Le nuvole si addensavano in cielo già da qualche mese, i tuoni si susseguivano sempre più minacciosi, che poi abbia finito per piovere mi sembra ovvio, e mi stupisce che qualcuno ne sia rimasto sorpreso. Quel che ci si chiede, io per primo, è però un’altra cosa: perchè Salvini abbia aperto una crisi che, almeno in apparenza, non gli conviene, e perchè lo abbia fatto precipitosamente in pieno Ferragosto. Da Di Maio, terrorizzato che la perdita del governo avrebbe rappresentato un fallimento della sua leadership, aveva ottenuto tutto: la TAV, il decreto “sicurezza bis”, il diritto a designare il commissario europeo, una manovra di bilancio incentrata questa volta sulle esigenze elettorali della Lega (come la cosiddetta flat tax).
La domanda quindi è: perchè? La risposta data dal capo della Lega è risibile: troppi no da parte dei Cinque Stelle, perchè ormai i no erano diventati talmente flebili da non essere più percepiti.
E allora?

Qualche ipotesi
Ho sentito Sallusti dire una cosa saggia: se non capisco il perchè di una cosa penso che ci siano dei fatti che non conosco che l’hanno determinata. Se Salvini fa una cosa apparentemente irragionevole un motivo ci sarà e probabilmente noi non lo conosciamo. E’ lecito dunque, anche senza cadere nella fanta-politica, buttare giù un paio di ipotesi.
La prima è che a fronte di una manovra correttiva di bilancio oggettivamente incompatibile con le promesse che ha fatto ai piccoli impenditori settentrionali che costituiscono il “nocciolo duro” del suo consenso (e che ha mal digerito il “reddito di cittadinanza” imposto dai Cinque Stelle) Salvini abbia preferito lasciare ad altri l’onere di sciogliere nodi che si sono ingarbugliati, riservandosi dall’opposizione di riprendere una fruttifera campagna anti-sistema. Anche perchè nel parlamento europeo le cose non sono andate come lui sperava; la nuova Commissione Von der Leyen non farà certamente da sponda a un ulteriore aggravamento del debito pubblico come quello che le esigenze elettorali della Lega avrebbe comportato (il che spiega anche l’imbarazzo di Giorgetti e la sua decisione di rinunciare alla nomina di commissario).
Di fronte a una prospettiva autunnale densa di rischi Salvini ha rovesciato il tavolo; il suo obiettivo non è di andare a votare adesso ma a primavera quando alcuni problemi saranno risolti e lui potrà liberamente attaccare una manovra che sarà inevitabilmente dura. Zingaretti ha mostrato di capire la pericolosità del passaggio e per questo è molto prudente nei confronti di un’alleanza di governo coi Cinque Stelle che servirebbe soltanto a togliere le castagne dal fuoco a Salvini.
C’è anche una seconda ipotesi: che la faccenda dei legami con Putin sia più grave e meno folkloristica di quanto non si voglia far credere e che ciò abbia messo in allarme gli apparati politici e militari americani. Non basta qualche affinità caratteriale con Trump per credere di potersi muovere liberamente in un contesto internazionale quanto mai complicato; l’impressione è che Salvini abbia agito in maniera dilettantesca, come sempre ha fatto quando si trattava di politica estera.
Naturalmente la prima e la seconda ipotesi non si escludono; anzi. E il visibile malumore di Giorgetti, formalmente numero due della Lega, non sembra dovuto a una passeggera indigestione.

La nuova maggioranza
Esistono le condizioni per una nuova maggioranza? E in qual misura è realmente desiderata, o le trattative in corso rappresentano soltanto un “atto dovuto” per consentire poi al Capo dello Stato di sciogliere le Camere (o, in alternativa, di nominare un governo tecnico per l’approvazione del bilancio, fissando le elezioni a primavera?). Lo vedremo nelle prossime ore.
Certamente pesano da una parte l’imprevista scesa in campo di Grillo che, in maniera piuttosto perentoria, ha dettato la linea di una nuova maggioranza di legislatura (mettendo in serie difficoltà Di Maio che potrebbe di fatto venire emarginato), dall’altra il comportamento di Renzi il quale ha agito come leader di fatto del PD, forte della sua maggioranza nei gruppi parlamentari, decisi entrambi a sbarrare la strada a Salvini a qualunque costo. A quel che si dice anche Prodi e Veltroni avrebbero sposato la linea di una maggioranza di legislatura. Ma mentre un governo di emergenza si potrebbe realizzare con relativa facilità, una nuova alleanza di legislatura dopo un governo “di cambiamento” nato e costruito in continua polemica con il partito democratico e la “casta” demo-liberale, presenta difficoltà assai maggiori e forse un regalo elettorale in vista di inevitabili elezioni anticipate.
Mattarella, se leggo bene la sua indecifrabile correttezza istituzionale, mi sembra propenso a correre il rischio di ricorrere subito alle urne; o la va o la spacca. Se Salvini e i suoi alleati avranno la maggioranza governeranno, ma se, come è possibile, né la destra né la sinistra supereranno il 50 per cento dei seggi alla Camera e al Senato il movimento di Grillo, per dimezzato che sia, resterà l’arbitro del gioco. E allora, forse, un patto di legislatrura tra Cinque Stelle e PD (magari senza Di Maio e senza Renzi) potrebbe essere costruito in maniera più solida.

P.S. Qualcuno metta il bavaglio a Macron. Ogni sua interferenza regala voti a Salvini, facendone il campione della dignità nazionale offesa. C’est tellement difficile à comprendre?

 

Franco Chiarenza
24 agosto 2019

Tra i tanti motivi di contrasto tra i partner della maggioranza, forse determinante per la caduta del governo Conte, spicca quello delle cosiddette “autonomie differenziate”, frutto avvelenato dei precedenti governi che pensavano in tal modo di contenere le spinte autonomistiche del “Lombardo-Veneto”. Era prevedibile che il movimento Cinque Stelle, poco sensibile alle istanze autonomistiche e radicato principalmente nel centro-sud, avrebbe colto l’aspetto implicitamente anti-meridionale del pacchetto delle deleghe che peraltro sono figlie della sciagurata riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra nel 2001. Ultima conferma di un tira e molla tra centralismo e federalismo che dura da settant’anni.

