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La legge Salvini sulla sicurezza è discutibile e si presta a molte critiche. Ma in uno stato di diritto non si consente a nessuno di disobbedire a una legge approvata da un parlamento regolarmente eletto e promulgata dal Capo dello Stato, il quale, se vi avesse ravvisato violazioni davvero fondamentali ai diritti costituzionali avrebbe potuto rinviarla alle Camere con le proprie osservazioni. In ogni caso nel nostro ordinamento della sua costituzionalità non decidono i sindaci di Napoli e di Palermo ma la Corte Costituzionale alla quale giustamente si è appellata la Regione Toscana.
Il rifiuto di applicare la legge da parte di un pubblico ufficiale (come sono i sindaci) configura la possibilità di una loro rimozione da parte del consiglio dei ministri. Naturalmente il governo si guarderà bene dal farlo ben comprendendo che si tratta soltanto di un gesto politico spettacolare utile alla popolarità di due sindaci che storicamente non provengono dalle file del partito democratico, anche se le loro amministrazioni ne sono appoggiate, a conferma del fatto che stiamo già entrando in campagna elettorale.

Detto questo va fatta una riflessione sui contenuti della legge. Pur sbagliata negli strumenti che mette in atto essa risponde a una lamentela che ho visto molto diffusa riguardo la situazione precedente; quella che riguarda l’utilizzazione di strutture sociali da parte di immigrati a scapito di cittadini italiani. E’ arduo spiegare a una madre che non trova posto per il proprio figlio negli asili comunali che in base alla normativa vigente può passargli davanti il figlio di un immigrato, magari in base a requisiti che spesso non corrispondono alla realtà (per esempio i redditi provenienti da lavoro nero). Non voglio dire che questo giustifichi il modo rozzo con cui l’attuale maggioranza – in questo come in altri casi – tenta di risolvere il problema; penso però che la sinistra, alla ricerca di un’identità che dovrebbe cercare altrove, sottovaluti l’importanza che assumono certe questioni che incidono sulla vita quotidiana delle parti più deboli della società, quelle appunto che la sinistra dice di volere rappresentare.

 

Franco Chiarenza
7 gennaio 2019.

La retorica del “cambiamento” ha accompagnato il governo Conte sin dalla sua nascita. In questo omogenei, sia Di Maio che Salvini hanno continuamente ripetuto come un “mantra” ossessivo lo slogan della diversità rispetto ai governi precedenti – di centro-sinistra ma anche di centro-destra – ritenendo in questo modo di mantenere un consenso elettorale costruito più su una sommatoria di proteste (spesso tra loro contraddittorie) che non su un credibile progetto alternativo. C’è dunque stato questo cambiamento? E se c’è stato rispetto a che cosa? Ora che la manovra economica è stata finalmente approvata è possibile abbozzare una prima risposta. Anche se bisognerà attendere le leggi attuative per completare il ragionamento.

Rispetto alle istituzioni
Per quanto riguarda la prassi e i riti istituzionali un cambiamento c’è stato sin dagli esordi. Le consultazioni al Quirinale sono avvenute in modo inconsueto e hanno sfiorato pericolosamente la rottura col Capo dello Stato (del quale il leader del partito di maggioranza è arrivato a minacciare l’impeachment). La formazione del governo è stata caratterizzata da una continua alternanza di dichiarazioni ostili seguite da rassicurazioni, quasi che la politica fosse un gioco dove le parole non vanno prese troppo sul serio, come si faceva una volta nelle partite di pallone tra ragazzi e si fa oggi in molti social-network. L’accordo di governo, pomposamente e erroneamente definito “contratto” (che ha un diverso significato civilistico), ha richiesto una lunga trattativa, in parte svolta a Milano sotto l’attenta vigilanza del clan Casaleggio il cui ruolo effettivo nelle scelte del movimento resta ambiguo e molto opaco.
I rapporti tra governo e parlamento sono stati improntati a una completa subordinazione di quest’ultimo agli accordi (spesso poco trasparenti) tra Di Maio e Salvini. In questo caso però un vero cambiamento sostanziale non c’è stato: si faceva così anche nella prima repubblica quando le intese tra i partiti forzavano la volontà dei parlamentari. Ma almeno allora si salvavano le forme mentre oggi non se ne fa mistero e all’intenzione dei Cinque Stelle di aprire il parlamento “come una scatola di sardine” per garantirne la trasparenza e il controllo popolare sembra essere subentrata una realtà molto diversa somigliante all’ ”aula sorda e grigia” che Mussolini nel 1922 minacciava di trasformare in un bivacco di manipoli fascisti. Il colmo è stato raggiunto con l’approvazione della legge di bilancio – la cosiddetta “manovra” – che dopo essere stata votata dalla Camera è stata frettolosamente sostituita da una nuova versione concordata con la Commissione dell’Unione Europea per evitare l’avvio di una procedura d’infrazione e presentata al parlamento come un pacchetto non modificabile sostenuto da un voto di fiducia che impediva a deputati e senatori di svolgere quel lavoro di verifica e di bilanciamento degli interessi che ha sempre costituito un momento decisivo del controllo parlamentare sul governo.
Va anche rilevata la tendenza di alcuni ministri, in particolare Matteo Salvini, a comportarsi in ogni occasione come uomini di parte, esibendo spesso una volgarità anche verbale che forse sarà utile a raccogliere un po’ di consenso sui socialnetwork più cafoneschi ma certo non contribuiscono a dare del nostro paese un’immagine di serietà, almeno istituzionale. Anche Di Maio e i suoi amici rischiano di sfiorare il ridicolo quando si esibiscono in comportamenti da “curva sud”, come i brindisi dal balcone di palazzo Chigi o le rumorose pagliacciate con le quali trasformano il parlamento in un palcoscenico di avanspettacolo di provincia.
Infine: l’esperienza insegna che comizi elettorali e azione di governo sono cose diverse ed è opportuno che così sia. Qualsiasi governo, una volta costituito, riveste una funzione istituzionale che impone rispetto anche nei confronti di chi non lo ha votato perchè rappresenta la nazione intera; conseguentemente l’attuazione del programma politico in base al quale è stato nominato deve seguire procedure più attente e prudenti delle intenzioni proclamate in campagna elettorale, le parole devono essere pesate. In caso contrario si producono effetti che vanno ben oltre i sondaggi di popolarità ormai settimanali che sembrano ispirare ogni atto dell’attuale governo; i mercati finanziari internazionali, per esempio, si innervosiscono e finiscono per indicare livelli di rischio crescenti (il famoso spread) che un paese indebitato come il nostro non può permettersi. Nell’orgia di dichiarazioni incoerenti che hanno accompagnato i primi mesi del nuovo governo è dovuto intervenire lo stesso presidente della BCE per ammonire che le parole, quando sono pronunciate da persone che hanno rilevanza istituzionale, sono come pietre e vanno attentamente pesate; perchè se poi le pietre tornano indietro come boomerang non ci dobbiamo stupire.

Rispetto all’attività legislativa
I provvedimenti fondamentali che dovrebbero certificare il “cambiamento” sono sostanzialmente tre: il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, la riforma pensionistica “quota 100” e la sicurezza (variamente declinata nel contrasto all’immigrazione, la legittima difesa, il sostegno alle forze dell’ordine).

Il “reddito di cittadinanza” è sicuramente una misura di cui non si può sottovalutare l’importanza; se riuscisse davvero ad attenuare il disagio di quelle fasce sociali che consideriamo “povere” e contestualmente promuovesse l’accesso al lavoro e, attraverso l’aumento dei consumi, favorisse la produzione, come sostengono i seguaci di Grillo, si tratterebbe di una rivoluzione di non poco conto. Ma è così? Molti ne dubitano, a mio avviso con fondate ragioni di merito, di metodo e di compatibilità finanziaria che ho già espresso e che comunque mi riservo di approfondire quando la legge attuativa sarà nota e si conosceranno i dettagli. Solo allora si capirà se il reddito di cittadinanza potrà essere davvero considerato un cambiamento radicale o non piuttosto un allargamento e un perfezionamento del “reddito di inclusione” varato dal governo Gentiloni che già si muoveva nella direzione di un sostegno alle fasce più disagiate danneggiate dai processi di trasformazione delle attività produttive. Il fatto è che, soprattutto al sud, il reddito di cittadinanza è stato percepito come un’erogazione indifferenziata e i Cinque Stelle rischiano che i paletti che inevitabilmente la legge conterrà possano deludere molte aspettative con significative riduzioni del consenso elettorale. In ogni caso appare già chiaro che il provvedimento esce ridimensionato rispetto alle intenzioni iniziali: la dotazione è stata ridotta, i centri per l’impiego richiedono una ristrutturazione che richiederà tempi e risorse maggiori del previsto, la platea degli aventi diritto risulterà probabilmente sforbiciata da condizioni più rigide, la decorrenza è fissata al primo aprile (giusto in tempo per essere esibito in campagna elettorale come una grande vittoria del “popolo” pentastellato).
Tutto da vedere: per ora il “reddito di cittadinanza” è soltanto una indicazione della legge di bilancio supportata da una dotazione cospicua ma non tale da coprire le attese, anche se spalmata in otto mesi (anziché dodici).

