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Renzi ha faticosamente conquistato il controllo quasi assoluto del partito democratico ma si trova in mano una macchina che non sa bene come guidare e verso quali obiettivi indirizzare; né serve a dare qualche indicazione in proposito il suo libro che si presenta più come una resa dei conti rancorosa ed egocentrica piuttosto che un serio progetto per la nazione come ci si sarebbe aspettati.
Dispiace dirlo ma Renzi continua a deludere e mostrare purtroppo una mediocrità forse congenita ad alcuni tratti negativi della sua personalità e quindi difficilmente correggibile; lo dico con angoscia perché il fallimento di Renzi è una sciagura per il Paese, un’occasione perduta che non cesso di rimpiangere.

I modelli circostanti
La vittoria di Macron in Francia, anche per le dimensioni che l’ha caratterizzata, lo ha disorientato; convinto che il vento anti-europeo fosse irresistibile si trova davanti a una reazione orgogliosa che attraversa il Vecchio Continente e che si esprime attraverso le difficoltà della Brexit, le elezioni olandesi e francesi, il riposizionamento dell’Austria, l’attesa di una probabile vittoria della Merkel in Germania che rimetterebbe in moto il processo di integrazione europea.
Il successo, anche in termini di consenso mediatico e diplomatico, del governo del suo successore a palazzo Chigi, ha rappresentato un altro elemento di sorpresa; Gentiloni dimostra che si può fare molto senza eccitazioni esibizionistiche, senza roboanti annunci in dimensioni twitter, senza atteggiamenti “mussoliniani” (certamente inconsapevoli ma purtroppo frequenti) del genere “noi contro tutti, li ridurremo a pezzi, dovranno venire a patti”, tanto più ridicoli provenendo da un partito lacerato che stenta a governare un paese in gravissime difficoltà.
L’arresto (anche se non ancora il ridimensionamento) del successo dei Cinque Stelle, certamente non per merito del PD ma piuttosto per demerito di alcuni improvvisati governanti che Grillo ha portato ad amministrare importanti città, dimostra che un movimento senza una chiara strategia alternativa sulle grandi scelte che attendono il Paese (integrazione europea, fisco, giustizia, investimenti infrastrutturali, scuola e università, riduzione dei “lacci e lacciuoli” che strangolano l’economia, autonomia degli enti locali, riforme istituzionali) non riesce a trasformare un consenso basato sul discredito della classe politica in proposta di governo.
La possibilità di un Macron italiano è improbabile. Ma le incertezze di Renzi potrebbero aprire al centro dello schieramento politico uno spazio (equivalente almeno a quello che coprì Monti con la sua sciagurata decisione di partecipare alla gara elettorale) sufficiente a determinare le future alleanze di governo, soprattutto se si voterà con un sistema sostanzialmente proporzionale. Uno spazio che sarebbe in gran parte ottenuto a spese del PD.

Le alleanze
Il problema delle alleanze, infine, viene gestito in maniera approssimativa e personalistica. Vale come esempio la ricostruzione che Renzi fa nel suo libro sulla fine del “patto del Nazareno”. Racconta infatti Renzi che la scelta di Mattarella per la successione di Napolitano al Quirinale fu una reazione rabbiosa al fatto che Berlusconi e D’Alema avessero trovato un accordo sul nome di Amato. Uno statista non misura i fatti in relazione a problemi di suscettibilità ma valutandoli per quel che rappresentano in rapporto alla strategia che si vuole attuare; la scelta di Amato, per varie ragioni (competenza giuridica, esperienza di governo, capacità di mediazione, formazione politica laica e socialista), sarebbe stata più compatibile con il progetto di riforma istituzionale che lo stesso Renzi aveva immaginato (vedi il programma della Leopolda) e che rappresentava l’obiettivo del patto tra maggioranza e opposizione. Non è da escludere inoltre che avrebbe facilitato e migliorato il testo della nuova Costituzione.
Oggi il problema si ripropone perché – a numeri invariati – nessuno avrà la maggioranza per governare con l’attuale legge elettorale. Bisognerà quindi nuovamente fare i conti con l’oppositore più disponibile che – per molte ragioni – continua ad essere Berlusconi. Tutti l’hanno capito, sarebbe meglio esporsi proponendo un patto di unità nazionale con pochi ma chiari obiettivi per la prossima legislatura, piuttosto che ripetere il gioco – ormai consunto – di chiedere all’elettorato un mandato in bianco da utilizzare secondo le convenienze.

Che fare?
Il vero problema di Renzi è l’anti-renzismo. I suoi atteggiamenti, la sua arroganza, invece di attirargli consensi lo hanno messo nelle stesse condizioni in cui si trovò a suo tempo Berlusconi: costringere la politica italiana a misurarsi sulla sua persona invece che sui problemi del Paese. Per cui già vediamo che il cemento che tiene insieme le sinistre (da Pisapia a Bersani con i relativi seguiti) è soltanto l’anti-renzismo, i sindacati hanno ritrovato una precaria unità sulla pregiudiziale anti-renziana, una possibile alleanza tra l’estrema sinistra e Grillo sarebbe anch’essa fondata sostanzialmente su un’avversione condivisa nei confronti del leader del PD, il centro-destra non avrebbe alcun interesse a spezzare tale condizione di isolamento, e all’interno della stessa maggioranza renziana si avvertirebbero inevitabilmente i primi scricchiolii.
Naturalmente in tale contesto il coinvolgimento del padre di Renzi nello scandalo CONSIP e la questione Boschi – al di là dell’effettiva consistenza degli addebiti e dei sospetti – non contribuisce a risollevare l’immagine dell’ex-premier e rende facile l’azione di delegittimazione portata avanti con spregiudicatezza dai Cinque Stelle.
Per salvarsi Renzi dovrebbe fare il contrario di quello che fa. A cominciare dal sostegno al governo Gentiloni che – al di là delle parole – tutti percepiscono come forzato e condizionato da una voglia di tornare a palazzo Chigi per imporre le “sue” soluzioni; nessuno ha dimenticato l’”Enrico stai sereno” che preannunciò la brutale liquidazione di Letta. Questa volta però sarebbe diverso e non è detto che finirebbe come allora. La proposta di risolvere il deficit strutturale del nostro bilancio modificando il trattato di Maastricht, al di là dei suoi discutibili contenuti (perché ancora una volta sposta il problema sugli altri invece di fare i conti con noi stessi), per il modo in cui è stato espresso e per provenire dal capo della maggioranza che sostiene il governo, è servita soltanto a mettere in difficoltà Gentiloni e Padoan (del quale va sottolineata la gelida risposta: “riguarderà il futuro governo”). Anche le forzature sul cosiddetto “ius soli”, un problema davvero trascurabile per le sue reali conseguenze ma indecorosamente ammantato da ragioni di civiltà assolutamente indimostrabili, rientrano nel disegno di mettere in difficoltà Gentiloni. Forse anche nella speranza di costringerlo alle dimissioni e anticipare le elezioni. Un disegno che però potrebbe trovare proprio al Quirinale ostacoli prevedibili.
L’unica cosa quindi che Renzi dovrebbe fare è proprio quella che per il suo temperamento non sa fare: stare fermo. Quando ero giovane circolava una battuta molto volgare: se stanno per mettertelo nel di dietro meglio restare immobili; ogni movimento facilita il compito di chi ci sta provando.