La falsa partenza del 1945
Il ripudio del centralismo, considerato erroneamente un’eredità del fascismo (mentre risaliva ai governi liberali dell’800 e in particolare alla riforma amministrativa promossa da Crispi), portò dopo la guerra i principali partiti (e soprattutto i cattolici di sinistra e i socialisti) a comprendere nei loro programmi un regionalismo più o meno accentuato che poi trovò nell’originario titolo V della Costituzione un ragionevole compromesso. Ma una redistribuzione dei poteri era più facile da dire che da fare; ci vollero venticinque anni perchè finalmente le Regioni diventassero operative, dotate di una relativa autonomia di spesa ma sostanzialmente prive di poteri nella destinazione dei propri introiti fiscali. Il centralismo, rifiutato a parole, era tornato ad essere la prassi di governo a cui i partiti della maggioranza (ma anche quelli dell’opposizione in vista di un eventuale ricambio) non volevano rinunciare; anche perchè dove il federalismo era stato realizzato con le Regioni a statuto speciale i risultati erano stati quanto meno problematici.
Aveva cominciato la Sicilia, scossa subito dopo l’occupazione anglo-americana da una ventata separatista, la quale aveva ottenuto nel 1945 (prima ancora dell’avvento della Repubblica) un’autonomia speciale molto avanzata ma che nella sua realizzazione concreta si era dimostrata in gran parte inattuabile; di fatto, al di là di qualche orpello formale, essa si è appiattita sugli stessi poteri delle Regioni ordinarie e comunque ha dimostrato di non riuscire a utilizzare in maniera efficiente i cospicui fondi messi a sua disposizione dallo Stato. Seguirono altre Regioni a statuto speciale, alcune delle quali (come il Trentino-Alto Adige) giustificate da differenze etniche e linguistiche presenti sin dalla loro annessione nel 1919, altre da specificità insulari (come la Sardegna), altre ancora – Friuli Venezia Giulia e Val d’Aosta – da problematiche frontaliere molto pretestuose. La loro specificità consisteva sostanzialmente nella possibilità di affiancare all’autonomia di spesa una certa disponibilità delle proprie entrate fiscali (anche sotto forma di cospicue integrazioni da parte dello Stato come avviene per le province autonome di Trento e Bolzano). In conclusione: una politica disorganica fatta di inseguimenti delle pressioni locali, strattonata tra l’esigenza di non disturbare le prassi clientelari e parassitarie diffuse in alcune regioni soprattutto meridionali e la domanda di maggiore dinamismo che proveniva da quelle settentrionali.

Regionalismo e Mezzogiorno
In realtà il regionalismo si incrociava con l’irrisolta questione meridionale. Per il Mezzogiorno infatti la permanenza di uno Stato centrale in grado di redistribuire le risorse era considerata di fondamentale importanza per la diffusa convinzione che una maggiore autonomia delle regioni settentrionali avrebbe accentuato le differenze strutturali tra le due parti del Paese, facendo venir meno un principio di solidarietà che (almeno a parole) nessuno voleva rinnegare. Era prevalente nella cultura politica l’idea che il gap esistente tra centro-nord e sud potesse essere ridotto soltanto con un massiccio intervento pubblico dello Stato; una concezione che risaliva a Nitti e che fu anche parzialmente realizzata a partire dalla legge speciale per Napoli del 1885 fino alla Cassa per il Mezzogiorno nel 1952, ultimo intervento organico per superare il deficit infrastrutturale prima che le Regioni se ne appropriassero e imponessere logiche clientelari e spartitorie che hanno fatto perdere ogni razionalità alle politiche meridionalistiche.
L’avvento delle Regioni ha messo invece in risalto le differenze tra le diverse parti del Paese nella capacità delle loro classi dirigenti di gestire in maniera efficiente le risorse pubbliche; basti pensare agli esiti assai diversi della regionalizzazione della sanità pubblica. Per contro quella che doveva essere nelle intenzioni una riforma amministrativa basata sul decentramento di molte competenze si è tradotta in una complicazione burocratica per l’assenza di confini netti tra le competenze regionali e quelle statali, le cosiddette “competenze concorrenti”, le quali oltre a generare un contenzioso giudiziario e costituzionale senza fine, hanno anche consentito la permanenza di una burocrazia romanocentrica molto invasiva che, sovrapponendosi a quella delle Regioni, ha determinato una rete di vincoli e ostacoli che non sono l’ultima delle ragioni della scarsa attrattività per gli investimenti produttivi. A questo stato di cose le Regioni settentrionali hanno sempre reagito chiedendo maggiore autonomia, non soltanto nella destinazione della spesa pubblica, ma anche nella gestione delle entrate fiscali; ed è questo il punto che naturalmente preoccupa le Regioni meridionali, le quali, peraltro, invece di proporre un progetto costituzionale alternativo, si limitano a difendere lo status quo.

Autonomie generalizzate
Non da oggi sostengo che, essendo il problema più di mancanza di una cultura politica che non di scarsità di risorse disponibili, la soluzione, anche nell’interesse dei meridionali, sta nel portare avanti per tutti l’autonomia regionale e non di proseguire sulla strada sbagliata delle differenziazioni che la classe politica si ostina a percorrere da settant’anni a questa parte. Lo Stato centrale si occupi della politica estera, della difesa, della giustizia e (in parte) della sicurezza, della politica economica, del commercio estero. Tutto il resto può essere lasciato alle autonomie regionali (un po’ come accade per i lander tedeschi) con un patto nazionale di solidarietà che destini una parte delle risorse delle Regioni più ricche al superamento delle precarie condizioni infrastrutturali di quelle più povere. A questo scopo si potrebbe costituire un’Agenzia nazionale che faccia capo al governo centrale, controllata dal Parlamento, e dotata di risorse sufficienti per invertire la tendenza alla desertificazione del Mezzogiorno che costituisce un danno per tutto il Paese e per l’intera Europa. Autonomie forti anche nelle regioni meridionali significa tentare una rivoluzione culturale liberale che riproponga il principio di responsabilità nella competizione politica, colpisca a morte le pigrizie assistenziali, favorisca la meritocrazia e la competitività, aumenti la produttività, consenta al Sud di diventare attrattivo anche attraverso forme differenziate delle normative fiscali e sindacali. Si tratta di un’utopia? Sostenerlo vuol dire abbandonarsi alla rassegnazione, alla subordinazione, all’emigrazione dei migliori. La verità è che molti non vogliono cambiare perchè difendono con le unghie le pigrizie e i privilegi che una tradizione ancora borbonica consente nell’ambito di una comoda dipendenza da uno Stato centrale al quale si chiede soltanto di erogare misure assistenziali a pioggia quando la tensione sociale diventa eccessiva.

 

Franco Chiarenza
12 agosto 2019

La vera sorpresa di questo governo, inutile nasconderselo, si chiama Giuseppe Conte. Lo dimostrano anche i sondaggi che lo vedono in pole position.
Il che induce a due ordini di considerazioni.

Il mediatore
La prima riguarda l’indubbia abilità di Conte non soltanto nel mediare tra posizioni sempre più divergenti tra i leader della maggioranza (con buona pace del contratto di governo che avrebbe dovuto risolvere tutto in anticipo lasciando a l presidente del Consiglio un ruolo pressochè notarile), ma anche nell’ammortizzare le stupidaggini e la superficialità che caratterizzano la politica estera di Salvini e Di Maio, dai gilet gialli ricevuti con tutti gli onori a palazzo Chigi per fare un dispetto a Macron al “Russiagate” di Salvini. La mediazione di Conte è andata infatti ben oltre: in sostanziale sintonia con il Quirinale e con il ministro Tria ha negoziato con Bruxelles il rinvio della procedura d’infrazione, ha mantenuto la polemica con la Francia in toni accettabili, ha, in qualche modo, guadagnato (almeno personalmente) la fiducia di alcuni leader europei, ha ottenuto la promessa di aumentare gli stanziamenti europei per la TAV Torino-Lione quel tanto che consentisse ai Cinque Stelle di salvare la faccia (visto che la decisione non era ormai più rinviabile e ritenuta ineluttabile dallo stesso Di Maio). Anche sulla questione libica, malgrado le oggettive difficoltà, ha mantenuto la barra dritta sull’appoggio a Serraj e sulla necessità di cercare le soluzioni possibili nell’ambito dell’ONU, vista l’impossibilità di una comune strategia europea. Ma il vero capolavoro è stata la fatidica giornata di mercoledì 24 luglio quando dopo avere salvato i Cinque Stelle assumendo su di sé l’onere della decisione sulla TAV, adducendo motivi di carattere economico e internazionale che in realtà erano conosciuti da tempo, è andato al Senato per confermare la responsabilità di Salvini nell’accreditamento di Savoini a Mosca, ancora una volta favorendo i Cinque Stelle e facendo intendere a Salvini che qualsiasi forzatura passa per una crisi di governo. Come dire che alla fine il jolly in mano ce l’ha lui con dimissioni che aprirebbero una crisi dagli esiti imprevedibili (e che infatti Salvini ha mostrato di temere molto).