La riforma delle pensioni dovrebbe consentire di raggiungere la famosa “quota 100” (sommando l’età con gli anni di lavoro). Ma anche in questo caso per arginarne gli effetti deleteri sul bilancio (soprattutto per gli anni a venire) si stanno studiando disincentivi di varia natura (tra cui essenziale quello della diminuzione degli importi), lo spostamento ad aprile del suo avvio, la durata ricondotta a un triennio (dopo di che? Si ritorna alla Fornero?). La misura è accompagnata da un taglio alle cosiddette “pensioni d’oro” che non serve a trovare le risorse necessarie alla riforma (che copre solo in minima parte) ma a soddisfare il rancore vendicativo contro la “casta” dei privilegiati che costituisce una componente importante del consenso elettorale (purtroppo facendo finire sotto tiro anche tanti che hanno onorevolmente servito lo Stato in posizioni di responsabilità). Travestito da “contributo di solidarietà” e limitato a un triennio il taglio alle pensioni di maggiore importo dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, superare l’inevitabile vaglio della Corte Costituzionale la quale già in passato (in occasione di una “limatura” delle pensioni operata dal governo Renzi) si era espressa in proposito ammettendo la possibilità di violare il principio dei diritti acquisiti in casi di comprovata necessità e solo transitoriamente. Anche in questo caso i dettagli fanno la differenza e bisognerà vedere come in concreto il provvedimento sarà attuato.

Per quanto riguarda la sicurezza, trattandosi di leggi a costo zero (o comunque limitato) Salvini è riuscito facilmente a fare passare provvedimenti contro l’immigrazione irregolare. Qui il cambiamento c’è stato ma non per merito del movimento Cinque Stelle all’interno del quale anzi l’anima terzomondista non manca di manifestare un certo disagio. In cambio l’immagine internazionale dell’Italia è passata da un eccesso di “buonismo” (arginato soltanto dalle misure prese e progettate dal ministro Minniti) a una fama (altrettanto eccessiva) di insensibilità per le sofferenze umane di gente che fugge da guerre, fame e condizioni di miseria; il che ha consentito agli altri paesi europei che ipocritamente fingevano di volerci aiutare di chiudere la partita indignandosi nei nostri confronti. La chiusura dei porti alle navi delle ONG che fungevano da traghetti tra la Libia e l’Italia è stata una misura ritenuta necessaria anche da una parte dell’elettorato che non ha votato per l’attuale maggioranza, ma andava accompagnata da una chiara strategia di regolamentazione dell’immigrazione che, superando definitivamente i vincoli assurdi della legge Fini-Bossi, affrontasse in modo organico e senza pasticci demagogici (come quelli in cui si è esibita la sinistra nella vicenda della nazionalità automatica ai figli degli immigrati) un problema di fondamentale importanza per il futuro del Paese. La mia posizione in proposito è nota ai miei pochi e pazienti lettori ma, alla luce di quanto sta avvenendo, dovremo riparlarne.

Sul “decreto dignità”, frettolosamente varato da Di Maio in luglio con l’intento di guadagnare il consenso dei tanti precari che lavorano talvolta in condizioni indegne, è calato un imbarazzato silenzio dopo la bocciatura arrivata da imprenditori e sindacati. Si vedrà nei prossimi mesi se gli effetti saranno quelli auspicati dal movimento di Di Maio o invece un aumento della disoccupazione e del lavoro nero, come sostengono i suoi oppositori.
Ma l’aspetto più grave del provvedimento è costituito dall’inserimento precipitoso nella legge di una drastica normativa che elimina di fatto la prescrizione nei giudizi penali senza tenere conto della complessità del problema. Che la prescrizione andasse modificata (e in parte già lo avevano fatto i governi precedenti) è opinione largamente condivisa, anche sulla scia dell’indignazione mediatica che ha accompagnato alcune scandalose assoluzioni di Berlusconi (a cui va ricondotta la fretta dei Cinque Stelle di esibire il provvedimento come un’immediata soddisfazione per l’opinione pubblica), ma si tratta di un cambiamento da inquadrare in una più ampia riforma della giustizia anche per evitare alcune possibili ricadute negative sullo stato di diritto (e in particolare sulla certezza dei tempi dei processi). Ma, ancora una volta, ciò che contava di più era sventolare la bandiera del cambiamento anche se tutti sanno che su questo provvedimento (come su altri) le correzioni saranno inevitabili, come a gran voce chiede la stessa magistratura.

Un’altra bandiera dei “Cinque Stelle” era l’avversione alle cosiddette “grandi opere” e alle imprese inquinanti. In questo campo la ritirata è stata clamorosa: sull’Ilva di Taranto si è dovuto chiudere la partita con un accordo quasi identico a quello che già il precedente ministro Calenda aveva siglato con l’acquirente Arcelor Mittal, sul terzo valico tra Genova e il Piemonte si è dovuto ammettere che è vitale per il futuro del porto di Genova, il terminale dell’oleodotto TAP in Puglia è stato improvvisamente autorizzato smentendo le promesse fatte in campagna elettorale (impedirne la realizzazione avrebbe comportato penalità eccessive: ma non era prevedibile?).
Resta la TAV in val di Susa, diventata ormai una logora bandiera ideologica che nulla ha a che fare con una seria valutazione dell’opera, ma che per l’ala “movimentista” dei Cinque Stelle rappresenta l’ultima trincea della sua avversione alle grandi opere “inutili”. E’ già chiaro tuttavia come andrà a finire (anche per la pressione della Lega): si scoprirà una cosa che sanno tutti, che non farla costa troppo, e con questa scusa dopo le elezioni europee si procederà come per il TAP pugliese.

Sul condono fiscale, benevolmente ribattezzato “pace fiscale”, e sugli aerei militari F35 (entrambe questioni su cui i Cinque Stelle avevano dichiarato la loro opposizione) la resa di Di Maio è stata totale; nel primo caso a Salvini, nel secondo al governo americano che già in occasione dell’incontro di Conte con Trump aveva espresso le sue “preoccupazioni”.

Rispetto alla politica estera
Anche nelle relazioni internazionali si è assistito ad alcuni sbandamenti, ma dobbiamo al ministro Moavero, il quale si è mosso in piena sintonia col presidente della Repubblica e con lo stesso presidente del Consiglio Conte, se a certe incaute dichiarazioni dei due vice-premier non sono seguiti fatti che avrebbero costituito una rottura della tradizionale politica estera dell’Italia. Da settant’anni in Italia cambiano i governi e le maggioranze ma il contesto internazionale in cui la nostra politica estera è incardinata resta caratterizzato dalla partecipazione all’Alleanza Atlantica e dalla presenza attiva nell’Unione Europea. I maldestri tentativi (soprattutto da parte di Salvini) di rimetterne in discussione gli equilibri fantasticando improbabili assi preferenziali con la Russia di Putin o con i paesi meno “europeisti” del cosiddetto gruppo di Visegrad sono stati accantonati. Mi pare quindi che i cambiamenti ipotizzati dalla nuova maggioranza contro “l’Europa dei burocrati” e il militarismo americano che dovevano portare a una rinegoziazione del trattato di Maastricht e a una revoca unilaterale delle sanzioni alla Russia, siano stati quanto meno rinviati a data da destinarsi.