P.S. Sto leggendo una interessante biografia dell’ultima imperatrice della Cina, la famosa Cixi. Di fronte alle ingiunzioni arroganti e offensive dei plenipotenziari inglesi e francesi in cui però erano contenute precise richieste sull’apertura della Cina alla libertà di commercio e misure per la modernizzazione del Paese, rispondendo alle reazioni indignate dei suoi cortigiani l’imperatrice replicò che gli occidentali “non avevano tutti i torti. Quando Hart (un inglese che lei stessa aveva posto a capo delle dogane con grandi vantaggi) suggerisce di adottare i metodi occidentali per l’estrazione mineraria, la cantieristica navale, la produzione di armi e l’addestramento militare” ha sostanzialmente ragione. La forma poco importava perché “rendere forte la Cina è il solo modo per garantire che i Paesi stranieri non entrino in conflitto e ci guardino dall’alto in basso”.
Chi ha orecchie per intendere

 

Franco Chiarenza
10 luglio 2017

Il dibattito politico italiano è ossessionato dalla ricerca di una presunta purezza originaria che si sarebbe perduta. A sinistra si invoca il dire “qualcosa di sinistra”, a destra si lamenta la mancanza di una destra apertamente reazionaria; ed entrambi gli estremismi attribuiscono gli insuccessi elettorali, l’aumento dell’astensionismo, il successo di un movimento moralistico ideologicamente neutrale come quello di Grillo, al fatto che destra e sinistra non sono più chiaramente identificabili.
In realtà le cose non stanno come gli irriducibili reduci di antiche contrapposizioni di sistema vorrebbero. E, da un punto di vista liberale, non si tratta di un’evoluzione negativa ma, al contrario, di un processo di evoluzione che rimette il sistema di governo al servizio dell’individuo e delle sue scelte; riduce gli spazi di militanza e di delega fiduciaria e aumenta la variabilità dei risultati elettorali in funzione della maggiore o minore capacità di intercettare i punti di vista delle diverse componenti della popolazione. Si tratta di un fenomeno che riguarda tutte le democrazie occidentali ma che in Italia sta soltanto adesso manifestandosi in misura massiccia per il discredito che i partiti sono riusciti ad accumulare nel tempo.
L’errore che le maggiori forze politiche italiane (di centro sinistra e di centro destra) commettono consiste nella convinzione che per contrastare questa tendenza sia sufficiente inseguire affannosamente le preoccupazioni più rumorosamente evidenti che emergono (magari attraverso discutibili talk show che pretendono di rappresentarle) proponendo soluzioni confuse e demagogiche, spesso espresse da slogan ingenui ed infantili (quando non addirittura bizzarri), i quali dovrebbero indurre masse di elettori sprovveduti ad affidarsi ancora una volta alle loro cure. Una strategia perdente che non tiene conto dei cambiamenti avvenuti nella società e della più elevata capacità critica di settori crescenti della pubblica opinione, spesso silenziosi ma in attesa soltanto di qualche ancoraggio affidabile come quello che in circostanze assai simili si è prodotto in Francia con Macron.
Bisognerebbe fare il contrario: una forza politica che si candida al governo dovrebbe presentare un progetto complessivo ispirato da finalità ultime in cui sia ancora possibile scorgere origini storiche e culturali differenziate ma dove la soluzione dei problemi più immediati trovi una proposta convincente e concretamente realizzabile, tenendo conto dei limiti oggettivi entro i quali può effettivamente svolgersi oggi l’attività di governo (qualunque sia il soggetto politico chiamato a svolgerla).

Su generiche propensioni alla solidarietà sociale piuttosto che alla conservazione degli equilibri esistenti non si possono fondare scelte credibili di governo. Le priorità che incidono sulle preoccupazioni più diffuse sono in realtà tra loro conflittuali. Il contrasto alla disoccupazione non passa attraverso generiche e fumose “politiche del lavoro”, ma piuttosto nel realizzare riforme strutturali che rendano attrattivi gli investimenti nei settori produttivi. Tali riforme però comportano un ridimensionamento e una maggiore efficienza della burocrazia, l’eliminazione di vincoli corporativi ancora massicciamente presenti, investimenti pubblici nelle infrastrutture, diminuzione della litigiosità nella giustizia amministrativa, razionalizzazione degli apparati di sicurezza, distinzione dei ruoli e delle carriere nella giustizia penale, riforma degli studi superiori e universitari che riporti il nostro sistema formativo a livelli di credibilità in Italia e all’estero. Lo sappiamo da tempo che queste sono le priorità; perché non vengono mai affrontate o – peggio – quando lo sono con risultati così mediocri? E’ semplice (ma non si vuole dire). Perché qualsiasi soluzione davvero radicale e risolutiva comporta “morti e feriti”, cioè urta contro interessi diffusi, resistenze sindacali, privilegi acquisiti, indolenze inconfessabili. Ognuno vorrebbe cambiamenti radicali per gli “altri” ma nessuno è disposto ad accettarne per se stesso. Le dirigenze dei partiti quindi, pur consapevoli della necessità di compiere cambiamenti radicali, ne temono le conseguenze elettorali e affrontano i problemi con provvedimenti parziali, attenuati, sostanzialmente inidonei alla loro soluzione. Vale per la destra come per la sinistra.

Occorre fare come Macron. Dire con chiarezza (talvolta persino con spavalderia) cosa si vuole fare, senza alcuna concessione a chi la pensa diversamente, e sulla propria “agenda” di governo chiedere il consenso; le mediazioni – se saranno necessarie – verranno dopo e comunque saranno realizzate partendo da una posizione di forza incontestabile. Se non si fa così non se ne esce, in Italia come in Europa. Un’Europa che deve affrontare – possibilmente unita – grandi sfide planetarie che si chiamano Africa, Medio Oriente, rapporti commerciali con il Nord America, regolamentazione dei flussi finanziari che provengono dalla Cina e dai paesi produttori di petrolio.
Il problema dell’immigrazione – infine – va affrontato tenendo conto dell’evoluzione demografica, guardando al futuro, stabilendo con fermezza modi e tempi dei processi di integrazione che dovranno servire a mantenere l’identità culturale (non etnica) del nostro Paese e dell’Europa.
La paura, come sempre, non è una buona consigliera. Ma per battere la paura bisogna ragionare. Per ragionare bisogna conoscere i problemi e evitare di prospettare soluzioni semplicistiche e quasi sempre irrealizzabili. Bisogna guardare lontano, anche a costo di perdere qualche voto.

Solo i grandi statisti sono presbiti; i politicanti sono miopi. Servono urgentemente lenti multifocali.

Franco Chiarenza
2 luglio 2017

La politica italiana dà l’ennesima prova della propria inconcludenza; si spacca – dividendosi come sempre in tifoserie irragionevoli – su un problema che davvero non rientra nelle nostre priorità: il cosiddetto ius soli, il diritto cioè ad acquisire la cittadinanza in maniera automatica se si nasce sul territorio italiano, a prescindere dalla nazionalità dei genitori. Una storia vecchia che mi riporta alla mente tempi antichi quando i rampolli della buona borghesia venivano fatti nascere in Svizzera (dove appunto vigeva lo ius soli) perché non si sa mai: coi tempi che correvano e i comunisti alle porte una cittadinanza svizzera poteva sempre servire (soprattutto se accompagnata da adeguati conti bancari).