Il moderato
Ma, come ho detto, ciò che stupisce è la sua popolarità attestata dai sondaggi. Il che rimanda ad un analogo consenso che si registrò per Gentiloni. La maggioranza degli italiani dunque preferisce personaggi di governo moderati, dal profilo modesto, poco presenti nelle sceneggiate televisive, assenti dal presenzialismo quotidiano sui social; il fatto che poi i voti vadano a personaggi volgari come Salvini, pretenziosi come Renzi, inaffidabili come Di Maio, è dovuto ad altre ragioni che poco hanno a che fare con l’esibizionismo mediatico. Quella che apprezza i toni bassi e la concretezza è una maggioranza silenziosa, spesso probabilmente non giovane, poco condizionabile dalle pagliacciate su internet che tanto divertono le generazioni più abituate ai nuovi linguaggi della politica; forse la stessa maggioranza che aveva sperato anni fa che il protagonismo di Renzi, anche se un po’ al di sopra delle righe, avrebbe avviato un processo di riforme istituzionali e strutturali di cui tutti sentivano la necessità. Quando Renzi, malgrado alcuni risultati positivi, finì affondato dalla sua arroganza, da un esercizio del potere che non aveva cambiato i vizi strutturali del PD, e da una riforma costituzionale mal gestita e percepita come un tentativo quasi autoritario (anche se non lo era) la “maggioranza silenziosa” apprezzò Gentiloni il quale con il reddito di inclusione e una credibile politica estera fondata su solide alleanze avrebbe forse salvato il PD dal naufragio elettorale se Renzi e il partito stesso non lo avessero continuamente delegittimato. Forse è la stessa maggioranza che ha votato Cinque Stelle perchè stufa della corruzione imperante a tutti i livelli che il PD sembrava proteggere invece di combatterla; ma è bastato un anno per rendersi conto che il dilettantismo al potere non risolve i problemi ma li aggrava. Così ha rapidamente cambiato tiro rifugiandosi nella Lega nazionalista guidata da uno spaccone, il quale però, almeno sulla questione della sicurezza (collegata all’immigrazione clandestina) sembrava meglio interpretare sentimenti largamente condivisi (se a ragione o a torto poco importa). Questa maggioranza fluttuante, non più ancorata a certezze ideologiche, diffidente ma al tempo stesso disponibile a qualsiasi promessa di cambiamento, preoccupata per il futuro, esiste; non frequenta la piattaforma Rousseau, non mette i like alle volgarità di Salvini, chiede un progetto per fare uscire l’Italia dalla stagnazione, sa che la strada per farlo non può consistere nè nell’assistenzialismo del reddito di cittadinanza né nelle pensioni anticipate.

Cosa c’entra questo discorso con Conte? Forse più di quanto oggi si pensi. Sono in molti a chiedersi cosa farà Conte da grande. Lui dice che dopo questa esperienza di governo tornerà ad insegnare all’università; può darsi. Anche Coriolano tornò a coltivare la terra finchè qualcuno lo richiamò a Roma. Da sempre la politica è bella anche perchè è spesso sorprendente.

 

Franco Chiarenza
27 luglio 2019

L’estate si avvicina e tutto sembra immobile; una lunga sosta in una congiuntura mondiale che non potrebbe permetterselo. L’Unione Europea è in attesa del suo prossimo Esecutivo; dopo avere approvato la nomina di Ursula Von Der Leyden alla presidenza della Commissione il Parlamento dovrà esprimersi sulla composizione della Commissione stessa secondo le indicazioni che verranno dalla nuova presidente e dal Consiglio. Nel frattempo bisognerà attendere gli sviluppi della Brexit che dipenderanno in gran parte dalla nuova leadership del partito conservatore che sostituirà Theresa May. Incombe poi la “questione italiana” che non è riducibile a un problema interno di casa nostra per le conseguenze che essa può avere sugli equilibri europei: non si tratta soltanto del deficit per eccesso di debito o del blocco dei porti alle ONG, ma in generale di una politica estera ondivaga che sembra mettere in discussione le alleanze tradizionali a cominciare dalla stessa NATO. Che il governo Conte riesca a sopravvivere o meno poco cambia se nuove elezioni dovessero confermare il risultato elettorale conseguito da Salvini. Vi sono poi altre due incognite: quale sarà la linea politica del nuovo governo greco guidato dal conservatore Mitsotakis e cosa accadrà in Spagna dove il governo socialista di Sanchez soffre della mancanza di una maggioranza sicura. Nè gli stati europei possono ignorare la guerra civile in Libia che rischia di destabilizzare ulteriormente l’intero bacino del Mediterraneo; una questione che dovrebbe interessare tutti i partner dell’Unione e non soltanto i paesi che vi si affacciano. Sarebbe auspicabile – almeno in questo caso – evitare che i paesi europei procedano in ordine sparso pestandosi i piedi.

L’Italia sospesa
Anche in Italia la stabilità del governo è messa a dura prova dalle continue diffide che si lanciano i due partiti della maggioranza; l’imperturbabile presidente Conte continua a dire che “tutto va bene” e che si tratta di “normale dialettica”. Ma non è molto normale l’infinita serie di dichiarazioni ostili che si scambiano i due vice presidenti.
La verità è che entrambi i partiti della maggioranza si trovano in difficoltà: la popolarità della Lega è messa a rischio non certo dalle sfide un po’ donchisciottesche delle ONG (puntualmente esaltate dalla Francia) ma piuttosto dalla vicenda dei finanziamenti russi scoppiata proprio mentre Putin veniva accolto trionfalmente a Roma (sarà un caso?). Anche il contrasto con i Cinque Stelle sulle prossime misure economiche (salario minimo o flat tax?) diventa in questo contesto cruciale per recuperare il consenso degli imprenditori del centro-nord messo duramente alla prova dalle priorità fissate dai Cinque Stelle (e dalla stessa Lega), cioè reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni.
Ma il movimento di Di Maio sta peggio: perde pezzi, è fortemente contestato da molti militanti, è diviso su questioni importanti come quelle esplose a Torino sul salone dell’auto (emigrato a Milano), rischia di rimettere in discussione il salvataggio dell’ex-ILVA di Taranto, è costretto per salvare l’Alitalia a chiedere aiuto all’odiata Atlantia (la holding che controlla la società Autostrade nel mirino dei Cinque Stelle dopo il crollo del ponte Morandi); persino sulla TAV Torino-Lione arrivano segnali di cedimento. La Capitale, vetrina obbligata dell’intero Paese, affoga tra i rifiuti non raccolti mentre gli autobus prendono fuoco, le strade sono rimaste groviere impercorribili e tutti i progetti di rilancio, a cominciare dal discusso stadio della Roma, restano nei cassetti; dopo tre anni di amministrazione Raggi è impossibile dare la colpa ai predecessori e la sindaca ricorre all’aiuto di Stato, seguendo appunto la prassi di alcuni suoi predecessori (Alemanno).

