
E’ nato così e vivacchia tuttora il governo giallo-rosso (che i tifosi della Roma lo perdonino!). Conte Due ha ricominciato a fare i conti con l’Europa (trovando ovviamente un terreno più favorevole) mentre Di Maio blindato nel faraonico palazzo della Farnesina si occupa del resto del mondo con minori possibilità di fare danni.

Conte Tre?
Adesso la figura di Conte giganteggia come quella di un “salvatore della Patria”. Zingaretti gli riconosce grandi doti politiche, Renzi cerca di non contraddirlo, Di Maio appena si azzarda a uscire dal seminato viene bacchettato da Grillo, lo stesso Salvini, facendone il suo nemico numero uno, ne accredita l’importanza.
Quanto durerà il suo secondo governo è impossibile prevedere; ci sono troppe variabili che emergeranno nei prossimi mesi, a cominciare dal cruciale processo di chiarimento all’interno del movimento Cinque Stelle. In ogni caso la sua sorprendente performance ne fa una risorsa politica anche per il futuro. Non c’è due senza tre, recita un famoso proverbio.

 

Franco Chiarenza
22 dicembre 2019

 

P.S. Dopo avere ascoltato la tradizionale conferenza stampa di fine d’anno confermo il mio giudizio: ho sentito un presidente del consiglio sicuro di sé, non banale nell’esposizione e nelle risposte, dotato di un suo stile, usare un linguaggio finalmente diverso dagli slogan e dai twitter utilizzati fastidiosamente, tanto per imitare Trump, dalla nuova classe politica per diffondere slogan semplicistici e talvolta ingannevoli. Anche il modo rapido e intelligente con cui è stata risolta la vicenda delle dimissioni del ministro Fioravanti è condivisibile: nominare nuovo ministro l’attuale sottosegretaria in quota Cinque Stelle (Lucia Azzolina) e nel contempo sciogliere l’innaturale matrimonio tra pubblica istruzione e università/ricerca collocando al vertice del nuovo ministero Gaetano Manfredi, rettore dell’università Federico II di Napoli, in quota PD. Me ne faccio una ragione: Conte funziona, anche se la prova del nove deve ancora arrivare con i molti ostacoli che lo attendono già nei primi mesi dell’anno entrante. Fch.

L’agenda politica italiana segnala una singolare continuità: i problemi non si risolvono, si rinviano.
L’Alitalia è tecnicamente fallita e, dopo il rifiuto di possibili acquirenti privati, continua a perdere soldi ripianati dal governo con “prestiti-ponte” che naturalmente non verranno mai restituiti. Ponte verso cosa se tutti gli interlocutori possibili si sono tirati indietro? Il gruppo Atlantia (Benetton) sembrava disposto a tenerla in piedi anche perdendoci un po’ di soldi ma l’evidente contropartita era il rinnovo delle concessioni autostradali; un prezzo che ovviamente il movimento Cinque Stelle, molto esposto in una concezione “punitiva” della concessionaria ritenuta responsabile del crollo del ponte Morandi, non poteva pagare.
Ma anche il nodo delle concessioni verrà al pettine e non potrà essere risolto con la demagogia. Il fatto è che la galassia delle concessioni Atlantia (con al centro “Autostrade per l’Italia”) ha acquisito nel tempo un’esperienza e una capacità di gestione che non sono sostituibili in tempi brevi; il problema evidenziato dalla sciagura di Genova e dallo stato di crisi di molte strutture autostradali non consiste soltanto nella colpevole incuria della concessionaria ma anche nell’assoluta mancanza di controlli da parte del concedente (cioè lo Stato). La soluzione più razionale sarebbe quella di rinnovare la concessione ad Atlantia, ponendo a suo carico le ingenti spese di ristrutturazione della rete oltre al completamento della “Gronda” di Genova, indispensabile a prescindere dalla ricostruzione del ponte Morandi, e al contempo rendendo i controlli più incisivi. Le responsabilità penali e civili del crollo del ponte Morandi verranno accertate dalla magistratura e dovrebbero restare separate dalle ragioni di convenienza che determinano la scelta del concessionario. Ma spesso la politica deve fare i conti con i sentimenti più che con la ragione, e l’indignazione per quanto è avvenuto a Genova e continua a succedere in altri tratti autostradali è troppo forte per consentire una scelta che poteva salvare contemporaneamente la continuità di gestione delle autostrade (con nuove condizioni più stringenti) e Alitalia.
Anche a Taranto la situazione dell’ex-ILVA è in stallo dopo il clamoroso gesto di Arcelor Mittal di denunciare un contratto firmato soltanto un anno fa. Naturalmente le accuse si rimpallano: da una parte si denuncia la mancata attuazione dello scudo penale nei confronti di reati commessi dalle gestioni precedenti, a cui si aggiunge un atteggiamento pregiudizialmente ostile della magistratura che impedirebbe di fatto la realizzazione del piano industriale. D’altra parte si sostiene che la decisione di Arcelor sia in realtà dovuta alla crisi mondiale della produzione di acciaio e forse all’intenzione di fare fallire Taranto per concentrare altrove gli impianti del produttore franco-indiano. Come che sia i sindacati assistono terrorizzati al precipitare della situazione verso una chiusura che aprirebbe una crisi occupazionale ed economica di ampie dimensioni.