Rispetto alle forze produttive
Il cambiamento promesso alle forze produttive (soprattutto dalla Lega) al di là dei provvedimenti marginali contenuti nella manovra in linea di sostanziale continuità con quanto già fatto dai governi di Renzi e Gentiloni, consisteva essenzialmente nell’introduzione della “flat tax”. Si può discutere della effettiva validità della sua adozione, della sua costituzionalità, della sua opportunità, ma non vi è dubbio che si trattasse di un cambiamento fiscale rilevante indirizzato a incoraggiare gli investimenti e quindi l’occupazione. La proposta era molto popolare negli ambienti delle piccole e medie imprese anche per le semplificazioni burocratiche che avrebbe consentito, ma si è subito visto che, al di là dei suoi contenuti, essa comportava un onere non compatibile con il contemporaneo avvio del “reddito di cittadinanza” e della riforma pensionistica. Messo di fronte alla scelta tra un favore ai pensionati e un vantaggio per gli imprenditori Salvini non ha avuto dubbi: ha privilegiato il consenso immediatamente monetizzabile in termini di consenso elettorale, cioè le pensioni anticipate. Una scelta che, anche se edulcorata da alcune facilitazioni alle partite IVA di minore importo e da incentivi per nuove assunzioni derivate dai pensionamenti anticipati, mette chiaramente in evidenza la pericolosità di una riforma che per venire incontro a un numero di pensionati che forse sarà più basso del previsto, incrementerà probabilmente l’economia sommersa e danneggerà le imprese. Le quali infatti hanno immediatamente fatto sentire il loro malumore in termini talmente espliciti da suonare per la Lega come un vero e proprio campanello d’allarme.

In conclusione
Il governo del “cambiamento” finora di reali inversioni rispetto ai predecessori ne ha fatte poche, più formali che sostanziali, e quelle poche accompagnate da dubbi e perplessità che non provengono solo dall’Europa e dai mercati ma anche dalle forze produttive del nostro Paese e da segmenti significativi della stessa maggioranza. Ma intanto la politica delle dichiarazioni contraddittorie e roboanti (a imitazione dei tweet di Trump) ha prodotto danni non ancora quantificabili che – secondo alcuni analisti – hanno riguardato soprattutto l’emigrazione di capitali costituiti dal risparmio privato degli italiani.
Mai come adesso vale il proverbio che “il silenzio è d’oro”.

 

Franco Chiarenza
4 gennaio 2019

Non si era visto mai, almeno negli ultimi tempi, un governo così conflittuale al suo interno. Lega e Cinque Stelle in realtà condividono poche cose ma sono obbligati a stare insieme come fratelli siamesi perché a nessuno dei due conviene rompere la coalizione. Di conseguenza assistiamo su ogni questione a un “avant’indrè” che sarebbe anche divertente se non si traducesse in un continuo logoramento dell’immagine del nostro Paese, già molto compromessa. L’effetto annuncio fa premio su ogni altra considerazione, l’occhio è fisso ai vari barometri che segnalano l’aumento o la perdita di qualche punto di consenso (ivi compresi i “social” che dovrebbero indicare la temperatura delle rispettive basi militanti). Una fibrillazione in parte spiegabile con l’imminenza delle elezioni europee, ma anche probabilmente con l’incertezza per il futuro del governo il quale, partito con l’intento condivisibile di superare la crisi con una manovra espansiva in grado di rilanciare la produzione e l’occupazione, ha finito per arroccarsi su misure assistenziali costose e di difficile realizzazione.

Cinque Stelle
Il movimento guidato da Di Maio punta tutte le sue carte sul cosiddetto “reddito di cittadinanza”, molto atteso – soprattutto al sud – ma che incontra, al di là dei costi, due ostacoli difficilmente superabili nei tempi brevi richiesti dall’emergenza politica prodotta dal calo dei consensi: l’identificazione di una piattaforma dei “bisognosi” realmente corrispondente a condizioni di povertà, e la creazione di centri per l’impiego efficienti in grado di utilizzare le nuove tecnologie per incrociare con esiti positivi la domanda e l’offerta di lavoro (a cui si aggiunge, secondo la proposta, il compito di guidare quei processi di formazione professionale che fino ad oggi hanno contribuito alla crisi occupazionale). Due condizioni essenziali, in assenza delle quali si rischia di favorire e incrementare l’economia sommersa già tanto consistente (soprattutto al sud). L’altro “cavallo di battaglia” dei Cinque Stelle – il blocco delle grandi opere infrastrutturali, considerate inutili e fonte primaria di corruzione – sta incontrando crescenti difficoltà vuoi per gli impegni già assunti dai governi precedenti ma anche per il manifestarsi di un’opinione pubblica ostile alla visione “recessiva” della filosofia grillina. Restano le solite “pensioni d’oro” da falcidiare ma è ormai chiaro a tutti che si tratta soprattutto di un’operazione di immagine (di dubbia costituzionalità) che apporta un contributo trascurabile al reperimento delle risorse necessarie.

Lega
Matteo Salvini gode oggi di un consenso quasi doppio rispetto ai voti conseguiti alle elezioni del 4 marzo, ma ciò non significa che la situazione in cui si trova sia facile e possa comunque indurlo a “passare all’incasso” con elezioni anticipate, come un po’ frettolosamente si era detto. In realtà anche in un nuovo parlamento che riflettesse le percentuali oggi indicate dai sondaggi la Lega si troverebbe obbligata all’unica alleanza possibile – quella con i Cinque Stelle – stante l’impossibilità per Berlusconi di raggiungere il numero di seggi che sarebbe necessario per costituire una maggioranza alternativa. Salvini quindi non ha alcun interesse a rompere l’alleanza – anche personale – con Di Maio, non soltanto per le ragioni dette ma pure perché se l’attuale leader dei Cinque Stelle venisse sostituito aumenterebbero le incognite sulla tenuta di una maggioranza già tanto eterogenea. Il problema della Lega peraltro è soprattutto un altro: archiviata la questione degli immigrati, altre sono le preoccupazioni che si fanno sentire nel suo elettorato. Le manifestazioni spontanee contro il blocco delle grandi opere, la richiesta di aumentare le risorse per il rilancio delle attività produttive (a svantaggio ovviamente di quelle pretese dai Cinque Stelle per le sue misure assistenziali) portata avanti da tutto il mondo imprenditoriale senza eccezioni (grande e piccola industria, artigianato, commercio), suonano all’orecchio di Salvini come altrettanti campanelli d’allarme. Se, come qualcuno ipotizza, questo malcontento prendesse la forma di un nuovo partito (che non faccia riferimento né a Renzi né a Berlusconi) una parte dei consensi acquisiti nel semestre di governo potrebbe scivolare via.

Istantanea
Per queste ragioni, se si dovesse fotografare la situazione di oggi, credo che i due protagonisti della scena politica siano condannati a stare insieme e che quindi l’attività di governo proseguirà non soltanto a vista ma anche a sbalzi, dovendo entrambi rassicurare i rispettivi elettorati su questioni che li vedono divisi. E’ difficile capire per quanto tempo ciò potrà durare e se l’asse di mediazione che Conte, Tria e Mattarella hanno di fatto costituito riuscirà a reggere. Molto dipenderà non tanto dalle elezioni europee ma da quanto avverrà fuori dall’area di governo: se e come nascerà una forza centrista di orientamento liberale, e l’assetto definitivo che uscirà dalle convulsioni che hanno attraversato il partito democratico.
In politica come nella vita le istantanee fissano un momento di passaggio.

 

Franco Chiarenza
16 dicembre 2018

E’ fastidioso per chi concepisce la politica come confronto di idee e di proposte di governo doversi calare in vicende personali e generazionali che nulla dovrebbero avere a che fare con le valutazioni politiche. Però nella vicenda Di Maio va fatta chiarezza, anche per le presunte analogie con quella della Boschi che ha influito non poco sul discredito che ha travolto Renzi.

Se l’uso di prestazioni in nero (o addirittura sottopagate) secondo una prassi purtroppo assai diffusa nelle piccole imprese meridionali riguarda soltanto il padre di Luigi Di Maio, nulla quaestio, si tratta di uno spiacevole incidente familiare che non tocca la credibilità morale del leader dei Cinque Stelle, e quindi la sua legittimità politica. Ma se invece si dimostra che il giovane Luigi era a conoscenza e connivente delle pratiche paterne, il discorso cambia. Tanto più che il movimento Cinque Stelle ha fondato sull’onestà personale della classe politica tutta la sua strategia comunicativa coi risultati elettorali che conosciamo. E non c’è altro d’ aggiungere.