 

Franco Chiarenza
16 luglio 2019

In tempi relativamente brevi l’Unione Europea ha deciso i nuovi vertici istituzionali dopo le elezioni del 26 maggio. L’asse franco-tedesco è riuscito a imporre ancora una volta le proprie scelte giocando la partita anche sulla scadenza del governatore della Banca Centrale: alla presidenza della Commissione è stata designata Ursula Von Der Leyen, democristiana tedesca molto legata alla cancelliera Merkel mentre il posto di Draghi alla presidenza della BCE verrà occupato da Christine Lagarde, centrista francese in totale sintonia col presidente Macron e direttore uscente del Fondo Monetario Internazionale. Sono le due cariche che contano: le altre sono di contorno. La presidenza del Consiglio Europeo, che si limita a coordinare i lavori del massimo organo decisionale dell’Unione, è andata a Charles Michel, liberale belga, alla presidenza del Parlamento, puramente rappresentativa, è stato eletto un italiano, David Sassoli, esponente socialista in opposizione all’attuale maggioranza che governa in Italia, mentre il coordinamento dell’inesistente politica estera europea, dove Renzi aveva confinato l’ineffabile Federica Mogherini, è stato affidato al socialista spagnolo Josep Borrell. Scelte che hanno suscitato qualche malumore nel parlamento di Strasburgo più per ragioni di metodo che di sostanza.
In questo modo Macron e la Merkel hanno chiuso una trattativa che ribadisce il loro ruolo direttivo e prende atto dell’esistenza di una maggioranza nel parlamento di Strasburgo composta dai tre partiti tradizionali dell’Unione: popolari (democristiani), socialisti e liberali, con la probabile aggiunta dei verdi. Le minoranze sovraniste e nazionaliste, uscite molto rafforzate dal voto di maggio, sono riuscite soltanto a bloccare l’elezione del socialista Leo Tindemans alla presidenza della Commissione avvalendosi anche del contributo di undici governi (tra cui l’Italia), ma hanno dovuto poi subire il diktat franco-tedesco che ha portato al vertice della Commissione un’esponente del partito popolare che, contrariamente a Tindemans e Warner, non si era esposta in campagna elettorale come candidata: in pratica il “corridoio” ha prevalso sulla trasparenza e questo non è un buon inizio per la nuova governance europea.

La vera posta in gioco era in realtà la presidenza della Banca Centrale di Francoforte. La successione di Draghi era cruciale: una politica monetaria restrittiva che rimettesse in discussione le scelte coraggiose del banchiere italiano, come forse volevano parti importanti dell’establishment tedesco, proprio nel momento in cui si stanno realizzando passaggi importanti verso l’unione bancaria, era considerata con preoccupazione da Macron (e forse anche da Merkel). Concedendo però alla Francia la guida della regolazione monetaria e bancaria diventava impossibile per la Germania non tornare a casa senza la presidenza della Commissione che, peraltro, non dispiaceva a Macron probabilmente preoccupato delle aperture “sociali” di Tindemans. La sorpresa, un vero coniglio tirato fuori dal cappello all’ultimo momento, è stata la scelta della candidata, Van Der Leyen invece di Weber che era stato designato dal partito. Una donna energica, attualmente ministro della difesa, considerata europeista convinta e lontana da quegli imbarazzanti cedimenti nei confronti della “democrazia illiberale” di Orban di cui invece Weber era stato accusato. Se quindi Van der Leyen supererà il voto dell’assemblea di Strasburgo (meno scontato di quanto si pensi) avremo probabilmente una presidenza forte in grado di guidare con fermezza una commissione molto frammentata in cui la distribuzione delle competenze sarà fondamentale.

La difficile partita di Conte.
La posizione dell’Italia si presentava molto difficile e il presidente Conte (probabilmente con la regia occulta del Quirinale) l’ha giocata meglio che poteva. Di fatto era evidente che il nostro Paese non poteva ambire alle posizioni più importanti, però era possibile contrattare il voto italiano nel Consiglio in cambio di una sospensione della procedura d’infrazione (una patata bollente che peraltro la vecchia Commissione già intendeva trasferire ai suoi successori) e un posto nella Commissione di sufficiente prestigio. Ottenuto il primo risultato – peraltro con impegni di riduzione del debito pubblico che appaiono poco realistici – ora si deve decidere sul commissario; scelta non facile che Conte si è affrettato a “girare” a Salvini, riconoscendolo come rappresentante di una maggioranza di fatto. Il rischio è che una candidatura troppo esposta sulle idee sovraniste rischia di non ottenere il necessario placet dell’assemblea di Strasburgo: per questo motivo probabilmente Giorgetti non vorrà correre il rischio di una bocciatura e circolano nomi più digeribili come quello dell’illustre revenant Giulio Tremonti.
Staremo a vedere. Quello che è certo è che l’Italia esce molto indebolita dai nuovi assetti europei: sostanzialmente isolata sul problema dei migranti, in bilico per una possibile procedura d’infrazione per eccesso di deficit, esclusa definitivamente dalle “intese rafforzate” tra Francia e Germania, ininfluente nella guerra civile che sta devastando la Libia. Nè va meglio fuori dall’Europa: le carezze di Di Maio a Xi Jinpeng come gli abbracci di Salvini a Putin nascondono il vuoto ma suscitano ulteriori diffidenze a Washington. Perché finché i nostri sovranisti operano per deligittimare l’Europa Trump non ha nulla da obiettare (anzi!) ma aprire le danze con la Cina e la Russia significa giocare col fuoco. Col rischio di bruciare non soltanto Di Maio e Salvini ma anche l’Italia nel suo complesso.