Il dibattito italiano
La questione ha assunto improvvisamente in Italia una connotazione politica perché collegata col problema dell’immigrazione irregolare. La sinistra “buonista” e comprensiva ha voluto sfidare la destra “cattiva” e discriminatoria sul suo terreno trasformando un problema che andava risolto col semplice buonsenso in una battaglia ideologica che restituisse finalmente alla sinistra “dura e pura” caratteri inconfondibili e condannasse definitivamente Salvini alla riprovazione morale dell’esercito crociato (che, abbandonando antiche diffidenze “laiciste”, ha trovato in papa Francesco un leader carismatico ben più significativo di D’Alema). Salvini naturalmente non aspettava altro; messo in difficoltà su argomenti seri come la gestione dell’immigrazione, i rapporti con l’Europa (soprattutto dopo la sconfitta della Le Pen in Francia), le politiche di bilancio, la crescente impopolarità delle Regioni (anche di quelle governate dalla Lega), è subito saltato sulla zattera che la sinistra gli offriva per riproporsi come difensore dei valori nazionali, srenuo combattente che si oppone all’invasione di negri e musulmani in nome dell’imprescindibile identità italiana. Poveri noi, in che trappola meschina ci siamo lasciati trascinare!

I diritti dei bambini
Quali conclusioni deve trarne un “liberale qualunque”? Una sola: lasciate stare i bambini, non caricateli di scelte che non sono in grado di compiere in modo libero e autonomo. Vale per il battesimo imposto subito dopo la nascita (una volta, nel cristianesimo primitivo, non era così: si veniva battezzati da adulti), vale per le madri fanatiche che trascinano i figli nelle manifestazioni, vale anche per la nazionalità che, fino al conseguimento della maggiore età, non può che essere quella dei genitori. Create piuttosto i presupposti culturali per rendere facile la scelta di nazionalità al conseguimento dei 18 anni di età, facendo di tale decisione un momento solenne di riconoscimento e di partecipazione alla comunità (come avviene, per esempio, negli Stati Uniti).
Diverso è il discorso dei diritti che devono essere collegati alla residenza e non alla cittadinanza: diritto all’assistenza sanitaria, all’istruzione gratuita, e accesso a tutti gli strumenti che lo Stato mette a disposizione dei giovani italiani. Non sarebbe ragionevole?

Ma poiché il buonsenso è diventato merce rara so già come andrà a finire: i pasdran di destra e di sinistra seppelliranno il liberale qualunque di contumelie più o meno eleganti. Ed io mi troverò additato come complice di Salvini.
Non abbiamo davvero cose più serie di cui occuparci nell’ultimo squarcio di legislatura?

P.S. Segnalo il rischio che un allargamento incontrollato ed automatico della nazionalità possa produrre una cittadinanza di serie A collegata ad una regolare residenza la quale perciò può usufruire delle molte possibilità che l’Unione Europea (e lo stesso Stato) prevede per i cittadini europei “regolari”, e una cittadinanza di serie B praticamente inutile che serve soltanto a stabilire una questione di principio.

Franco Chiarenza
20 giugno 2017

L’intesa per una legge elettorale proporzionale “alla tedesca” sembra essere stata raggiunta tra i principali partiti; l’accordo è stato trovato sacrificando la governabilità alla rappresentatività.
Allo stato attuale delle cose è in effetti l’unica soluzione possibile.

Perché il proporzionale
La presenza di un partito indecifrabile come i “Cinque Stelle” è stata la ragione principale della riesumazione del sistema proporzionale. Anche Renzi si è reso conto che a fronte di un populismo “liquido” e fondato su un astratta domanda di moralità politica più che su progetti di governo, e proprio per questo capace di raccogliere consensi su generiche proposte demagogiche, ogni forma di ballottaggio presenta gravi rischi (come ha dimostrato il referendum). I sistemi maggioritari potrebbero infatti favorire movimenti come i Cinque Stelle, che, non dimentichiamo, mantengono un consenso tra il 25% e il 30%, nonostante le pessime prove di governo nelle amministrazioni locali, a cominciare da Roma. L’esperienza ha dimostrato che soltanto un sistema proporzionale impedisce a formazioni populiste tendenzialmente anti-sistema di arrivare al potere: le elezioni olandesi e quelle spagnole lo dimostrano. Se Wilders e i Podemos sono stati fermati ciò è dovuto alla loro allergia a qualsiasi alleanza; può conseguirne (come è avvenuto) una instabilità di governo, ma si tratta comunque di un rischio minore rispetto a quello rappresentato da un sistema maggioritario che avrebbe potuto consegnare il potere a movimenti non integrati nelle istituzioni. Il caso francese è diverso perché il semi-presidenzialismo della quinta repubblica responsabilizza maggiormente l’elettorato, fa accantonare nel secondo turno differenze anche sostanziali, non consente mai al voto di protesta di trasformarsi in un programma eversivo.

Cinque Stelle
Poiché queste considerazioni sono ovvie e alla portata di tutti, è lecito chiedersi come mai Grillo abbia promosso un accordo che di fatto esclude il suo movimento dal governo, almeno se mantiene la promessa sempre ribadita di non fare alleanze organiche di maggioranza.
Le ipotesi sono tre: la prima è quella che la maggior parte degli osservatori condivide. Con un terzo dei deputati che rifiutano alleanze il movimento costringe il partito democratico ad allearsi con la destra in una sorta di union sacrée in un momento difficilissimo e alla vigilia di scelte fondamentali (come quella europea); gridando all’inciucio potrebbe così raccogliere ulteriori consensi e conseguire in successive elezioni quel 51% che gli permetterebbe di governare da solo. La seconda ipotesi è più maliziosa, ma forse più realistica: Grillo e la ditta Casaleggio si rendono conto di avere creato un movimento di massa ingestibile perché fondato su tanti malesseri intrinsecamente contraddittori; il loro problema è quindi di non far parte di nessuna maggioranza e di mantenere nei confronti di chi governa un potere di ricatto che non li esponga mai all’assunzione di responsabilità dirette. L’esperimento Raggi a Roma, dove Grillo si è trovato completamente spiazzato, potrebbe avvalorare tale ipotesi.
C’è una terza interpretazione, improbabile ma possibile: che Grillo cerchi di uscire dall’impasse cercando di costruire gradualmente un’alleanza organica con il partito democratico. Una strategia che troverebbe nella sinistra importanti appoggi e adeguate “sistemazioni” per i suoi colonnelli; basterebbe inserire il “reddito di cittadinanza” (che sembra l’unica proposta programmatica caratterizzante) nel programma del PD e il gioco sarebbe fatto. Certo, una parte della base pentastellare non gradirebbe. Ma c’è un altro dato di fatto: Grillo è stanco, ha messo in piedi una macchina che senza di lui andrebbe subito a sbattere, ma forse non sa in quale direzione guidarla.