La questione Boschi a suo tempo fu diversa e somiglia a quella di Di Maio soltanto perché in entrambe emerge il problema di quanto e come le responsabilità dei padri possano coinvolgere i figli in politica (ma non soltanto). Elena Boschi fu a suo tempo accusata di avere avuto contatti finalizzati al salvataggio della banca di cui il padre era uno degli amministratori mentre ricopriva una carica di governo (oltretutto di un certo rilievo, anche per il rapporto privilegiato che notoriamente la legava al presidente del consiglio). Si tratta dunque di vicende diverse e francamente non confrontabili.

Sarebbe però il caso di non proseguire su questa strada. Capisco la soddisfazione dei renziani nel vedere i pentastellati in difficoltà proprio sul terreno di scontro che loro avevano imposto (quello della credibilità morale) ma se domani l’azione politica di Di Maio sarà giudicata negativamente non sarà certo per le colpe di suo padre. Così come alla Boschi si rimproverano (secondo me giustamente) altre cose che non i goffi tentativi di salvare il padre; per esempio come ha condotto la riforma costituzionale che ha travolto con Renzi l’intero partito democratico, e la sua candidatura in Alto Adige che richiamava prassi politiche di arroganza partitocratica giustamente rimproverate alla prima repubblica.

 

Franco Chiarenza
30 novembre 2018

Mentre il partito democratico continua con irritante lentezza il suo dibattito volto a definire non soltanto gli assetti di potere interni ma anche la piattaforma programmatica su cui dovrà caratterizzare la sua proposta alternativa, qualcosa si muove: comincia ad emergere un dissenso spontaneo nei confronti delle politiche della maggioranza, indirizzato soprattutto contro il movimento Cinque Stelle. L’accoglienza riservata dagli imprenditori lombardi alla relazione del presidente Bonomi, assai critica nei confronti del governo ma soprattutto contro il movimento di Di Maio, la manifestazione pro-TAV di Torino, il voto di alcuni senatori Cinque Stelle contro il condono dell’edilizia abusiva di Ischia, rappresentano segnali di disagio che non vanno sopravalutati (anche alla luce dei sondaggi che indicano il mantenimento di un forte consenso al governo) ma che meritano di essere analizzati con attenzione.

Cinque Stelle
Mentre infatti la Lega prosegue nel suo percorso politico di ricompattare una destra conservatrice, moderatamente protezionista, radicata soprattutto nel Lombardo-Veneto ma con significative presenze in altre regioni, con una leadership forte pronta a cavalcare spregiudicatamente tutte le pulsioni emotive tipiche dell’irrazionalismo sempre presente nella piccola borghesia italiana, restando però sostanzialmente inserita in un contesto istituzionale tradizionale (non bisogna dimenticare che la Lega ha governato con Berlusconi per molti anni), il movimento Cinque Stelle si trova in difficoltà a mantenere la sua immagine di strumento di raccolta dell’indignazione morale contro la corruzione e l’illegalità dopo l’imbarazzante inserimento nel decreto per Genova di un condono edilizio sulle abitazioni abusive di Ischia, pervicacemente voluto da Di Maio (con Berlusconi complice che rideva sotto i baffi).
Ma le difficoltà del movimento di Grillo non si fermano ad Ischia. Presentandosi alla ribalta come portatore di una politica sociale finalizzata a contrastare le crescenti diseguaglianze, esso, mettendo insieme istanze che, per quanto confuse, vanno considerate – stando ai tradizionali canoni interpretativi – più di sinistra che di destra, assumeva su di sé la parte più ingrata del programma di governo per i costi che implica e per i tempi che richiede (il che vale sia per il cosiddetto reddito di cittadinanza che per le pensioni sociali). Di Maio si trova così intrappolato tra l’esigenza di far fronte alla fin troppo facile (e gratuita) popolarità di Salvini e l’anima originaria del suo movimento che spinge a soluzioni rapide e costose le quali, comportando necessariamente uno scontro frontale con l’Unione Europea, portano altra acqua al mulino della Lega.
Non possiamo ancora sapere in quale misura queste evidenti contraddizioni incideranno sul consenso (già decrescente) che ha spinto i Cinque Stelle al potere. Lo vedremo nei prossimi mesi quando le sue diverse anime cominceranno a confrontarsi, tenendo conto che la composizione della sua base militante (piattaforma Rousseau) e quella del suo improvvisato elettorato (soprattutto meridionale) sono molto differenti. La base del movimento di Grillo infatti ha raccolto sotto le sue insegne spinte diverse e non sempre coerenti tra loro: innanzi tutto quella ambientalista favorevole al cosiddetto “sviluppo sostenibile”, da cui deriva in gran parte l’ostilità nei confronti delle “grandi opere”, ma accanto ad essa una cultura politica più estremistica derivata dalle tesi di Serge Latouche (la ben nota “decrescita felice”), pericolosa non per le previsioni decadentiste a cui si ispira ma per le derive autoritarie e anti-liberali che potrebbe comportare. Ci sono poi una componente etica massimalista che di fatto immagina una funzione etica dello Stato da cui derivano le derive dirigiste della compagine di Di Maio, e infine una frangia sostanzialmente socialista, con evidenti simpatie per il populismo alla Che Guevara (per esempio Di Battista), avversa alla globalizzazione e al neo-capitalismo, la quale raccoglie consensi tra i reduci del sessantottismo e giovani romanticamente egualitari. Una base militante quindi variegata e con diverse priorità difficile da tenere compatta a fronte di scelte di governo imposte dalla realtà. Ma l’elettorato è in grande maggioranza cosa diversa e credo che Grillo, Casaleggio e lo stesso Di Maio ne siano consapevoli (lo prova appunto lo stesso “caso Ischia”).
Molti di coloro che hanno votato il 4 marzo per il movimento di Grillo non lo hanno fatto per condivisione ideologica e men che meno per avversione alla modernità. Le ragioni sono state altre: innanzi tutto una generica insofferenza per chi governa – chiunque sia – che ha sempre colpito anche in passato uomini e partiti quando hanno dovuto compiere scelte inevitabilmente divisive che provocano delusione e rancori. Ma questa volta la protesta è stata alimentata anche dai comportamenti inaccettabili di una vecchia classe dirigente arroccata nei suoi privilegi, tanto più ingiustificabili in un momento in cui le disuguaglianze sociali approfondivano il solco tra i diversi ceti sociali e tra sud e nord; non si ha idea di quanti abbiano votato per rabbia, per punire l’arroganza del potere che si accompagnava all’evidente incapacità di farsi carico di un disagio sociale sempre più avvertibile. In questo contesto la proposta dei Cinque Stelle di un salario di cittadinanza – di per sé tutt’altro che scandaloso e già avviato dal governo Gentiloni – è stata letta in maniera distorta coltivando illusioni di un assistenzialismo generalizzato che ha fatto la differenza.
Adesso però ci si comincia a rendere conto che dietro lo schermo accattivante dei “vaffa” di Grillo si cela ben altro: una visione di governo pericolosa che, nell’intento frettoloso di mostrarsi “diversi”, sta rischiando di buttare insieme all’acqua sporca anche il bambino che andava lavato. Le esperienze di governo del movimento, locali e nazionali, sono state gestite, almeno fino ad oggi, con incompetenza, superficialità, dilettantismo (sbandierati come valori positivi rispetto al professionismo della cosiddetta “casta”) creando gravi difficoltà al sistema produttivo del Paese che, piuttosto che di sussidi, vive di credibilità e di stabilità del quadro politico.

Crisi imminente?
In un paese normale una situazione siffatta, con un governo presieduto da un arbitro privo di prestigio continuamente impegnato a mediare i conflitti tra i due veri protagonisti della partita, non potrebbe durare a lungo. Ma forse non sarà così. Salvini pensa probabilmente di mantenere e aumentare il consenso elettorale con una campagna anti-europea e non ha interesse ad anticipare il voto almeno fino alle elezioni europee; Di Maio, dal canto suo, se provocasse una crisi andrebbe incontro a una sconfitta politica sancita da un rovesciamento dei rapporti di forza con la Lega, rischiando oltre tutto personalmente di scomparire dalla scena in base alle assurde regole del suo partito che, imponendo un rapido turn over, comporterebbero in caso di nuove elezioni la sua sostituzione al vertice. E’ ragionevole quindi ritenere che, almeno in base a un calcolo politico (al netto delle variabili imprevedibili), il governo possa durare fino a giugno dell’anno prossimo. Con quanti danni per il Paese non si sa. Ma, dicono i miei amici pentastellati, peggio di prima non è possibile. Invece è possibile.