 

Franco Chiarenza
7 luglio 2019

La vicenda della Sea Watch su cui ci si sta accapigliando in Italia (e altrove) è al tempo stesso molto semplice e assai complessa. Semplice nella sua dinamica: una nave appartenente a una ONG prende a bordo una quarantina di naufraghi abbandonati in mare dai soliti scafisti criminali. Con ciò si chiude l’aspetto umanitario della vicenda, i naufraghi risultano al momento dello sbarco in buone condizioni di salute (quelli che non lo erano erano già stati portati a terra), e si apre invece una complicata questione politica che non riguarda più i naufraghi come persone (posto che il loro ricollocamento in Italia o in altri paesi, dato il numero esiguo, non costituisce un problema) ma questioni di principio politiche con notevoli ricadute giuridiche.
Da una parte c’è Salvini, azionista di maggioranza di un governo che proprio sul problema dell’immigrazione clandestina ha raccolto il consenso elettorale con un preciso mandato di ridurre drasticamente il suo impatto sulla popolazione civile, il quale, in coerenza con gli impegni presi con l’elettorato, ha chiuso alle ONG l’accesso ai porti italiani; dall’altra c’è una ONG che ha assunto un atteggiamento chiaramente provocatorio con l’intenzione evidente di forzare il blocco e dimostrare così che la strada è di nuovo aperta al trasferimento dei profughi in Italia. C’è poi il governo olandese coinvolto direttamente per il fatto che il Sea Watch batte bandiera olandese e quindi, secondo il governo italiano, avrebbe dovuto farsi carico dei profughi. Non basta: c’è in gioco anche la Commissione dell’Unione Europea vincolata da un trattato (trattato di Dublino) che l’Italia non vuole più riconoscere e che gli altri stati dell’Unione rifiutano di modificare nella parte che più interessa l’immigrazione clandestina, gli oneri che ricadono sul paese di primo sbarco.
Una matassa difficile da sbrogliare in cui tutti hanno le loro ragioni e i loro torti ma che non consente forzature illegali e inopportune come quelle che la giovane comandante della Sea Watch ha compiuto a Lampedusa.
Intorno alla vicenda si è quindi giocata una partita politica senza esclusione di colpi che ha lasciato sul terreno una sola vittima, la possibilità di raggiungere un accordo ragionevole su scala europea. Questioni di principio, preoccupazioni elettorali (anche negli altri paesi europei), interpretazioni giuridiche, forzature “umanitarie” pretestuose, si sono mescolate in un intreccio che sarà difficile da sbrogliare. Salvini ha condotto la partita come un gatto col topo: alla fine il topo è rimasto vivo ma il leader della Lega ha dimostrato agli italiani di essere un vigile interprete delle loro preoccupazioni, e ai paesi dell’Europa del Nord le contraddizioni implicite nei loro comportamenti. La sinistra e i radicali si sono prestati alla finzione umanitaria che faceva da schermo a una sostanziale provocazione sperando di averne qualche vantaggio in termini di consenso elettorale ma non si vede una strategia realmente alternativa a quella della Lega in grado di aggregare consenso. L’ONG responsabile di questa vicenda voleva probabilmente dimostrare che Salvini è soltanto una “tigre di carta” e che la politica di chiusura dei porti non funziona, ma il costo ha finito per risultare troppo alto per un risultato tanto modesto.

Punto a capo
Bisogna ripartire da zero per cercare una soluzione che vada oltre il braccio di ferro che è stato ingaggiato tra la destra italiana e i paesi del Nord Europa che vedrebbero volentieri l’Italia svolgere con i profughi africani la stessa funzione di serbatoio che la Turchia garantisce nei confronti di quelli provenienti dall’Est. La riforma del trattato di Dublino è urgente: altrimenti Salvini avrà buon gioco a pretenderne una denuncia unilaterale.
Naturalmente però il problema vero è in Libia: è lì che bisogna intervenire con misure di breve e lungo termine. Nell’immediato, perché non chiedere all’Unione Europea di promuovere un intervento armato umanitario, autorizzato dall’ONU e affidato all’Unione Africana (per evitare accuse di neo-colonialismo), per il controllo e la gestione dei campi profughi? Con un adeguato supporto logistico e finanziario la cosa sarebbe realizzabile senza eccessive difficoltà e senza interferire più di tanto nella guerra civile in atto in quel paese.
Nel frattempo però non si può lasciare alle ONG, di alcune delle quali non sono chiari né i finanziamenti né gli obiettivi reali, il potere di decidere quali e quanti profughi trasferire in Italia. Ovviamente si dirà che le navi delle ONG si limitano a raccogliere i naufraghi ma, anche senza sospettare connivenze non dimostrate, è evidente che gli scafisti che continuano a gestire l’emigrazione clandestina sanno bene dove e quando fare incrociare le imbarcazioni abbandonate con mezzi di soccorso che non riportino indietro i profughi. Il risultato paradossale, al di là di ogni esigenza umanitaria (che va comunque sempre assicurata), è che coloro che vengono salvati non sono i più disgraziati ma quelli che hanno potuto pagare gli scafisti, alimentando così i loro loschi profitti!

Il futuro
La questione dell’immigrazione considerata in una proiezione a lunga scadenza passerà inevitabilmente dall’apertura delle frontiere (nostre ma pure degli altri paesi europei), anche per esigenze obiettive imposte dal crollo demografico; il problema riguarda i tempi e le modalità con cui effettuare tale trasmigrazione (perché di questo si tratterà) modificando le nostre leggi che oggi rendono problematico e illegale l’utilizzo degli immigrati, ma anche evitando che l’Italia venga utilizzata come un gigantesco campo profughi in cui concentrare tutti gli immigrati e da cui attingere eventualmente soltanto in base alle necessità di ciascun paese europeo. Il che avverrà inevitabilmente se i porti restano aperti, gli sbarchi consentiti e, al contempo, vengono chiuse le frontiere terrestri in palese violazione degli accordi di Schenghen (pudicamente dichiarati “sospesi”).
Il problema delle frontiere esterne dell’Unione è strettamente legato alla riapertura di quelle interne. O si risolve affidando all’Unione il compito di vigilarle con mezzi adeguati (anche paramilitari), eliminando definitivamente quelle interne e riattivando senza deroghe e “sospensioni” la libera circolazione all’interno dei paesi europei che hanno aderito allo “spazio Schenghen, oppure i “sovranismi” troveranno una loro giustificazione. L’obbligo di accogliere e registrare i profughi da parte dei paesi di “primo ingresso” (che è la questione che divide i paesi più esposti dagli altri) può essere mantenuto soltanto se accompagnato dall’apertura delle frontiere interne e da misure di accoglienza gestite dall’Unione e rese obbligatorie per tutti. E’ tempo di rimettersi intorno a un tavolo senza preclusioni pregiudiziali; vale per l’Italia ma anche per gli altri partner sempre pronti a invocare la solidarietà e a non praticarla.

Il fantomatico “piano Marshall” per l’Africa
Molti sono quelli che cercano di eludere problemi immanenti con fughe in avanti come immaginare un fantomatico “piano Marshall” per l’Africa che in tempi brevi dovrebbe consentire agli africani di restare a casa loro in condizioni esistenziali accettabili. L’ho pensato anch’io ma mi sono convinto che:

  1. per realizzarlo occorrono risorse molto rilevanti (che dubito i paesi europei sarebbero disposti a impegnare) e tempi talmente lunghi da non incidere sulle spinte migratorie.
  2. un piano coordinato di interventi dovrebbe essere accompagnato da una rinuncia di alcune potenze europee ex-coloniali a gestire strategie di sostegno strettamente legate ai propri interessi (Francia, Italia, Gran Bretagna ma anche Germania, ecc).
  3. il piano ERP funzionò dopo la guerra nell’Europa occidentale anche perchè si accompagnò alla presenza di una classe dirigente responsabile, formata secondo principi omogenei, preparata a gestire la complessità dell’economia. Purtroppo non mi pare che, nella maggioranza dei casi, tali condizioni esistano nell’Africa equatoriale e meridionale (con qualche eccezione: Sudafrica, Kenya, Etiopia e pochi altri).
  4. l’unica cosa realizzabile concretamente in tempi brevi è l’avvio di una politica di integrazione, collegata con l’Unione Europea, nei paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo (Magreb, Egitto, Libano). L’Italia potrebbe proporlo insieme agli altri paesi meridionali dell’Unione, Francia, Spagna, Grecia, Malta.
    Condizioni complessivamente difficili che richiederebbero da parte dell’Europa uno sforzo unitario che non pare all’orizzonte e che comunque frenerebbero l’emigrazione ma non la fermerebbero per la semplice ragione che è l’Europa che tra pochi anni avrà bisogno degli immigrati per sopravvivere.