Ma il problema è più ampio e profondo. Gli investimenti stranieri se ne vanno dall’Italia e non ne arrivano di nuovi, né i capitali italiani imboscati nei depositi bancari si sognano di emergere. Il nostro paese è considerato ostile alla cultura industriale e non bastano i fattori vantaggiosi che il sistema-Paese può vantare (manovalanza qualitativamente eccellente, centri di ricerca scarsi ma di buon livello, infrastrutture insufficienti ma decorose). Essi non compensano gli aspetti negativi (energia più cara, costi della mano d’opera aggravati da contributi sociali molto elevati, formazione professionale scadente e non corrispondente alla domanda delle imprese, burocrazia invadente, numero eccessivo di livelli di competenza della pubblica amministrazione). E soprattutto la sensazione che non funzioni con la rapidità e l’imparzialità necessarie il sistema giudiziario il quale non appare in grado di garantire un corretto “rule of law”. Questa percezione è aggravata da una situazione politica condizionata da un movimento come i Cinque Stelle apertamente ostile all’economia di mercato che si è manifestata nel precedente governo con un sostanziale blocco di quei pochi adeguamenti infrastrutturali già in cantiere (emblematici i casi della Val di Susa, del terzo valico tra Liguria e Lombardia, della “Gronda” di Genova, e molti altri).
Tutto ciò dovrebbe preoccupare molto di più del debito pubblico, malgrado le dimensioni assurde che esso ha raggiunto. Se un debitore è dinamico e produttivo nessuno spinge perchè riduca la sua posizione debitoria, se è statico e resta chiuso in casa a curare il suo giardinetto, la fiducia dei creditori viene meno e le sollecitazioni speculative diventano incontenibili; non siamo ancora a questo punto ma il rischio comincia ad essere percepibile

In queste condizioni logica vorrebbe che l’attuale esperienza di governo non vada oltre l’approvazione del bilancio e che ci si avvii fatalmente a nuove elezioni. Ma non tutti sono d’accordo; non tanto (o non soltanto) perchè in primavera scadono i consigli d’amministrazione di molte aziende pubbliche o partecipate dallo Stato (anche se il sospetto è lecito), quanto per consentire ai Cinque Stelle di fare definitivamente i conti con se stessi prima di una verifica elettorale. Il movimento infatti sembra spaccato tra due linee di tendenza che la leadership di Di Maio non è riuscita a comporre: da una parte Grillo, tornato prepotentemente sulla scena, favorevole a un’alleanza permanente con la sinistra democratica (accentuando le caratteristiche ambientalistiche delle sue origini), dall’altra i moralisti “puri e duri”, ostili pregiudizialmente a qualsiasi collegamento col passato, fautori di uno “splendido” isolamento in Parlamento e nel Paese. Dalla soluzione di questo conflitto, assai più che da un’improbabile nuova forza centrista, dipendono probabilmente le future maggioranze di governo.

Franco Chiarenza
7 dicembre 2019

 

Vi ricordate di Gioia Tauro? Almeno i più anziani dovrebbero rammentare la quasi guerra civile che scoppiò in Calabria nel 1971 per lo spostamento del capoluogo regionale a Catanzaro e la pressante richiesta “compensativa” di realizzare nella provincia di Reggio Calabria a Gioia Tauro, al posto degli splendidi e giganteschi ulivi che da secoli erano il vanto di quel territorio, un quinto centro siderurgico sul modello di quello realizzato dall’IRI a Taranto, L’acciaio era considerato fondamentale per lo sviluppo economico e ospitare un’acciaieria era sinonimo di benessere e di piena occupazione. Poi il centro siderurgico non si fece e al suo posto sorse il primo porto attrezzato per i “containers” realizzato in Italia, tuttora esistente.
I tempi cambiano: oggi gli impianti siderurgici sono accolti con ostilità. Prevalgono le preoccupazioni sanitarie ed ambientali, e il fenomeno non riguarda soltanto l’acciaio ma in generale tutta la grande industria non più considerata come un’opportunità ma piuttosto fonte di conseguenze negative soprattutto di carattere ambientale. Si tratta di un fenomeno culturale complesso che non riguarda soltanto l’Italia.