La variabile “Mattarella”
Ma anche se l’accordo sulla legge elettorale sembra raggiunto, non è detto che le elezioni si facciano subito. Da un lato c’è l’esigenza di uscire dal clima di provvisorietà che caratterizza l’attuale governo, anche in vista di una situazione europea che nei prossimi mesi subirà probabilmente accelerazioni imprevedibili. D’altra parte c’è un bilancio da approvare con una manovra correttiva molto pesante che Renzi farebbe volentieri a meno di sottoscrivere ma che il presidente della Repubblica ritiene imprescindibile portare a compimento prima dello scioglimento delle Camere. La tentazione di lasciare la “patata bollente” nelle mani di Gentiloni e Padoan potrebbe essere irresistibile; in tal caso si arriverebbe alla scadenza naturale di febbraio.
C’è poi da registrare l’”effetto Macron”. Negli ambienti imprenditoriali e tra gli orfani del centrismo di Monti e di Oscar Giannino si cerca disperatamente un personaggio che possa rappresentare un punto di riferimento liberale. Non certo per ripetere il miracolo francese che, nelle condizioni date (e soprattutto col sistema proporzionale), non sarebbe possibile; ma con la speranza di portare in parlamento un gruppo abbastanza numeroso da condizionare le scelte di governo. Il riferimento a Calenda e a Parisi è d’obbligo.

Franco Chiarenza
25 maggio 2017

Bisogna dare atto a Stefano De Luca di avere saputo mantenere in questi anni viva e sventolante (anche se talvolta un po’ strapazzata) l’antica bandiera del PLI, lo storico partito di Croce, Einaudi, Malagodi, Zanone, che nella prima repubblica ha svolto un ruolo limitato ma non marginale.
Il PLI, anche nei suoi tempi migliori, non è mai stato il raccoglitore esclusivo di quanto la cultura politica liberal-democratica aveva prodotto in Italia; al contrario, ne ha sempre rappresentato soltanto una parte, quella più moderata e conservatrice, erede legittima peraltro del riformismo giolittiano del primo ventennio del secolo scorso. La tradizione liberal-radicale ha trovato altri sbocchi soprattutto nel partito radicale di Pannella, mentre la variante azionista-repubblicana si esprimeva con Ugo La Malfa nel PRI.

Trentesimo congresso
Nei giorni scorsi il vecchio PLI (o quanto ne è rimasto dopo le vicissitudini berlusconiane) ha quindi celebrato il suo XXX congresso riunendo i suoi fedeli seguaci, ma con una marcia in più: la convinzione che il rimescolamento delle carte in atto nello scenario politico potrebbe fornire al partito un’occasione per tornare in parlamento, seppure con numeri limitati. Da qui l’appello alla diaspora liberale perché torni sotto la vecchia bandiera e contribuisca alla rinascita e al rilancio di una presenza dichiaratamente liberale; il successo elettorale di Macron in Francia e di Rutte in Olanda, entrambi espressioni della cultura liberale, ha certamente contribuito ad alimentare questa speranza.
Il sottoscritto, che partecipa sempre alle riunioni liberali (quando viene invitato), un po’ per rivedere vecchi amici un po’ per spiare se qualcosa di nuovo e di diverso si muove nel liberalismo italiano, è andato all’hotel Pamphilj di Roma e ne ha ricavato queste impressioni: troppe contraddizioni, poche specificità, alleanze discutibili.

Troppe contraddizioni
Il liberalismo può essere declinato in modi diversi. Non è una religione (per quanto anch’esse possano essere interpretate in maniere differenti), non presuppone testi sacri frutto di rivelazioni ultraterrene (pur disponendo di testi di riferimento collaudati), si propone soltanto di garantire la libertà di ciascuno nella misura compatibile con quella degli altri. A tal fine ha elaborato alcuni principi etici (solidarietà), economici (mercato regolato), e politici (costituzionalismo) che rappresentano i paletti di un campo assai ampio in cui si possono sviluppare competizioni di vario genere. Per questo un “partito” liberale rappresenta una contraddizione in termini (come già aveva evidenziato Benedetto Croce) che si giustifica soltanto in momenti di particolare difficoltà per la libertà dei cittadini (come fu dopo le due guerre mondiali) oppure se si fa portatore di contenuti specifici che dell’ampio schermo liberale metta in rilievo alcuni aspetti piuttosto che altri. Non a caso la storia del PLI è densa di scissioni e divisioni, non scandalose perché implicite in modi differenti di stabilire le priorità. Così i radicali misero l’accento sui diritti civili e sulla laicità dello Stato, Malagodi puntò a condizionare la politica economica in senso liberista, Zanone e Altissimo si attennero a un liberalismo democratico più attento al principio di solidarietà, e così via. Le contraddizioni sono quindi lecite ma se si esprimono all’interno di uno stesso partito generano risse e confusione, tanto più gravi se il contenitore è di modeste dimensioni, come nel caso dell’attuale PLI.

Poche specificità
Un piccolo partito non può pretendere di rappresentare tutti gli aspetti di una ideologia complessa come il liberalismo; né può affidarsi ai simboli (nome, bandiera, richiamo alla tradizione) per reclamare una sorta di “denominazione di origine controllata”. Anche perché sotto la generica denominazione di “liberale” convivono oggi in Europa formazioni il cui tasso di liberalismo è assai dubbio, pur in un ambito di genere tanto largo. Si chiama “partito per la libertà” quello guidato dal populista razzista Wilders in Olanda, si richiama a principi liberali il partito di estrema destra che governa la Polonia (“Diritto e Giustizia”), è stato sospettato di simpatie naziste il “partito della libertà” austriaco, ecc. Ma anche restando nell’ambito dei partiti liberali più accreditati (per esempio quelli di Gran Bretagna e Germania) le differenze sono molte e ciascuno di essi ha assunto specificità che, in un quadro istituzionale liberale generalmente accettato, li rendono molto diversi. Una cacofonia positiva che però rende sempre difficili decisioni comuni, come ben sanno quanti frequentano il gruppo parlamentare liberale all’Assemblea di Strasburgo o le periodiche riunioni dell’Internazionale Liberale.
Un piccolo partito come quello diretto da De Luca e Morandi deve fare delle scelte, specificare “quale” liberalismo intende privilegiare nel contesto italiano, e su di esso concentrare le proprie risorse umane e organizzative. Altrimenti è destinato al folklore.
Nella bella relazione introduttiva di Giancarlo Morandi ho sentito una visione ampia e al tempo stesso mirata sugli aspetti di compatibilità tra liberalismo e ricadute della globalizzazione, e in qualche intervento ho colto il tentativo di dissociarsi dalla prevalente retorica “reducistica” e di individuare alcuni, pochi temi su cui stabilire le priorità; ma mi sono sembrati in minoranza.

Alleanze discutibili
Dice un vecchio proverbio sempre valido “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”; tanto più valido nella politica italiana dove tutti dicono le stesse cose (abbastanza generiche per essere puntualmente disattese) e l’unico modo per orizzontarsi è quello di vedere con chi ci si allea per realizzarle.
Il PLI alle elezioni amministrative di Roma si è alleato con “Fratelli d’Italia” e la Lega di Salvini; una scelta obiettivamente sconcertante che ha fornito a due partiti illiberali per definizione una copertura di rispettabilità liberale che – a mio avviso – non meritavano. Però, trattandosi di elezioni amministrative, si può sostenere che ciò che conta è il programma, e che sui problemi complessi di Roma convergenze irrituali e paradossali possono anche essere tollerate.
Ma la standing ovation tributata a Giorgia Meloni dopo il suo “saluto” va ben oltre. Anche perché la leader di “Fratelli d’Italia” ha svolto un vero e proprio intervento su temi di attualità politica nazionale prefigurando intese che superano i confini amministrativi. Allora delle due l’una: o i delegati non hanno colto la stridente contraddizione tra la relazione del segretario Morandi e l’intervento di Giorgia Meloni, o è vero che il loro cuore batte in direzione di un nazionalismo protezionista anti-europeo che con il liberalismo ha francamente poco a che vedere.
Basti pensare che Morandi ha aperto la sua relazione ricordando l’emigrazione italiana del passato, un’emigrazione che non era certamente di “profughi” ma di gente che fuggiva dalla fame e dalla miseria, per capire quanto diversa sia la sua concezione – liberale – di accoglienza regolamentata, dalla distinzione tra “profughi” (poche migliaia) da accogliere, e “Immigrati” da respingere (non si sa come), sostenuta tra applausi scroscianti dalla Meloni.