Piuttosto bisogna pensare a come selezionare l’immigrazione, come garantire la loro integrazione, come formare le nuove generazioni (nostre e loro) a convivere in una situazione così diversa, con la consapevolezza che i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra identità nazionale ed europea può anche passare attraverso l’integrazione degli immigrati secondo la grande lezione che ci proviene dalla storia dell’impero romano e che si è ripetuta molti secoli dopo negli Stati Uniti d’America.

 

Franco Chiarenza
1 luglio 2019

Le previsioni più o meno sono state rispettate. Poche sorprese quindi dai risultati delle elezioni per il rinnovo del Parlamento dell’Unione Europea. Ora che il temporale è passato mostrandosi meno devastante dello tsunami che alcuni avevano a più riprese preannunciato, cerchiamo di capire quali sono le conseguenze che dovremo trarne: in Europa e in Italia. Naturalmente dal nostro punto di vista, quello del “liberale qualunque”.

In Europa

  1. I “sovranisti” sono cresciuti (come previsto), ma non fino al punto di rovesciare l’ampia maggioranza europeista. Essendo molto divisi tra loro potranno costituire un blocco frenante ma non ispirare un progetto alternativo, come dicono di voler fare.
  2. I popolari (democratici cristiani) sono diminuiti (come previsto) ma restano il primo partito in Europa. Sono però deboli perchè riflettono le difficoltà del paese in cui hanno maggior peso, la Germania. Il loro candidato alla presidenza della Commissione (Manfred Weber) potrebbe non farcela.
  3. La vera (e unica) sorpresa è costituita dai Verdi che sono cresciuti ovunque e potrebbero essere determinanti per le future maggioranze parlamentari. Hanno le idee chiare, una leadership credibile (sia in Germania che in Francia), inseriscono perfettamente la loro sensibilità ambientale nelle istituzioni dell’Unione che difendono senza riserve (euro compreso).
  4. I liberaldemocratici hanno consolidato la loro terza posizione. Purtroppo in gran parte per l’apporto dei liberali inglesi (che hanno raccolto molti voti anti-Brexit) che verrà meno quando l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione giungerà a compimento, probabilmente in ottobre.
  5. Il sorpasso dei sovranisti francesi sul partito di Macron non è una sorpresa. I candidati “europeisti” hanno sempre prevalso sulla destra soltanto al ballottaggio; il voto europeo conferma che la Francia è purtroppo spaccata in due e lo resterà per molto tempo, come la Gran Bretagna. Sarà un caso che entrambe siano ex-imperi coloniali che scontano resistenze nazionaliste, certamente irrazionali ma in grado di aggregare i tanti motivi di protesta che inevitabilmente si formano in una società democratica? Comunque non vi saranno conseguenze a breve termine per Macron; la sua debolezza non deriva dall’incalzare di Marina Le Pen ma dal venir meno (per diverse ragioni) di interlocutori credibili in Germania e in Italia con cui fare blocco in Europa.
  6. In Gran Bretagna le elezioni hanno assunto inevitabilmente il carattere di un secondo referendum sulla Brexit. Non stupisce quindi il successo dell’anti-europeista Farange, peraltro compensato dall’avanzata dei liberal-democratici (europeisti) e dalla tenuta dei laburisti (molti dei quali europeisti). Ne esce, ancora una volta, un paese diviso a metà che la nuova leadership conservatrice non potrà facilmente governare. Nuove elezioni saranno inevitabili, salvo un improbabile accordo tra conservatori e laburisti per una soft Brexit. Ma nel frattempo cosa sarà successo in Europa?

In Italia

A giudicare dal comportamento elettorale degli italiani sembra quasi che il loro Paese non si trovi in Europa. La dinamica e le ragioni del voto italiano non corrispondono infatti a quelle degli altri grandi paesi europei.

  1. La Lega cresce anche oltre il 30% già previsto. Ma il consenso trasversale che raccoglie dovrebbe preoccupare Salvini per le contraddizioni interne che lo caratterizzano. Buona parte del nord (compreso il Piemonte strappato al PD) che ha votato la Lega con percentuali “bulgare” non condivide posizioni estremistiche contro l’Unione europea e non metterebbe mai a rischio i vantaggi che gli sono derivati dall’apertura dei mercati; anche perché si tratta spesso di elettori che provengono da settori moderati che in passato avevano votato Forza Italia o Cinque Stelle. Mettere insieme tante diversità per una proposta credibile, al di là degli slogan, sarà difficile: in Italia e in Europa.
  2. Il crollo dei Cinque Stelle (ampiamente preannunciato dai sondaggi) è andato oltre le più fosche previsioni, soprattutto al centro-nord. Ma non bisogna credere che il movimento di Grillo e Casaleggio stia per scomparire dalla scena: perderà ancora qualche pezzo (tra cui probabilmente Roma e Torino dove i risultati elettorali sono suonati come mozioni di sfiducia per le relative sindache pentastellate) ma, riordinate le idee, manterranno un forte potere di condizionamento, soprattutto nel sud. Se risolvessero alcuni problemi di democrazia interna e orientassero la loro immagine più sull’ambientalismo (sviluppo sostenibile) e meno sul giustizialismo e su misure assistenziali che hanno alimentato un consenso sostanzialmente clientelare, la loro collocazione europea potrebbe avvicinarsi ai Verdi.
  3. Il partito democratico ha mostrato segni di ripresa, soprattutto in alcune elezioni amministrative. Tuttavia il tentativo di Calenda di raccogliere attorno al PD tutte le forze europeiste e anti-salviniane, a prescindere dagli orientamenti socialisti o liberal-democratici, è fallito, anche perchè si risolveva in una confluenza confusa nel partito socialista europeo. L’elettorato liberale si è diviso tra +Europa (ALDE), PD (PSE), e FI (PP), ritrovandosi nella penosa situazione di non essere rappresentato in Europa da nessuno.
  4. Emma Bonino non è riuscita a superare la soglia del 4%. Le ragioni sono sostanzialmente tre: la sfiducia nella possibilità di raggiungere il quorum che ha indotto molti a votare Calenda (e anche Berlusconi), veti e obiezioni di carattere personale soprattutto nei confronti di Tabacci e Della Vedova, la mancanza di una proposta programmatica più visibile e originale di quanto non sia stata. Il risultato raggiunto in condizioni così difficili è comunque positivo e induce noi liberali a sperare che possa costituire in futuro il nocciolo duro su cui costruire una partito di centro, laico e liberale, integrato in Europa a pieno titolo nella nuova alleanza tra Macron e l’ALDE.
  5. I risultati della giornata elettorale del 26 maggio complessivamente considerati (con le elezioni regionali e in molte città) fanno fare oggettivamente un passo avanti al progetto berlusconiano di una “grande destra” a guida moderata perché dimostrano che Salvini non può fare a meno dell’appoggio di Forza Italia per conquistare la maggioranza (come infatti è avvenuto in Piemonte). Salvini e Meloni però, pur temendo l’isolamento (soprattutto in Europa dove la mediazione “popolare” di Berlusconi sarà necessaria per non restare esclusi dai giochi), non vogliono d’altra parte avere “nemici a destra”. Ricordate il vecchio slogan della sinistra “nessun nemico a sinistra”? Ora lo praticano anche le destre per non lasciare a Casa Pound il monopolio del nostalgismo, che qualche peso, soprattutto in termini di militanza, pure lo dà. A questo pasticciato intrigo tutto è consentito tranne l’uso del termine “liberale”.