 

Franco Chiarenza
15 novembre 2018

Che le risorse disponibili non fossero sufficienti a coprire tutte le promesse elettorali della Lega e dei Cinque Stelle era evidente già prima delle elezioni del 4 marzo. Che un’ulteriore espansione del debito pubblico fosse impossibile senza creare difficoltà nei rapporti con l’Unione Europea era altrettanto chiaro. Che gli impegni internazionali assunti dai governi precedenti andassero onorati per ragioni di credibilità sui mercati e per il rischio di penali molto sostanziose era ovvio.
La domanda è: se tutto ciò era prevedibile perché Di Maio e Salvini anziché predisporre un programma di governo che, senza venir meno agli impegni presi, li scadenzasse in tempi ragionevoli, hanno preferito mettere tutto sul piatto del bilancio 2019 andando incontro a infortuni e contorsioni ancora in corso?

Governo fragile
Se l’alleanza tra Lega e Cinque Stelle fosse davvero fondata su un patto di legislatura – come si vuol fare credere – il governo sarebbe forte e non avrebbe avuto difficoltà a scadenzare nel tempo la realizzazione di promesse tanto impegnative. Il reddito di cittadinanza – per esempio – non può essere seriamente introdotto senza una riforma dei centri di collocamento che, nel migliore dei casi, richiederà un anno; si sarebbero così risparmiati almeno cinque miliardi nel budget 2019.
L’unica spiegazione possibile è che l’intesa di maggioranza non è affatto solida e ciò spiega perché entrambi i protagonisti avendo l’occhio puntato soprattutto alle prossime elezioni abbiano bisogno di successi di facciata da potere esibire in una campagna elettorale che da europea potrebbe diventare anche nazionale.
Il più preoccupato è naturalmente Di Maio per diverse ragioni. Innanzi tutto per i malumori che emergono sempre più frequentemente nella base militante del suo movimento, in secondo luogo per il lento ma inesorabile scivolamento del primato all’interno dell’alleanza verso Salvini su cui concordano tutti i sondaggi di opinione, infine perché le riforme più care ai Cinque Stelle, come il reddito di cittadinanza, sono anche le più costose e problematiche in termini di risultati immediati. Salvini ha già incassato il suo dividendo, in parte per il progressivo ridimensionamento di Forza Italia, ma soprattutto perché i provvedimenti che hanno consolidato la sua popolarità sono sostanzialmente a costo zero: misure anti-immigrati, revisione del codice penale in materia di autodifesa, ecc.
Per rimediare i Cinque Stelle hanno precipitosamente inserito (con un emendamento!!!) nella legge anti-corruzione la cessazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, una misura richiesta dalla loro base per contrastare lo scandalo delle frequenti utilizzazioni che ne sono state fatte per garantire l’impunità (spesso proprio nei reati di corruzione); ma la fretta di rilanciare la propria immagine può generare risultati controproducenti. A una giusta esigenza, condivisa da gran parte dell’opinione pubblica anche al di fuori dell’attuale maggioranza, non si può rispondere con un provvedimento affrettato e maldestro che potrebbe incidere negativamente sullo stato di diritto eliminando la certezza dell’imputato di avere un giudizio definitivo in tempi certi. Occorre riformare tutta la struttura del processo e inquadrare la prescrizione in una serie di misure che giuristi e politici (anche di sinistra) propongono da tempo. Così un problema vero ha innescato una reazione che verte più sul metodo che sulla sostanza e su cui la Lega ha avuto gioco facile a farsi paladina dei diritti degli innocenti (fino al giudizio definitivo, come afferma la nostra Costituzione).
A questo punto del percorso la fragilità del governo appare evidente. Confermata anche dalla crescente consapevolezza che il progetto nazional-populista di Salvini è poco compatibile con le idee prevalenti nella base del movimento Cinque Stelle dove le prime incrinature cominciano a manifestarsi apertamente mentre Di Battista annuncia (o minaccia?) il suo prossimo rientro in Italia.

I vincoli inderogabili
Male ha fatto il movimento di Grillo a promettere cose che i vincoli internazionali dell’Italia non avrebbero mai consentito senza correre il rischio di un rovesciamento delle alleanze che il Paese ha pazientemente costruito negli ultimi settant’anni. Posto di fronte alla realtà delle cose Di Maio ha dovuto già fare i primi passi indietro e altri probabilmente ne seguiranno. Non si poteva chiudere Taranto senza declassare l’Italia – oggi tra i più importanti produttori d’acciaio – a potenza di serie B e creare una crisi occupazionale e sociale gravissima; non si poteva bloccare l’oleodotto TAP che risponde a un disegno strategico concordato con gli Stati Uniti per sottrarre l’Europa (e l’Italia) dalla dipendenza energetica russa; non si può fermare la TAV in Val di Susa perché rappresenta un anello fondamentale dell’asse ferroviario veloce est-ovest (dalla Spagna ai paesi dell’Est) concordato in sede europea che si affianca all’altro nord-sud (dalla Scandinavia alla Sicilia) di cui il traforo del Brennero costituisce un passaggio fondamentale; non si può bloccare il terzo valico appenninico senza mettere in crisi il porto di Genova isolandolo dai mercati del nord Europa. E altri esempi si potrebbero fare, dagli interessi dell’industria aeronautica nella costruzione dei nuovi aerei F35 a quelli dell’ENI e dell’ENEL impegnate in grandi progetti internazionali.
L’idiosincrasia per le cosiddette “grandi opere” che i Cinque Stelle hanno ereditato da una malintesa cultura ambientalista e da un moralismo demagogico basato sull’equazione indimostrabile per la quale i lavori pubblici di una certa importanza siano fonte certa di corruzione (per evitare la quale è meglio non fare le opere, invece di fare le opere eliminando la corruzione), mostra tutti i suoi limiti entrando, oltre tutto, in rotta di collisione con gli interessi e le convinzioni della Lega.
Intendiamoci: tutto si può fare e se davvero le intenzioni degli elettori che hanno votato i Cinque Stelle sono di retrocedere questo paese a livelli esistenziali più bassi in nome di una maggiore sostenibilità ambientale, si tratta di un progetto che da liberale non condivido per le derive che comporta verso la concezione di stato etico ma che ha piena legittimità nella dialettica democratica (almeno fin quando non mette in pericolo i principi fondamentali dello stato di diritto). Ma per realizzarlo occorre un governo coeso e talmente solido da imprimere un radicale cambiamento alla politica industriale del Paese, e ci vuole il tempo necessario. Dice la saggezza popolare che gatta frettolosa partorisce gattini ciechi.

Franco Chiarenza
9 novembre 2018

Di questa benedetta – o maledetta, secondo i punti di vista – manovra si scrive e si dice di tutto e di più; ho letto decine di articoli, ho ascoltato attentamente Paolo Savona che è economista di vaglia e che certamente ha influito sull’impostazione innovativa di questo bilancio, ho sentito i pro e i contro, cercando di evitare gli insulti, gli slogan, le falsità che hanno accompagnato il dibattito. Oltre tutto mancano ancora alcuni tasselli e in questi casi i dettagli hanno la loro importanza. Tutto ciò premesso, se a qualcuno interessa il mio spassionato parere, abbia pazienza perché non potrò rispettare i limiti di un twitter, che sembra ormai diventato il modo prevalente di comunicare col “popolo” perché a quel che pare – secondo i populisti che lo interpretano – non sarebbe in grado di sopportare un ragionamento che vada oltre le tre righe.