De-industrializzazione. E poi?
Per questo la vicenda di Taranto va oltre Taranto e non si esaurirà nemmeno se, prima o poi, il “mostro” verrà abbattuto e le diecimila famiglie messe sul lastrico saranno impiegate, come ho sentito dire, nella bonifica dei terreni inquinati (che peraltro non potrà essere eterna), nel turismo, in fantomatiche industrie agro-alimentari “leggere”. Perchè la spinta alla destrutturazione della nostra economia industriale è molto forte e rappresenta una delle componenti del successo dei Cinque Stelle. Il primo risultato è già visibile: non soltanto diminuisce ulteriormente l’attrattività del sistema-Italia per gli investimenti esteri ma i capitali nostrani fuggono nelle forme più diverse all’estero. In tale contesto anche la fusione FCA – PSA non promette nulla di buono perchè il suo asse portante sarà in Francia e, nonostante le assicurazioni in contrario, nulla garantisce che nella ristrutturazione che ne seguirà, oppure in caso di crisi, a farne le spese saranno soprattutto gli stabilimenti Fiat in Italia. Non si tratta soltanto di convenienze economiche e fiscali ma di un clima di ostilità alimentato anche da settori consistenti dei mass-media e della magistratura consapevolmente complici.
Si vuole cambiare il modello produttivo del Paese, già in crisi per i limiti evidenti dimostrati dal “nanismo” delle imprese? Bene, ma per sostituirlo con cosa?
Le risposte a questa fondamentale domanda sono confuse: si immagina un futuro “bio” basato su una economia “circolare” (che sta a significare il riuso sistemico di tutti gli scarti), energie alternative a ogni forma di combustione, piste ciclabili, infrastrutture mirate soprattutto ai territori municipali, e, in fin dei conti, una riduzione dei consumi non necessari. Un bellissimo sogno fondato sulla sostenibilità ambientale ispirato alle giuste preoccupazioni delle future generazioni per i cambiamenti climatici che avanzano minacciosamente.
Quel che si dimentica in questa visione del futuro è la compatibilità tra i servizi gratuiti o semi-gratuiti che si vogliono assicurare a tutti e le risorse disponibili per farlo. Le risorse provengono dall’imposizione fiscale sui redditi e sui consumi; riducendo gli uni e gli altri diminuiscono inevitabilmente le possibilità di finanziamento pubblico. Ulteriori indebitamenti sono impossibili non soltanto per il debito gigantesco già accumulato ma anche perchè un indebolimento delle tradizionali fonti di reddito (imprese industriali e commerciali) suscita la diffidenza dei mercati e rende problematico il collocamento dei titoli di debito.

Due certezze
Come uscirne? Nessuno può dirlo, tutti hanno le loro ragioni e il dibattito alle volte si trasforma in un dialogo tra sordi, come appunto avviene a Taranto tra chi difende il suo pane quotidiano e chi invoca le priorità sanitarie e ambientali. Credo però che ci sono due condizioni imprescindibili di cui ogni governo – di destra o di sinistra – dovrebbe tener conto. La prima è la gradualità; certi processi, per giusti che possano sembrare, devono comunque essere realizzati riducendo al massimo i costi sociali che comportano. La seconda è la dimensione globale; certi obiettivi devono essere condivisi e perseguiti insieme agli altri, altrimenti si regalano posizioni di vantaggio alla concorrenza internazionale che aggravano ulteriormente la nostra economia. Serve un grande progetto di riconversione industriale a lungo termine da condividere almeno con gli altri paesi dell’Eurozona, se non vogliamo ridurci a diventare un resort di lusso per turisti americani e cinesi in cui l’unica occupazione possibile sarà quella di camerieri. Ecologicamente soddisfatti.