Qualcuno chiederà: e il governo Conte che fine farà? Non lo sa nessuno perché nessuno vuole assumersi la responsabilità di farlo cadere. E’ condannato a morte dai risultati elettorali del 26 maggio ma – come il Bertoldo della seicentesca novella – ha chiesto la grazia di scegliere l’albero a cui essere impiccato. Potrebbe passare ancora un bel po’ di tempo. Resto comunque convinto che la spina la staccheranno i Cinque Stelle anche a costo di elezioni anticipate che li vedrebbero fortemente ridimensionati. Salvini infatti appena chiuse le urne si è affrettato a dichiarare che il governo potrà continuare ma ha invertito l’ordine delle priorità mettendo subito in difficoltà Di Maio. Il quale si trova anche a fronteggiare un visibile disagio dei gruppi parlamentari destinati alla decimazione un po’ per il calo del consenso elettorale ma anche per l’assurda regola dell’”inesperienza al potere” in base alla quale i pentastellati non possono avere più di due mandati. Altrimenti si corrompono.

 

Franco Chiarenza
28 maggio 2019

Il 26 maggio si voterà per il nuovo parlamento europeo. E’ un appuntamento importante per diverse ragioni:

  1. perché il parlamento europeo svolge un ruolo fondamentale in molte materie ma soprattutto nella elezione della Commissione e nell’approvazione del bilancio comunitario. Un cambiamento di maggioranza avrebbe ripercussioni dirette su tutti i paesi dell’Unione.
  2. perché l’Unione sta attraversando un momento cruciale della sua esistenza. Attaccata all’interno da chi vuole farla regredire a una zona di libero scambio, all’esterno da chi ne teme le potenzialità se procedesse nell’integrazione (Russia, Cina ma anche Stati Uniti da quando Trump ha rilanciato uno sbilenco isolazionismo), essa si trova in mezzo a un guado dove rischia di marcire.
  3. perché l’Europa deve affrontare alle sue frontiere crisi difficili e sfide decisive: a) i flussi migratori dal Medio Oriente e dall’Africa. b) il conflitto armato in Ucraina. c) la Brexit, con i problemi di assestamento che comunque comporterà. d) la guerra civile in Libia.
  4. perché al suo interno e nelle immediate vicinanze stanno affermandosi sistemi di governo illiberali e obiettivamente in contrasto con i principi di diritto su cui l’Unione è stata fondata (per esempio l’Ungheria di Orban o la Turchia di Erdogan).

Tutte ragioni che dovrebbero fare riflettere coloro che pensano che il parlamento europeo sia un organismo inutile e che le cose che contano siano soltanto quelle di casa nostra. Infatti non è così: dalle istituzioni europee dipendono molte regole, vincoli, finanziamenti che riguardano anche noi. Inutile lamentarsi di ciò che l’Unione Europea fa o non fa se poi non si va a votare per i nostri rappresentanti al parlamento europeo, quasi che la loro scelta sia sostanzialmente indifferente. Il tempo in cui i partiti mandavano a Strasburgo personaggi espulsi dai circuiti del potere nazionali, come compenso per i servizi resi, è finito per sempre. Oggi è in Europa che si giocano le partite decisive e bisognerebbe fare attenzione a chi ci mandiamo.

Tutto ciò premesso; votare per chi?
Un liberale non dovrebbe avere dubbi: per chi rappresenta nella dimensione europea i valori liberali. Quindi per l’alleanza dei liberal-democratici europei, rappresentata in Italia dalla lista + Europa di Emma Bonino.
Sento molti liberali, o comunque vicini al liberalismo democratico, tentati di votare per il partito democratico o per il partito di Berlusconi, con la motivazione di evitare di disperdere il voto (perché + Europa potrebbe non raggiungere la soglia del 4%). E’ un grave errore, compiuto anche in passato quando è servito a convogliare voti di minoranza in grandi aggregazioni partitiche dove sono annegati senza lasciare traccia.
Se + Europa avesse accettato l’offerta di Zingaretti di confluire in una lista unica (naturalmente egemonizzata dal partito democratico) come avrebbe voluto Calenda, l’unico risultato concreto sarebbe stato di perdere i voti di chi – europeista e liberal-democratico – non intendeva confondersi con i socialisti europei. Perché deve essere chiaro che il partito democratico è per origini, per scelta (soprattutto dopo l’elezione di Zingaretti alla segreteria), per affinità politiche e culturali, una componente importante del partito socialista europeo affiliato all’Internazionale socialista. Mentre Forza Italia, malgrado le rivendicazioni “liberali” del suo leader, è in realtà un partito conservatore che aderisce al partito popolare europeo dove affluiscono tutte le componenti politiche moderate di ispirazione cristiana.
Naturalmente si può discutere se tali distinzioni, ereditate dal secolo scorso, abbiano ancora un fondamento; non vi è dubbio infatti che le differenze siano diventate nel tempo molto sottili con il tramonto delle ideologie totalizzanti e delle alternative di sistema, ma forse qualche diversità ancora esiste, e comunque esistono elettorati che ritengono che ci siano ancora.

Non vi è dubbio che nel futuro parlamento europeo il problema di fondo da risolvere sarà un altro, e qui la divisione sarà netta. Da una parte chi ritiene che di fronte al cambiamento degli scenari geopolitici l’Europa debba serrare le fila e presentarsi più unita possibile, il che significa, in pratica, rinunciare almeno in parte alle sovranità nazionali nella politica estera e in quella della difesa comune, dall’altra coloro che, al contrario, pensano che la crisi europea possa essere meglio affrontata restituendo piena libertà di manovra ai singoli stati, riducendo la Comunità alla semplice gestione di un’area di libero scambio o poco più. E’chiaro che la maggioranza che dovrà esprimere la nuova Commissione non potrà eludere questo fondamentale dilemma: da una parte quindi ci saranno popolari, socialisti, liberali (e probabilmente ambientalisti verdi), dall’altra “sovranisti” variamente raccolti su una prospettiva riduzionista.
In tale contesto è facile prevedere dove si collocheranno la Lega, Fratelli d’Italia e i movimenti di estrema destra, e in contrapposizione democratici, radicali e berlusconiani; la domanda è, dove andranno i Cinque Stelle? Non lo sanno nemmeno loro, il loro movimento è un “ircocervo” (come lo avrebbe definito Benedetto Croce) sovranista per certi aspetti, europeista per altri. Si attendono istruzioni da Grillo e Casaleggio.