Conclusioni
Un piccolo partito non può essere “né carne né pesce”; non può raccogliere le firme per la separazione delle carriere in magistratura facendo proprie preoccupazioni garantiste che appartengono alla cultura liberale, e contemporaneamente inneggiare a visioni “sovraniste” e stataliste come quelle che provengono dalla storia e dalla cultura politica di Giorgia Meloni.
“Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

 

Franco Chiarenza
14 maggio 2017

Che il coinvolgimento massiccio delle organizzazioni non governative (ONG) nelle operazioni di salvataggio dei barconi di fuggitivi che approdano quotidianamente in Italia potesse esserci del marcio era possibile. Bene fa quindi la magistratura a indagare in tale direzione, anche se, non sollecitata dal governo, essa va certamente oltre i limiti che dovrebbero accompagnare l’azione inquisitoria dei pubblici ministeri. D’altronde è interesse delle stesse organizzazioni di volontariato distinguere il grano dal loglio per evitare che nella benemerita collaborazione delle ONG possa esserci qualcuno che ci specula. Dove ha sbagliato dunque il procuratore di Catania Carmelo Zuccari?

Dove ha sbagliato
Nella comunicazione. Il caso Zuccari è in proposito emblematico. Sin dai tempi ormai lontani di “Mani pulite” si è instaurato un rapporto perverso tra la magistratura inquirente e i mezzi di informazione che ha dato luogo al ben noto fenomeno dei processi mediatici che anticipano e spesso svuotano di credibilità i veri processi celebrati nelle aule di giustizia con tutte le garanzie che la legge prevede quando si tratta di mettere in gioco la vita stessa di un cittadino. Si tratta di un fenomeno gravissimo che scardina uno dei pilastri fondamentali dello stato di diritto e alimenta il giustizialismo populista, e che si è aggravato man mano che i nuovi mezzi di comunicazione hanno aumentato la loro pervasività mentre si sono attenuati i controlli e i richiami al principio di responsabilità.
I magistrati hanno in questa degenerazione una parte di responsabilità, messa recentemente in evidenza anche nella relazione annuale del Procuratore generale della Corte di Cassazione. Le ragioni sono probabilmente molte (desiderio di visibilità, eccesso di autostima, visioni politiche, pretesa di sorvegliare e intimorire una classe dirigente potenzialmente corrotta, ecc.) ma il fatto è che è giunto il momento di fare un passo indietro. Carmelo Zuccari invece ha fatto un passo avanti: è andato in un talk show televisivo a raccontare la sua verità, senza ancora che vi sia non soltanto una sentenza ma nemmeno – come lui stesso ha ammesso – uno straccio di prova.

Cosa fare
Occorre tornare alle origini. Innanzi tutto spegnere i riflettori sull’attività della magistratura inquirente e tornare a una prassi di riservatezza che sarebbe utile anche per la raccolta delle prove. Poi bisogna tornare a ragionare sulla separazione delle carriere dei magistrati: come sostiene molta parte della dottrina giuridica (ma lo affermava anche Giovanni Falcone) inquirenti e giudicanti hanno non soltanto funzioni diverse e potenzialmente conflittuali ma anche differente sensibilità giuridica e dovrebbero percorrere itinerari formativi differenziati. Con l’adozione del processo accusatorio il pubblico ministero è a tutti gli effetti una “parte” (l’accusa) che si contrappone all’altra (difesa), mentre il giudice deve mantenere una posizione di terzietà sancita anche dalla Costituzione. Confonderne le carriere contribuisce soltanto a rafforzare lo spirito di casta della magistratura e indebolisce oggettivamente l’indipendenza dei giudici rispetto alle divisioni interne dell’Associazione Magistrati (ANM).
I magistrati inquirenti non sono dei moderni inquisitori chiamati a far trionfare la giustizia, come invece taluno di essi interpreta il proprio ruolo; sono soltanto dei funzionari dello Stato che hanno vinto un concorso (si spera non condizionato da pregiudizi ideologici) chiamati a raccogliere le denunce su possibili violazioni della legge e avviare le indagini preliminari dalle quali un giudice (il GIP) stabilisce se e come avviare un processo penale. Spetterà poi alla procura procedere agli accertamenti e sostenere l’accusa nel processo, confrontandosi con la difesa degli imputati.
L’avviso di garanzia fu introdotto a suo tempo – come dice il nome stesso – per avvertire un libero cittadino che la magistratura inquirente stava indagando sul suo conto e per quali ragioni, in modo che egli avesse tempo e modo di organizzare la sua difesa. Reso pubblico si è trasformato in un avviso ai mezzi di comunicazione sull’avvio di un’azione penale nei confronti di uno o più cittadini che la procura riteneva già probabilmente colpevoli. Il resto lo fanno i giornalisti (talvolta con la complicità di magistrati compiacenti che fanno accedere a documenti che dovrebbero restare riservati) e se poi il disgraziato incappato in questa macchina infernale verrà assolto (come è avvenuto spessissimo) tutta l’enfasi accusatoria dei mezzi di informazione si ridurrà a una breve notizia marginale.
Non si tratta soltanto di arginare il protagonismo di magistrati e poliziotti (che dire, a proposito, delle conferenze stampa in cui si denunciano persone non ancora condannate e spesso nemmeno rinviate a giudizio?) ma di capire perché queste violazioni della correttezza giuridica non suscitino nell’opinione pubblica la riprovazione che ci aspetterebbe e anzi spesso sono accettate acriticamente. La ragione è – a mio avviso – che la classe politica e coloro che sono ad essa adiacenti hanno talmente compromesso la propria credibilità da rendere possibile una legittimazione della funzione salvifica della magistratura, anche a prescindere dalle garanzie che dovrebbero caratterizzare uno stato di diritto (per le quali, per esempio, non si è colpevoli fino a sentenza definitiva). Come dire che la democrazia per salvare se stessa si affida a strumenti che democratici non sono; se poi un Carmelo Zuccari si sente in dovere di proclamare la sua verità in televisione e senza contraddittorio, non bisogna stupirsi.

Franco Chiarenza
1 maggio 2017

Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato sul Corriere della Sera del 29 aprile un articolo che farà discutere (“I promossi d’ufficio a scuola”). Non soltanto per l’autorevolezza dell’autore e per l’importanza del quotidiano che lo ospita ma soprattutto per avere centrato il problema fondamentale della scuola italiana che non è solamente quello delle sue molteplici inefficienze (reclutamento degli insegnanti, strutture, carenze didattiche, ecc.) ma soprattutto del modello cui si ispira (più o meno consapevolmente). Era ora!