La manovra ha un aspetto politico, una prospettiva macro-economica e una dimensione micro-economica costituita dai singoli provvedimenti che la costituiscono.
Dal punto di vista politico essa esprime soprattutto l’esigenza dei Cinque Stelle di rispettare il mandato elettorale; lo sarebbe per qualunque partito ma lo è in particolare per il movimento di Grillo che è nato e si è sviluppato sulla critica a una classe dirigente considerata in blocco inaffidabile, opportunista e menzognera. Oltre tutto l’alleanza obbligata con la Lega lo ha messo in difficoltà sia perché il rozzo sciovinismo di Salvini non corrisponde alla cultura politica di una parte importante del movimento (per intenderci Fico, Di Battista e forse lo stesso Grillo) sia soprattutto perché ha consentito al leader della Lega di occupare la scena mediatica con provvedimenti anti-immigrati a costo zero con effetti immediati sul consenso elettorale, che infatti, stando ai sondaggi più recenti, è cresciuto fortemente per la Lega mentre registra una lenta ma costante flessione per i Cinque Stelle. Vero è che in realtà i flussi migratori erano già molto diminuiti prima che Salvini cominciasse a tuonare dal Viminale grazie alle misure adottate dal suo predecessore Minniti, ma tant’è gli umori e le paure non sono sempre compatibili con la realtà dei numeri.
Vi era dunque l’esigenza “politica” di Di Maio di rioccupare il palcoscenico, non essendo certo bastato il “decreto dignità”, bersagliato da critiche del mondo imprenditoriale ma soprattutto insufficiente ad “emozionare” i sentimenti popolari. Per questo il “reddito di cittadinanza”, punto qualificante della campagna elettorale dei Cinque Stelle, doveva a tutti i costi essere varato, costi quel che costi. E infatti su questo punto si è giocato il duro braccio di ferro con Salvini, fino a minacciare una crisi di governo. Per Salvini poteva essere una tentazione, ma alla fine ha prevalso nella Lega una tattica più prudente e sostanzialmente dilatoria (che molti attribuiscono alla crescente influenza di Giorgetti). Sta di fatto che Salvini ha fatto un passo indietro, ha ridimensionato la flat tax che tanto stava a cuore agli imprenditori, e ha puntato tutto sulla riforma della legge Fornero che i Cinque Stelle condividono e che consente un facile e immediato dividendo elettorale.
Da queste esigenze politiche la manovra non poteva prescindere, pena la perdita di credibilità di entrambi i partiti di governo, e questo spiega la rigidità dei Cinque Stelle e l’ostentazione nell’attribuirsene il merito (al brindisi dal balcone di palazzo Chigi non c’era nessuno della Lega).
Il problema è che per soddisfare queste esigenze politiche mancano le risorse necessarie, salvo finanziarle almeno in parte in deficit (che è infatti quel che si propone). Ma un ulteriore aumento del debito pubblico va in direzione opposta agli accordi presi dal precedente governo con l’Unione Europea e porta inevitabilmente a uno scontro frontale con la Commissione di Bruxelles e con la Banca Centrale Europea, la quale ultima, come si sapeva da tempo, ridurrà progressivamente gli acquisti di buoni del tesoro previsti dal quantitative easing. Uno scontro probabilmente gradito da Salvini che non nasconde i suoi sentimenti ostili verso qualsiasi processo di integrazione che limiti la sovranità degli stati nazionali, un po’ meno da Di Maio che deve fare i conti con una base meno convinta dell’opportunità di uscire dall’Europa. Probabilmente il leader dei Cinque Stelle conta sulla condizione di debolezza delle istituzioni comunitarie alla vigilia del rinnovo del parlamento di Strasburgo, ma commette un grave errore di prospettiva perché il nemico non è Juncker, ma l’ostilità crescente delle pubbliche opinioni del nord-Europa che imputano all’Italia l’incapacità di ridurre un debito pubblico che potrebbe danneggiare l’intera Europa. Il successore di Juncker alla presidenza della Commissione – chiunque sia – non sarà più “morbido” ma semmai il contrario. In sede europea i peggiori nemici dell’Italia sono proprio i “sovranisti” degli altri paesi, anche se Salvini finge di non accorgersene.

Per ciò che attiene gli aspetti macro-economici a cui questa manovra vorrebbe ispirarsi la fonte più credibile e più competente mi pare quella del professor Paolo Savona, un economista formato in Banca d’Italia le cui idee si possono discutere ma non liquidare semplicisticamente. Non a caso, dopo mesi di silenzio, il governo lo ha lanciato sui mass-media (televisione, giornali, social-network) per difendere la “filosofia” della manovra dagli attacchi che provenivano da tutte le parti.
La tesi di Savona, se ho capito bene, è relativamente semplice. La politica economica portata avanti dall’Unione Europea, su spinta della Germania, fa della stabilità monetaria e finanziaria il presupposto per ogni altra esigenza di sviluppo e di espansione, anche nei cicli depressivi che – secondo Savona – richiederebbero invece un sostegno attraverso l’espansione del debito pubblico. Savona non nega l’importanza della stabilità, sostiene però che vada accompagnata da una flessibilità sui parametri di Maastricht che l’Unione non ha praticato, almeno nei confronti dei paesi mediterranei che hanno economie più esposte alla volatilità dei mercati. Con la crisi mondiale partita dagli Stati Uniti nel 2008 l’Europa era entrata in una recessione dalla quale soltanto ora sta uscendo, ma ancora una volta la politica di stabilità imposta dalla Germania alle istituzioni comunitarie ha impedito l’adozione di misure di flessibilità che avrebbero consentito ai paesi mediterranei di crescere più rapidamente compensando almeno in parte gli squilibri esistenti all’interno dell’Unione. Eppure nel 2003, quando Francia e Germania in crisi lo chiesero, i “parametri” di Maastricht furono accantonati senza problemi, e quando si trattò di salvare il sistema bancario tedesco si consentì al governo di Berlino azioni di salvataggio che costarono centinaia di miliardi. C’erano buone ragioni soprattutto di carattere politico e sociale per farlo, perché non conveniva a nessuno che l’asse portante dell’Europa che collega Parigi con Berlino venisse meno; ma ci sono altrettante buone ragioni per venire incontro oggi all’Italia, anche perché non conviene né alla Francia né alla Germania che entri in una spirale negativa irreversibile un paese come l’Italia che – con rispetto parlando – non è la Grecia, trattandosi della terza economia continentale. D’altronde proprio la crisi greca insegna che essa avrebbe potuto risolversi presto e a costi inferiori se affrontata subito con maggiore flessibilità e senza intenti pedagogicamente punitivi. Savona quindi non soltanto nega la fama che si è creato col famoso “piano B” ma sostiene al contrario che l’Europa e la stessa moneta unica sono indispensabili; però la loro governance deve cambiare passo, come hanno fatto gli Stati Uniti durante la presidenza Obama con ottimi risultati. Il cosiddetto “piano B” – spiega Savona – altro non è che ciò che tutti fanno (magari in silenzio); prepararsi a gestire un’eventuale uscita dall’ Eurozona nel caso in cui la BCE (che, non dimentichiamo, avrà un nuovo presidente l’anno prossimo alla scadenza del mandato di Draghi) frenasse le politiche espansive accettando il veto della Germania alla creazione dei cosiddetti “eurobond”, titoli di credito garantiti dalla banca stessa e in grado di creare liquidità in maniera costante. L’Italia quindi deve avviare una politica espansiva facendo leva su un misurato aumento del debito pubblico e sull’utilizzo di risorse potenziali che potrebbero essere impiegate per investimenti e sviluppo (risparmio privato, patrimonio immobiliare, ecc.). La linea del rigore invece, producendo disagio e forti asimmetrie sociali, non è politicamente sostenibile.