Noi liberali intanto votiamo + Europa.

 

Franco Chiarenza
6 maggio 2019

 

Il sottosegretario Armando Siri è indagato per reati molto gravi di corruzione connessi anche a possibili legami mafiosi. Il movimento Cinque Stelle ne ha chiesto le dimissioni e il presidente Conte le ha pretese, Secondo un sondaggio pubblicato da “Il fatto quotidiano” il 71% degli italiani sostiene che Siri deve dimettersi. Che dire? Da liberale dico che il movimento di Grillo e il 71% degli italiani ignorano cosa sia lo stato di diritto.

In un paese normale (dal mio punto di vista) Siri, condannato tempo fa con rito abbreviato (che comporta l’ammissione di colpevolezza) per bancarotta fraudolenta, non avrebbe mai dovuto essere nominato sottosegretario. E stupisce che il Quirinale, tanto attento ai “curricula” dei membri del governo, non l’abbia a suo tempo fatto rilevare.
Ciò premesso allo stato delle cose Siri è semplicemente indagato e non ancora rinviato a giudizio; ciò significa semplicemente che sono state avviate indagini a suo carico che potrebbero anche non essere considerate fondate dal giudice di merito. Ora, non si pretende che – nel caso di membri del governo – si debba attendere il terzo grado di giudizio (come vorrebbe la Costituzione, prima di considerare un imputato colpevole), ma almeno il rinvio a giudizio sì. Altrimenti si consente a qualsiasi magistrato inquirente di decapitare il governo a suo piacimento.
E poi vorrei chiedere a Di Maio: perché per la Raggi, sindaco della Capitale, il rigore moralistico dei Cinque Stelle non vale? Non è forse anche lei indagata?

Altro che morale pubblica e onestà. Mi pare piuttosto che stiamo sprofondando in un clima da basso impero, con congiure, tranelli, colpi bassi; per mostrarsi poi uniti e sorridenti al balcone. Il governo non cadrà per così poco, proclamano all’unisono, e intanto preparano il prossimo tweet per colpirsi vicendevolmente. Eppure l’elettorato sembra (stando ai sondaggi) solo marginalmente preoccupato. Come dire: saranno pure compari litigiosi ma il reddito di cittadinanza l’hanno fatto, l’abbassamento dell’età pensionistica pure, il deficit ha aumentato il debito pubblico (ma questo era previsto e chi se ne frega), i porti sono stati chiusi agli immigrati (anche se se ne vedono in giro sempre troppi), possiamo finalmente sparare a piacimento contro i ladri. Il resto non conta.
Quanti sono quelli che ragionano così?

Franco Chiarenza
5 maggio 2019

Il percorso del governo Conte somiglia sempre più a una corsa a ostacoli. Gli scontri tra gli alleati della maggioranza si moltiplicano, le mediazioni del presidente del Consiglio sono continue e affannose, manca un progetto a lunga scadenza realmente condiviso a fronte di una situazione economica che resta molto difficile malgrado i deboli segnali di ripresa che provengono dai dati del primo trimestre (dovuti essenzialmente a un miglioramento della bilancia commerciale). Nel frattempo i due partiti di governo, incassati i dividendi elettorali su cui hanno investito (si vedrà nel tempo quanto consistenti), riscoprono le profonde differenze ideologiche che li dividono e che costituiscono un limite invalicabile alla loro alleanza; in sostanza quel che li univa si va esaurendo, ciò che li separa emerge inesorabilmente. La domanda è: chi staccherà la spina per primo e quando?

Incognita europea
Mi pare chiaro che chi prenderà l’iniziativa di rompere l’alleanza sarà il movimento Cinque Stelle. E ciò per diverse ragioni: la crescente insofferenza della propria base militante (assai superiore a quella, che pure esiste, della base leghista), la consapevolezza che la perdita di oltre dieci punti nel consenso elettorale (dato per certo da tutti i sondaggi) costituisce un fatto strutturale difficilmente recuperabile stando al governo, la possibilità (magari sostituendo in corsa il “capo politico”) di cambiare alleato e mantenere in vita la legislatura (eventualità evidentemente preclusa a Salvini). Non so quanto sia vero che Grillo si sia lasciato sfuggire l’ammissione di “essere inadeguati” rivolta al suo movimento, ma certamente questa è la realtà, come dimostra anche la vicenda sempre più penosa della sindacatura Raggi a Roma. E poiché fare l’opposizione è più facile che governare capisco la voglia di tornare a fare baccano e lasciare ad altri il compito di sciogliere nodi sempre più aggrovigliati (che loro stessi hanno contribuito ad aggravare). In tale prospettiva (se essa dovesse prevalere nelle segrete stanze della Casaleggio&C.) in panchina c’è Di Battista che riscalda i muscoli.
Diversa la situazione di Salvini. Il leader della Lega sa di avere raggiunto probabilmente il pieno dei consensi e che però questo non basta per governare da solo (e nemmeno con l’alleanza di Berlusconi e di Meloni, replicando una formula che ha avuto successo nelle elezioni regionali ma non avrebbe i numeri sufficienti a livello nazionale).
Per questo le elezioni europee rappresentano una cartina di tornasole fondamentale. Se dovessero confermare il declino dei Cinque Stelle saranno loro a staccare la spina, anche a costo di aprire una crisi al buio. E per farlo sceglieranno il terreno a loro più congeniale, quello della questione morale (e ciò spiega i toni usati sulla questione Siri). Peccato che le continue goffagini della Raggi costituiscano un serio ostacolo a tale progetto (e non a caso sulla “questione romana” Salvini spinge l’acceleratore, anche per togliere ai Cinque Stelle il monopolio della virtù).

Opposizione invisibile
In tutto questo bailamme colpisce il silenzio assordante dell’opposizione. Al di là delle dichiarazioni di maniera (stile vecchio PCI) Zingaretti pare più intento a cercare alleanze all’interno del perimetro circoscritto della sinistra tradizionale piuttosto che avviare una seria controffensiva mediatica, Calenda si lecca le ferite di un’iniziativa sbagliata perchè percepita come collaterale al PD invece che tesa a raccogliere consensi in un’area elettorale che non si riconosce nella leadership di quel partito. Toccherebbe a +Europa svolgere questa funzione di raccolta ma anche qui, almeno fino ad ora, si percepisce soltanto una presenza sbiadita. Anche perchè la speranza che finalmente in queste elezioni si voti finalmente in base a tematiche davvero europee si sta affievolendo; a fronte di un europeismo di bandiera, stanco e diviso, la destra ha buon gioco a definire il suo nazionalismo non anti-europeo ma “diversamente europeista”, richiamandosi a presunti valori identitari comuni su cui raccogliersi “contro” qualcuno e qualcosa (immigrati, burocrati di Bruxelles, globalizzazione, ecc.). E in tale contesto riproporre all’elettorato scelte politiche sostanzialmente nazionaliste e prive di qualsiasi riferimento ai veri problemi dell’Europa.

Franco Chiarenza
25 aprile 2019