Il modello di Don Milani
Di Don Milani si parla molto in questi giorni a proposito e a sproposito. Di lui, della sua personalità morale, delle virtù e dei difetti di un personaggio sicuramente carismatico, a noi in questa sede interessa poco; del suo modello formativo e didattico invece molto per l’influenza che ha avuto (insieme ad altri fattori concomitanti) nell’evoluzione della scuola italiana.
Un modello, quello proposto da Milani, fondato su un presupposto errato e foriero di conseguenze catastrofiche (come quelle denunciate da Galli della Loggia) in base al quale per ridurre la distanza culturale tra le classi sociali bisognasse abbassare il livello di apprendimento per renderlo accessibile ai meno favoriti e non invece fare l’opposto, consentire a tutti gradualmente di sviluppare le proprie potenzialità attraverso una valutazione del merito individuale.
La popolarità del “modello Milani” è facilmente comprensibile: schiacciando tutti verso la mediocrità e un grado di conoscenza elementare, generico, accessibile a chiunque, si va incontro a una concezione minimalistica della società sostanzialmente ispirata da una visione paternalistica che mantiene intatto il potere pastorale di chi si assume la responsabilità di guidare il gregge. Non solo: le famiglie meno avvedute vedono in questo modello scolastico una via facile per la promozione sociale dei propri figli e naturalmente i ragazzi perdono ogni stimolo allo sforzo individuale di miglioramento non vedendolo in alcun modo incoraggiato. A loro volta i sindacati preferiscono un sistema scolastico che copre più facilmente l’inadeguatezza di quella parte di insegnanti che sono giunti alla cattedra senza un’appropriata preparazione e spesso per motivi che hanno poco a che fare con la capacità didattica e molto invece con problemi di sbocco occupazionale (soprattutto nel Mezzogiorno).
L’egemonia culturale della sinistra democristiana assai diffusa nel primo ventennio della Repubblica ha entusiasticamente fatto proprie le idee di Don Milani, anche nella presunzione di rappresentare la sinistra di opposizione (comunisti e socialisti). Ma in realtà la concezione socialista della scuola, tracciata chiaramente da personaggi come Concetto Marchesi e dallo stesso Togliatti, era assai diversa; per essi l’accesso delle classi subalterne al potere passava attraverso una rigorosa selezione meritocratica in grado di formare gruppi dirigenti che potessero governare una società complessa come quella che – bon gré mal gré – il capitalismo aveva creato. Quindi: borse di studio e facilitazioni per accedere a un’istruzione superiore severa, non il contrario, abbassare il livello di apprendimento fino ai meno dotati. E’ paradossale (ma non tanto) che chi è liberale si riconosca più nella concezione togliattiana (e crociana) che non in quella cattolica.

Oltre Galli della Loggia ricordando Einaudi
Il citato articolo di Galli della Loggia si ferma alla diagnosi del fenomeno e delle sue degenerazioni, accentuate dagli sviluppi sociali e politici della recente storia della nostra Repubblica, e lì si ferma, forse perché scoraggiato dal disastrato panorama che ne emerge. Ma qualcosa si potrebbe fare, andando oltre la “buona scuola” della ministra Giannini, che pure si muoveva nella giusta direzione. Si potrebbe tornare a Luigi Einaudi e alla sua proposta di abolire il valore legale del titolo di studio. Basterebbe questo a mettere in moto alcuni meccanismi virtuosi: competizione tra le scuole per essere credibili nell’offerta di lavoro, selezione degli insegnanti, aumento della domanda di meritocrazia da parte delle famiglie, e via dicendo. Perché non ci proviamo?

Franco Chiarenza
30 aprile 2017

L’ennesimo fallimento del tentativo ricorrente di salvare l’Alitalia induce ad alcune riflessioni:

  1. Se l’Alitalia vola sempre in perdita ci saranno delle ragioni. Sono probabilmente molte (management incapace, resistenze sindacali, accordi sbagliati, venir meno del monopolio sui voli interni, concorrenza dell’alta velocità ferroviaria) ma alla radice ci sono sempre le interferenze politiche, anche dopo la privatizzazione.
  2. Ciò è dovuto anche alla difficoltà da parte della nostra classe politica ad abbandonare il concetto di “compagnia di bandiera” ormai completamente superato dalla nuova realtà competitiva del traffico aereo. Altri grandi paesi – come l’Inghilterra, la Spagna, la Germania – ne fanno a meno da tempo; negli Stati Uniti non è mai esistito.
  3. Non è più lecito scaricare – direttamente o indirettamente – le inefficienze sistemiche di Alitalia (ereditate dall’antico monopolio pubblico) sulla collettività. Migliaia di businessmen, giovani, turisti, viaggiano senza chiedersi di quale nazionalità sia l’aereo che utilizzano.
  4. L’opinione pubblica è rimasta giustamente scandalizzata dalle buonuscite milionarie di manager e dirigenti dell’Alitalia dopo ogni “tonfo” gestionale.

Adesso basta. L’Alitalia fallisca come ogni altra azienda che non riesce a mantenere in pareggio i propri bilanci; è giusto che si trovino ammortizzatori sociali per i suoi dipendenti e che possibilmente si salvi un marchio il quale forse ha ancora un valore commerciale, ma non è giusto invece che si chieda alla collettività di farsi carico di un’impresa fallimentare.

L’aeroporto di Fiumicino
Quello che ci preoccupa sono le possibili ripercussioni del fallimento dell’Alitalia sull’aeroporto di Fiumicino che dell’ex-compagnia di bandiera rappresentava l’hub principale. La funzione strategica dell’aeroporto romano resta insostituibile non soltanto per la città e il suo sviluppo ma anche per mantenere in Italia un hub degno di questo nome. Gli aeroporti dell’area milanese per la loro dispersione e per la vicinanza con hub europei di grandi dimensioni (come Zurigo, Colonia, Francoforte e, al limite, Parigi) non rappresentano un’alternativa valida per il traffico di transito; mantenere a Roma una funzione di redistribuzione del traffico da e per l’Italia rappresenta una opportunità geografica e un vantaggio per le regioni meridionali che vanno preservati.

 