Franco Chiarenza
18 novembre 2019

L’acqua alta a Venezia non è una novità. Il fatto che quest’anno abbia assunto dimensioni inusuali era prevedibile e infatti era stato previsto sin dall’analogo allagamento del 1966. Che si dovesse perciò trovare un modo per mettere in sicurezza la città lagunare fu oggetto di un dibattito internazionale perchè l’integrità di Venezia è considerata da sempre un valore culturale unico al mondo (al di là dei fin troppo facili riconoscimenti dell’UNESCO). Le “leggi speciali” per Venezia si sono infatti susseguite da quel fatidico 1966 fino ad approdare, dopo lunghi dibattiti che divisero gli ambienti culturali e i veneziani, alla decisione di realizzare il MOSE, un sistema di dighe mobili in grado di sbarrare le inondazioni provocate dall’”acqua alta”. I lavori cominciarono nel 2003 (malgrado la decisione fosse di molti anni prima), sono stati più volte interrotti anche per gli scandali legati alle tangenti, sono costati quasi sei miliardi, e non è ancora in grado di funzionare, come ha dimostrato il disastro di questi giorni. Vi sembra normale?

Opere pubbliche infinite
Non è normale ma non è neanche un’eccezione. In Italia la costruzione delle opere pubbliche, anche quando sono decise e finanziate (il che richiede sempre tempi lunghissimi), procede a singhiozzo con continue interruzioni fino a raggiungere tempi infiniti. Vogliamo ricordare il ponte di Messina la cui costruzione fu deliberata con legge nel 1971 e si dovettero attendere 42 anni perchè un altro governo decidesse di non farlo? Pare che molti vogliano riproporlo, mi vien da ridere, se penso che il ponte sull’Oresund tra la Danimarca e la Svezia è stato costruito in sette anni e la galleria sottomarina che congiunge l’Inghilterra alla Francia in otto anni. O vogliamo parlare dell’alta velocità ferroviaria tra Napoli e Bari, decisa dieci anni fa e i cui cantieri si sono finalmente aperti quest’anno, o della grottesca vicenda del traforo della Val di Susa?
Io non entro nel merito dei progetti; ognuno ha i suoi punti di vista ed è lecito discuterne anche a lungo; quello che non funzione è la mancanza di certezze. In uno stato moderno che si rispetti una decisione presa diventa definitiva perchè chi la realizza deve poterla programmare senza interruzioni, senza impedimenti politici, giudiziari, o di ogni altro genere. Ogni interruzione produce danni gravissimi: aumentano i costi, si licenziano le maestranze fino a nuovo ordine, si compromette l’indotto che si attiva attorno a qualsiasi opera di un certo respiro. Da noi è prassi costante che ogni gara d’appalto venga contestata davanti al TAR, ogni ente locale ponga veti e impedimenti per ottenere adegute compensazioni, ogni comitato di cittadini che si ritengono danneggiati chiedano all’autorità giudiziaria di sospendere i lavori, spesso riuscendoci. In questo modo non si va da nessuna parte, le opere pubbliche restano incompiute per decenni, quando vengono realizzate costano il doppio di quanto dovrebbero, le imprese, se non hanno robusti sostegni finanziari, falliscono, la disoccupazione aumenta.

Che fare?
Occorre coraggiosamente disboscare innanzi tutto i tanti enti che a diverso titolo esercitano poteri di interdizione; dico coraggiosamente perchè dietro di essi si nascondono spesso interessi inconfessabili e, nel migliore dei casi, condizionamenti politici. La filosofia del “not in my courtyard” è sempre elettoralmente vincente. Occorre poi separare le responsabilità personali degli appaltatori dalla normale prosecuzione dei lavori; se un magistrato rileva degli illeciti l’opera non venga sospesa, si nominino dei commissari giudiziari che subentrano nella direzione dei lavori, salvo poi, a giudizio definitivo, stabilire le rispettive responsabilità e i danni che ne sono derivati. Basterebbe questo per fare diminuire i tanti ricorsi e denunce strumentali mirati soltanto alla sospensione delle opere (anche nella speranza di poterle rimettere in discussione).
Non si ha idea quanto pesi nella valutazione del sistema-Paese per gli investimenti privati (dall’estero ma anche italiani) questa incertezza del diritto travestita da giustizia. Insieme ad altre cause (lentezza e incoerenza della giurisdizione, sistema formativo inadeguato e non rispondente alle esigenze delle imprese, ecc.) essa è più importante di una tassazione elevata e del costo della mano d’opera. E, al contrario di esse, si tratta di riforme a costo zero, anzi che producono molti vantaggi. C’è chi rema contro coprendo il proprio interesse al mantenimento delle inefficienze del sistema con il richiamo all’onestà (che, secondo loro, richiede controlli e vincoli burocratici sempre più stringenti). Se vogliamo uscire dal pantano bisogna liberarsi di quei rematori e sostituirli con altri che riportino la barca nella corrente della convenienza collettiva. Altrimenti molti cominceranno a pensare che la democrazia non sia in grado di risolvere i problemi del Paese; è già successo esattamente un secolo fa.

 

Franco Chiarenza
17 novembre 2019