Vediamo Infine gli aspetti micro-economici della manovra, cioè i suoi contenuti concreti. L’opposizione si è scatenata sullo sforamento del deficit portato al 2,4% del pil (contro lo 0,8 previsto e concordato con la Commissione europea in cambio di maggiore flessibilità) ma in realtà non è questo ciò che più preoccupa. Altre volte negli ultimi anni il deficit aveva raggiunto e superato questa percentuale senza grandi conseguenze. E nemmeno appaiono significativi alcuni tagli a spese sostanzialmente assistenziali (sostituite da altre diverse ma ugualmente assistenziali come i rimborsi ai risparmiatori danneggiati dal fallimento di alcune banche). Anche il reddito di cittadinanza non può scandalizzare in linea di principio il centro-sinistra perché si pone in continuità con il reddito di inclusione del governo Gentiloni e corrisponde – almeno nelle intenzioni – ad analoghe misure adottate in numerosi paesi europei. Un sostegno finalizzato ad ammortizzare gli inconvenienti delle grandi trasformazioni che incombono sulle future caratteristiche del mondo del lavoro è condivisibile; lo riconoscono tutti da destra a sinistra, e molti paesi del nord-Europa sono impegnati già da anni in politiche di ricollocazione delle risorse umane che rischiano di restare disoccupate a fronte della crescente automazione che investe i processi produttivi. Il problema dunque non riguarda l’opportunità di una misura che probabilmente anche il centro-sinistra, se avesse vinto le elezioni, avrebbe affrontato, riguarda invece le modalità di realizzazione e le compatibilità di bilancio.
Per quanto attiene le prime, premesso che per quanto riguarda la povertà nessuno contesta la necessità di venire incontro con interventi pubblici almeno alle situazioni più gravi, l’obiezione concerne il generico concetto di “povertà” dietro il quale spesso si nascondono situazioni che con essa non hanno nulla a che vedere (e che Di Maio, cresciuto a Pomigliano d’Arco, dovrebbe conoscere bene). In un paese come il nostro dove l’economia sommersa ha raggiunto (secondo calcoli che mi paiono ottimistici) il 19,5% del pil per un giro d’affari che supera i 320 miliardi di euro quanti sono i lavoratori che risultano totalmente o parzialmente disoccupati mentre in realtà lavorano in nero (secondo l’INPS oltre tre miliomi)? Riceveranno anch’essi il “reddito di cittadinanza? Naturalmente Di Maio dice di no e promette controlli e pene severe che francamente fanno pensare alle “grida“ di manzoniana memoria, considerata l’insufficienza cronica degli strumenti di controllo accompagnata spesso da una sostanziale omertà dell’opinione pubblica che rasenta la complicità.
Non è il solo punto di criticità. C’è il problema dei centri per l’impiego ai quali dovrebbe essere demandato il compito di incrociare la domanda e l’offerta di lavoro e la gestione degli indispensabili percorsi di formazione; chiunque conosca come funziona il collocamento (soprattutto nel centro-sud) e si immagina cosa potrebbero diventare gli obbligatori “lavori socialmente utili” in contesti economicamente e moralmente degradati (lo abbiamo già visto in Campania e in Sicilia) capisce che una misura temporanea finalizzata a proteggere i disoccupati dalla povertà si trasformerebbe fatalmente in una elargizione praticamente assistenziale e permanente. Abbiamo già sperimentato come identici strumenti legislativi, formativi, burocratici, abbiano diversamente funzionato nelle differenti parti d’Italia. Il nostro è il paese dei furbi che non esitano a compiere falsi in atto pubblico anche soltanto per parcheggiare l’auto negli spazi riservati agli invalidi. Vien da ridere a pensare a quello che potrebbe accadere e alla facilità di scambiare prestazioni alimentari con contanti da utilizzare diversamente; vien da piangere al vedere questa concezione da stato di polizia incompatibile con la libertà di scelta dei consumatori che porta inevitabilmente alla crescita di un’economia parallela sommersa.
Per quanto poi riguarda l’obbligo di accettare almeno una proposta di lavoro (su tre) sorge un dubbio: ci sono davvero disponibili sul mercato tante offerte di lavoro? E se sì come mai abbiamo un tasso di disoccupazione così elevato? Il rischio è che l’offerta di lavoro davvero praticabile dall’incrocio dei dati sia in realtà molto limitata. Non vorrei che gli unici posti di lavoro in più prodotti dal reddito di cittadinanza siano quelli che serviranno per potenziare i nuovi centri per l’impiego!
Per ciò che concerne la convinzione (peraltro assai diffusa, ci credette anche Renzi) che l’espansione della spesa, generando maggiori consumi, faccia aumentare la domanda interna di beni e servizi determinando in maniera quasi automatica effetti positivi sulla produzione e conseguentemente sull’occupazione, si tratta di una rozza rivisitazione della teoria di Keynes chiamata deficit spending. Per la verità la maggioranza degli economisti (c’è sempre però qualcuno che la pensa diversamente) ritiene che oggi nelle condizioni date (assai diverse da quelle ipotizzate da Keynes) una immissione di liquidità nella disposizione delle persone fisiche non possa produrre gli effetti che i Cinque Stelle immaginano, e comunque non nei tempi e nella misura che si vorrebbe; in realtà maggiori disponibilità di soldi produce comportamenti molto differenziati che dipendono dalle condizioni “reali” di chi li riceve che, essendo diversissime tra loro, finiscono per disperdersi in mille rivoli. Per avere risultati positivi occorrerebbe invece concentrare le poche risorse disponibili su quei comparti produttivi in grado di generare occupazione, agendo quindi prevalentemente sulla leva fiscale. Si ricade altrimenti in una logica vecchissima (altro che cambiamento!) praticata dopo gli anni ’70 quando l’espansione della spesa in deficit ha prodotto un debito pubblico che, malgrado i tentativi di contenimento, ha superato oggi i 2.300 miliardi di euro. Un debito che solo parzialmente è servito a dotare il Paese delle necessarie infrastrutture (sanità, scuole, porti, aeroporti, strade, servizi collettivi, ecc.) essendo stato per la maggior parte utilizzato per elargizioni sostanzialmente assistenziali e improduttive (pensioni baby, false invalidità, malasanità, corruzione, ecc.). Un debito pubblico che ci siamo portati appresso per anni senza mai proporci seriamente di ridurlo anche perché la congiuntura finanziaria internazionale (e la politica dei grandi regolatori monetari, Federal Reserve negli Stati Uniti e BCE in Europa) manteneva molto bassi gli interessi. Adesso che la fase di contenimento si sta esaurendo e ci si avvia a un periodo di relativa espansione inflazionistica (con conseguente aumento degli interessi) per i paesi indebitati come il nostro saranno dolori.

Il secondo pilastro della manovra è costituito dal cosiddetto superamento della legge Fornero (alla quale invece – al netto di alcuni errori gravi ma marginali – quasi tutti gli economisti riconoscono il merito di avere tamponato l’emorragia incontenibile della spesa pubblica consentendo all’Italia di riacquistare credibilità in Europa e sui mercati), cioè la possibilità di anticipare l’età pensionistica. Purtroppo è stato fatto credere prima delle elezioni che gli oneri derivanti dalla soppressione della legge Fornero sarebbero stati tranquillamente coperti dai tagli ai vitalizi parlamentari e alle cosiddette “pensioni d’oro”. A prescindere da ogni considerazione di carattere giuridico (è davvero possibile modificare con un tratto di penna diritti acquisiti? E quali conseguenze potrà produrre tale prassi nella credibilità del nostro stato di diritto?) gli effetti economici della redistribuzione sono assai modesti: non più di qualche centinaio di milioni a fronte dei molti miliardi necessari. La Lega afferma, un po’ semplicisticamente, che mandando subito in pensione quattrocentomila persone si creano altrettanti posti di lavoro che, a loro volta, generano reddito e contributi previdenziali per rimpinguare i bilanci dell’INPS. In realtà ciò è molto improbabile: il settore privato tenderà a non sostituire quelli che vanno in pensione per ottimizzare meglio le risorse disponibili, specialmente in quei comparti interessati ai nuovi traguardi dell’automazione, quello pubblico ha già problemi di eccesso di dipendenti e dovrebbe approfittarne per ridurre una burocrazia fin troppo pletorica.
Il punto è un altro: il personale che occorre (sia nel privato che nel pubblico) deve essere adeguatamente formato, in grado di utilizzare tecnologie innovative (il cosiddetto 4.0), essere disposto a una mobilità interna ed esterna maggiore di quella esistente, essere in sostanza preparato a utilizzare le opportunità che offre un’economia avanzata, anche a costo di rinunciare a facili protezioni familiari o statali che abbassano la competitività del sistema produttivo. E di questa “visione” nella manovra non c’è traccia, nemmeno in prospettiva.
C’è poi un altro aspetto dell’accorciamento dell’età pensionistica che suscita perplessità: la possibilità che aumenti il sommerso con l’immissione sul mercato del lavoro (soprattutto nell’agricoltura e nei servizi) di mano d’opera a basso costo perché già coperta dalla pensione. O davvero si crede che persone che hanno raggiunto i 62/63 anni in condizioni di salute sempre migliori (grazie ai progressi sanitari che hanno prolungato l’aspettativa di vita) vadano a trascorrere tutto il loro tempo a passeggiare col cane o a occuparsi dei nipotini (sempre più scarsi e sempre più autonomi)?