Franco Chiarenza
28 aprile 2017

Premesso che un terzo stadio a Roma non mi sembra francamente tra le priorità della Capitale, è molto significativo il modo in cui si è concluso il tormentone che per un anno ha angosciato la tifoseria romanista coinvolgendo in un crescendo inarrestabile larga parte dell’opinione pubblica nazionale. In un susseguirsi di stupefacenti contraddizioni (ci andremo a nuoto, sibila Grillo; le tribune del vecchio ippodromo vanno protette, scopre improvvisamente la Sovrintendenza; non consentiremo l’ennesimo regalo ai “noti” costruttori, affermano un paio delle cinque stelle, ecc.) lo psicodramma si è risolto con un tipico colpo di teatro all’italiana: ma come non pensarci prima? Basta dimezzare le cubature e il gioco è fatto. I Cinque Stelle possono dire (con un po’ di faccia tosta, ma quella non gli manca) che hanno impedito la “colata di cemento” in un’area che dal rischio di sommersione (vedi le dichiarazioni di Grillo) è improvvisamente diventata comunque edificabile per centinaia di migliaia di metri cubi, i romanisti portano a casa lo stadio, i costruttori sembrano anch’essi molto contenti malgrado il dimezzamento. E qui sta il punto, perché quando tutti sono soddisfatti c’è qualcosa che non torna.
Infatti è subito intervenuto l’ex-sindaco Marino, la cui giunta aveva approvato il progetto originario, a chiarire il mistero. Il nuovo progetto Raggi altro non è che la riedizione della prima proposta di Pallotta (presidente italo-americano della Roma) che la sua giunta aveva respinto per alcune inoppugnabili ragioni: la costruzione di uno stadio calcistico, tanto più se realizzata nella nuova formula di porlo al centro di un complesso multifunzionale (con negozi, mercati, uffici, parchi giochi, ecc. ) comporta spostamenti di ingenti masse di cittadini che richiedono adeguamenti strutturali rilevanti (metropolitana, strade, ponti sul Tevere, risanamento idro-geologico, messa in opera di parchi pubblici) che l’amministrazione comunale non ha le risorse sufficienti per realizzare. Il nuovo progetto Marino comportava sì un aumento rilevante delle cubature ma metteva a carico dei costruttori e della Roma la realizzazione di tutte le infrastrutture, e oltretutto prevedeva che le nuove cubature fossero prevalentemente concentrate sulle famose torri di Libeskind, un’opera urbanistica avveniristica firmata da uno degli architetti più famosi al mondo (è suo il progetto della bellissima Freedom Tower di New York) che avrebbe messo la città al centro dell’urbanistica contemporanea (insieme all’auditorium di Renzo Piano che mi pare l’ultima opera di pregio realizzata a Roma).
Ecco spiegato il perché del “tutti contenti”. Lo stadio sarà comunque costruito e i tifosi della Roma saranno contenti; come arrivarci sarà un problema ma basterà partire da casa qualche ora prima. La zona commerciale sarà fatta ma sulla natura dei negozi (non si parla pudicamente di centri commerciali per non urtare la suscettibilità dei “chilometrozeristi”) si pronunceranno gli abitanti; immagino un referendum se preferire una macelleria o un fruttivendolo. I costruttori sono contenti perché tutti gli oneri accessori che non producono reddito saranno a carico del Comune (almeno quei pochi che saranno realizzati). Gli appalti restano quelli previsti monopolizzati in gran parte con chiamata diretta da multinazionali edili americane. Il problema idrogeologico è scomparso come d’incanto, le perplessità della Sovrintendenza sembrano superate (e ci sarebbe da chiedersi come mai questa improvvisa attenzione per le cadenti tribune del vecchio ippodromo in una città dove il più grande patrimonio archeologico del mondo non trova tutela adeguata), e Grillo può “twittare” brava Raggi. Brava davvero, anche nel malore misterioso che l’ha colta e di cui nessuno è riuscito a conoscere le cause (con il marito che, intervistato all’ospedale, continuava a ripetere “ma sta bene, sta bene”), che probabilmente è servito a concordare l’ultimo accordo con il movimento da una parte e con la Roma dall’altra. Forse non ha ancora imparato ad amministrare ma sta imparando in fretta i trucchi della politica.

P.S. Le torri di Libeskind a Tor di Valle non si faranno; in compenso è già partita la costruzione della torre Libeskind a Milano nell’area dell’ex-fiera. Roma continua la sua lenta marcia verso l’impaludamento provinciale, Milano si muove velocemente in competizione con le metropoli europee. Il liberale qualunque vorrebbe invece un rilancio strategico della Capitale, anche con la realizzazione di grandi infrastrutture urbanistiche d’avanguardia; ma i romani hanno votato i Cinque Stelle (con qualche ragione) e dobbiamo accontentarci della loro filosofia minimalista: meglio le strade senza buche e la spazzatura riciclata con la differenziata che i grattacieli di Libeskind. Il fatto è che le strade continuano a somigliare a percorsi di guerra e la spazzatura domina incontrastata in cassonetti debordanti e indifferenziati.

 

Franco Chiarenza
28 febbraio 2017

L’hanno scritto in molti e lo confermo: la scissione del partito democratico si è consumata in modo freddo e un po’ squallido, come una separazione consensuale di coniugi che da anni non si parlavano più. Sarebbe stato meglio farlo in congresso sulla base di un confronto politico serio da cui emergessero le reali differenze tra le parti in causa. Si è preferito percorrere una strada più ambigua, un po’ perché le antipatie personali, le insofferenze caratteriali vi hanno giocato un ruolo inconfessabile e talmente evidente da suscitare fastidio, ma anche perché sia la maggioranza “renziana” che la minoranza scissionista contengono al loro interno visioni diverse e sulle quali si preferisce in questo momento non dividersi. Tuttavia le ambiguità tattiche non possono nascondere una domanda di fondo, non a caso ampiamente trattata nel dibattito mediatico: ci sono ragioni vere e profonde che rendevano ineluttabile la divisione del partito?

La risposta è sì; ma per capire meglio occorre fare un passo indietro. Torino, Lingotto 2007. Valter Veltroni celebra il suo trionfo realizzando il sogno di costituire dalle ceneri della prima repubblica un nuovo partito il quale, prendendo atto definitivamente della fine delle contrapposizioni ideologiche, disegnasse una vasta area riformista di ispirazione liberal-socialista con l’apporto anche di tutti coloro che erano disposti a rigettare vecchi fondamentalismi ormai improponibili. Un compromesso storico moderno in grado di adeguare il nostro sistema politico alla prassi europea e occidentale senza egemonie precostituite e senza la pretesa di costituire un modello ideologico come la “terza via” che avevano avuto in mente Moro e Berlinguer vent’anni prima; un partito nuovo quindi che nasceva anche per far fronte al bipolarismo che andava prendendo piede con il ricompattamento delle destre e di ampi settori liberal-conservatori in un partito anti-ideologico come quello che si era formato intorno alla figura carismatica di Berlusconi. Una prospettiva a lungo termine mirata a catturare vaste aree di consenso anche nel centro dello schieramento e il cui modello era evidentemente – anche nella scelta del nome – il partito democratico americano di Kennedy e di Clinton (Obama non era ancora arrivato).
Il progetto trovò sulla sua strada l’opposizione di D’Alema il quale, al di là della presunzione autoreferenziale che lo porta istintivamente a respingere ogni idea che non sia scaturita da lui, rappresentava comunque lo zoccolo duro del vecchio partito comunista (sia pure riformato dopo la svolta della Bolognina) e un apparato costituito (almeno in parte) da una frangia minoritaria ancora ideologicamente motivata, ostile a una svolta che si annunciava liberale anche nelle scelte economiche. Erano gli anni della globalizzazione ancora vissuta come evoluzione positiva e il vento soffiava in Occidente in favore della “società aperta” di popperiana memoria. Contestando la strategia veltroniana dei tempi lunghi che rischiava di confinare la sinistra all’opposizione D’Alema riuscì già due anni dopo a sbarazzarsi di Veltroni ma non fu in grado di proporre alcuna strategia realmente alternativa. Da quel momento il partito democratico ha cominciato ad annaspare giorno per giorno alla continua ricerca di un compromesso tra i reduci della sinistra marxista e i sostenitori di una forza di governo riformista aperta al centro; divisi su tutto ma uniti dal potere che esercitavano in pezzi importanti della realtà sociale e politica (soprattutto del settore pubblico allargato: enti locali, società partecipate, televisione, sanità, ecc.).

Ciò nonostante il seme buttato da Veltroni non si era completamente disperso.
All’orizzonte comparve un intrepido boy scout, certo Matteo Renzi. Un corpo estraneo per la nomenklatura il quale però ne aveva compreso tutte le debolezze, e in particolare la trappola in cui si era cacciata consentendo le “primarie” aperte a tutti (un’altra imitazione americana che però non teneva conto delle profonde differenze dei due contesti) mediante le quali personaggi estranei al partito erano riusciti utilizzando un populismo di sinistra a buon mercato a farsi riconoscere candidati vincenti al vertice di enti locali dove altrimenti non sarebbero mai giunti: De Magistris a Napoli, Emiliano a Bari, Doria a Genova, Pisapia a Milano, Orlando a Palermo, Marino a Roma, lui stesso a Firenze. Tutti personaggi non indicati dal partito e in gran parte ostili al vecchio gruppo dirigente catto-comunista. Applicando a livello nazionale la lezione che aveva imparato a Firenze (e che comprendeva anche la necessità di unire alla spregiudicatezza tattica contenuti strategici seriamente riformisti e fortemente aggreganti), Renzi avviò la sua marcia su Roma che, dopo un fallimento iniziale (quando l’apparato fece quadrato su Bersani), lo portò in tempi brevi alla segreteria del partito e, poco dopo, malgrado le perplessità del presidente Napolitano, da via del Nazareno a palazzo Chigi dove arrivò congedando bruscamente Enrico Letta con modalità che violavano tutte le regole del bon ton istituzionale. Il “ragazzo” apparve subito per quel che era: un po’ villano, sicuro di sé, circondato da molti yes men (e soprattutto yes women), ancorato a slogan populisti come la “rottamazione” che facevano pensare alla “giovinezza” fascista; ma proprio per questa discontinuità dalla vecchia classe dirigente forse in grado di far breccia in un elettorato confuso e preoccupato che cominciava a sentire sulla pelle gli effetti della crisi e ne addebitava la colpa a chi aveva governato fino a quel momento.
A questo punto la minoranza del PD dovette fare buon viso a cattivo gioco ma la dissidenza – che era politica e non soltanto personale – covava sotto la cenere. La vera partita si giocava sulla realizzazione del programma della “Leopolda” che, con toni e contenuti certamente più grezzi, rilanciava nella sostanza il progetto veltroniano del Lingotto.

Che cosa non ha funzionato? Premesso che non è vero che nulla sia stato fatto e riconoscendo anzi che in alcuni settori (lavoro, scuola, pubblica amministrazione, diritti civili) il governo si è mosso con decisione sfidando le resistenze corporative e il potere di interdizione dei sindacati che tanto a lungo avevano prodotto i loro effetti negativi, la macchina bellica di Renzi si è inceppata sulle riforme istituzionali. Le quali erano sì previste da tempo (Lingotto, Leopolda, ecc.) ma dovevano essere affrontate con intelligenza e cautela, stando attenti – almeno in quel caso – a non cadere nella trappola del “fare a qualunque costo” nella quale è precipitata invece Maria Elena Boschi, inopportunamente incaricata di tenere le fila di una materia così delicata, dove l’opposizione (esterna ma anche interna) non avrebbe mancato di far sentire il suo peso. La strada giusta era quella imboccata da Renzi col “patto del Nazareno” che prevedeva due percorsi tra loro indipendenti, quello della condivisione della cornice istituzionale da riformare ed aggiornare (c’era anche da eleggere il nuovo Capo dello Stato dopo le dimissioni irrevocabili di Napolitano), l’altro delle scelte di governo dove maggioranza e opposizione si sarebbero normalmente confrontati in parlamento. L’incubo mediatico dell’”inciucio”, alimentato dalla convinzione largamente diffusa da Grillo e dai suoi complici che la politica debba sempre essere trasparente e controllabile non da strumenti istituzionali ma da una base popolare spesso incompetente e esposta alla più smaccata disinformazione, è stata forse la ragione principale che ha indotto Renzi e Berlusconi ad abbandonare il progetto, timorosi entrambi di perdere il consenso delle proprie basi e di alimentare il successo dei Cinque Stelle. Fu un grave errore che fece sentire i suoi effetti col referendum che doveva decidere di una riforma istituzionale pasticciata, obiettivamente impresentabile, e che ha finito invece per rappresentare un plebiscito su Renzi in cui non era difficile mettere insieme gli oppositori politici e i contestatori dei contenuti.

Conosciamo il seguito: le dimissioni di Renzi, il governo fotocopia di Gentiloni, la scissione fredda del partito democratico. La frammentazione della sinistra e quella non troppo diversa della destra (anch’essa tutt’altro che priva di validi motivi) rischiano di gettare l’Italia nell’ingovernabilità, considerato anche che un quarto dell’elettorato sembra orientato a sostenere il movimento di Grillo sostanzialmente privo di un’ideologia di riferimento e compatto soltanto nella contestazione dell’attuale classe dirigente, pronto quindi a dividersi a sua volta di fronte a concrete scelte di governo (come dimostra il caso di Roma).
Perché il problema è un altro, ed è molto antico: il modello di società che vogliamo realizzare e su cui passa la vera divisione del paese reale (e che, non a caso, si presenta molto simile in tutti i paesi occidentali). Se andare avanti nella costruzione di una società aperta con tutti i rischi che ciò comporta o tornare indietro a chiuderci nelle nostre presunte sicurezze; la prima ipotesi è quella di un’Europa politicamente unita per affrontare da posizioni di forza gli inevitabili cambiamenti che la globalizzazione produce, di una liberalizzazione che abbatta le gabbie protettive delle corporazioni che ostacolano la meritocrazia e l’innovazione, ecc. La seconda è quella dell’affermazione delle sovranità nazionali, del ritorno ai protezionismi con tanto di dogane e passaporti, come nel passato. Due strade che hanno entrambe le loro motivazioni ma che richiedono scelte chiare senza cercare impossibili compromessi. Si possono studiare correttivi ma non si deve cercare di confonderle facendo credere che si possono percorrere contemporaneamente: esse vanno in direzioni diverse.

Di questo bisogna discutere. Su questo il liberale qualunque vuol giudicare la credibilità delle forze politiche e la loro capacità di portare avanti un progetto coerente. Sul fatto che chi ha pubbliche responsabilità debba essere onesto e che i marciapiedi debbano essere puliti sono tutti d’accordo, ma non è su questo che ci si deve confrontare. La vittoria di Trump in America, l’affermazione di personaggi come Marina Le Pen in Francia, sembrano segnare una svolta verso la distruzione di quanto si è realizzato – proprio su spinta americana – nel secolo scorso in direzione del multilateralismo e della globalizzazione non soltanto economica ma anche culturale; con benefici immensi per tutta l’umanità anche nella legittimazione della democrazia liberale come forma di governo ottimale. Ma la paura di perdere i propri privilegi sta spingendo in Occidente ampi settori dei ceti medi a tornare indietro: si sentono insicuri e sono quindi disposti ad appoggiare chiunque proponga di smantellare quelle che – complici molti media – ritengono essere le cause del loro (giustificato) disagio. Marcia indietro, subito, senza stare troppo a pensare alla sua fattibilità concreta e alle conseguenze che potrebbero derivarne.
Ne parleremo.

P.S. – A chi non lo avesse ancora fatto consiglio la lettura dell’ottimo articolo di Alesina e Giavazzi sul Corriere della sera del 22 febbraio.

 

Franco Chiarenza
24 febbraio 2017