Lo Stato è indebitato ma gli italiani sono “ricchi”?
Un argomento recentemente tornato d’attualità perché utilizzato largamente dai partiti di governo per giustificare l’espansione della spesa pubblica in deficit è quello delle dimensioni del risparmio privato e del patrimonio immobiliare. E’ vero che il nostro risparmio è più elevato che in Francia e nella stessa Germania ma non si capisce la connessione con il debito pubblico. Si vorrebbe utilizzare il risparmio privato per compensare il debito pubblico? E come? Non certo con una conversione forzosa che sarebbe immorale, incostituzionale, contraria alle regole del mercato e conseguentemente avversata dall’Unione Europea e dalle istituzioni internazionali, un passo verso l’isolamento. Allora rendendo appetibili nuovi titoli di credito garantiti dallo Stato e, per evitare un rating negativo dei mercati, premiandone l’inalienabilità; in sostanza pagando interessi elevati in cambio dell’impegno a non vendere per diversi anni? Un rischio che non so quanti risparmiatori sarebbero disposti a correre. La verità è che il risparmio privato è come un “fondo sovrano” frammentato, va dove trova maggiore convenienza e minori rischi; per questo in un mercato aperto è sostanzialmente volatile e può essere “catturato” soltanto offrendo garanzie di credibilità che noi, con misure avventate, potremmo perdere del tutto. Quanto poi al patrimonio immobiliare esso potrebbe servire soltanto a trarne vantaggi fiscali sotto forme più o meno immaginifiche di imposta patrimoniale; è quello che ha fatto Monti con l’IMU e che, parzialmente, hanno fatto i suoi successori e che è sempre stato considerato deleterio dai partiti che oggi governano il Paese. E’ vero che coerenza e politica non sono mai andati d’accordo ma c’è un limite a tutto. Vuoi vedere che alla fine si scopre che Monti aveva ragione? E’ proprio vero: le vie del Signore sono infinite!!!

La globalizzazione dei valori.
In conclusione: il quadro che emerge dal combinato disposto (come dicono i giuristi) delle dichiarazioni rilasciate senza freno (le parole sono pietre, ha ammonito anche il presidente della BCE Draghi), delle leggi già approvate e di quelle che stanno per esserlo o che vengono annunciate, fa intravedere una cultura sostanzialmente avversa alle logiche di mercato, diffidente nei confronti dell’iniziativa privata, insofferente ai vincoli monetari, conseguentemente favorevole all’estensione del settore pubblico, che riporterebbe la nostra società civile indietro nel tempo fino alle concezioni di “stato etico” che i nostri avi hanno sperimentato col fascismo. Un contesto che si sposa purtroppo con l’insofferenza per tutti i poteri che non dipendono dallo Stato (magistratura, sistema dell’informazione, servizi privati, commercio svincolato da prescrizioni corporative) in nome di un populismo proclamato come unica fonte di ogni potere. Se si andasse avanti su questa strada il passaggio dalla democrazia liberale a quella illiberale teorizzata da Orban (e da molti altri) diverrebbe possibile e in cambio di ordine e sicurezza i nazionalisti di Salvini e i populisti di Grillo chiederebbero all’elettorato mano libera per installare anche in Italia un regime sostanzialmente (anche se non formalmente) autoritario. Come quelli di Putin in Russia, di Erdogan in Turchia, e molti altri sparsi per il mondo.
La crisi di rigetto della globalizzazione che l’Europa sta attraversando non stupisce; la storia ci insegna che ogni cambiamento davvero radicale (e la globalizzazione lo è) comporta squilibri che non sempre vengono vissuti con serenità da chi ne è – o ritiene di esserne – danneggiato. Per superarla occorre “cultura e intelligenza” (che era lo slogan di noi studenti dell’unione goliardica subito dopo la guerra). E soprattutto consapevolezza che malgrado le convulsioni di molti paesi occidentali, nonostante una crisi economica di assestamento male gestita, la globalizzazione è stata un grande successo ed è irreversibile, per quanto Trump possa twittare in contrario: se l’Occidente non saprà gestire e superare questo momento di preoccupazione se ne avvantaggeranno soprattutto paesi come la Cina e la Russia per i quali la globalizzazione rappresenta soltanto un fatto che riguarda i mercati e non i valori che nella cultura liberale si accompagnano alla libertà degli scambi. A sostenere il contrario siamo per fortuna in molti: in America, in Europa, in Estremo Oriente, nell’emisfero australe e persino in alcuni paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Da che parte si collocherà l’Italia? Si rinchiuderà nel proprio giardino (peraltro bellissimo) serrando porte e finestre ed erigendo muri di cinta e cancelli, oppure i suoi abitanti capiranno, prima o poi, che tutto, a cominciare dalla loro storia e dalla loro natura, dovrebbe portarli ad affrontare il mare aperto? La partita è ancora tutta da giocare.

Franco Chiarenza
15 ottobre 2018

Entrambi i partiti che costituiscono la maggioranza di governo si definiscono forze “di cambiamento”, anzi, proprio nel cambiamento dicono di trovare l’affinità che consente loro – pur diversi – di governare insieme.
Bisogna allora cercare di capire che cosa realmente vogliono cambiare e, riuscendoci, quali ne sarebbero le conseguenze. Il problema non è il cambiamento delle persone, delle “facce” (anche se questo è soprattutto quello che molti elettori dei Cinque Stelle volevano) ma verso quali scelte indirizzarlo; il cambiamento non è un valore per se stesso, dipende dagli obiettivi che con esso si vogliono perseguire.

Cambiare la classe politica per eliminare la corruzione
Questo è per i Cinque Stelle il cambiamento principale, quello su cui hanno costruito il successo e per il quale c’è tra loro un unanime consenso. Un po’ meno nella Lega per la semplice ragione che a tutti gli effetti della vecchia classe politica la Lega ha fatto parte a lungo e anche in posizioni di rilievo: governo nazionale, regioni, grandi e piccoli comuni, e per di più in alleanza con Berlusconi che, agli occhi dei nipotini di Grillo, rappresenta la personificazione del malaffare politico e morale.
Cosa si rimprovera infatti alla vecchia classe politica? Di essere corrotti e di avere istituito un sistema articolato di interessi personali che costituisce la causa principale dei problemi che affliggono il Paese. Eliminandola, o comunque rendendola impotente, il problema dovrebbe risolversi da sé.
Ora, a prescindere dall’automatismo un po’ ingenuo che cerca nella corruzione la causa di ogni male, non vi è dubbio che essa costituisca purtroppo un male endemico del nostro Paese che genera tra le altre conseguenze un freno allo sviluppo e una delle ragioni della sua scarsa attrattività (parole di Cottarelli, il quale certo non può annoverarsi tra i simpatizzanti di Grillo). Lo sanno e lo dicono tutti da sempre, ma bisogna chiedersi perché, malgrado le “grida manzoniane” che si sono succedute da trent’anni a questa parte, la corruzione non soltanto non è stata estirpata ma, a quanto pare, nemmeno ridotta. Una riflessione si impone. I Cinque Stelle sono cresciuti alimentandosi del mito che la corruzione dalla “testa” della nazione si dirami come un cancro a tutte le articolazioni del potere; un errore di prospettiva che hanno compiuto anche i loro predecessori. Temo (non solo io, anche Davigo che in proposito ha scritto un libro assai apprezzato dai pentastellati) che le cose non stiano così e che tutti conoscano la verità ma non osano dirla: quella della “casta” riflette una corruzione diffusa che si alimenta di comportamenti quotidiani, di mancanza di senso civico, di disprezzo per le regole, che forse deriva da radici storiche lontane. La classe dirigente liberale non riuscì ad eliminare la corruzione, già dilagante, dopo l’unificazione, ed essa è riemersa più forte che mai durante il fascismo (coperta dalla mancanza di trasparenza del regime) e, purtroppo, è cresciuta nella prima repubblica a guida demo-cristiana in coincidenza con l’aumento della ricchezza del Paese. Il “boom” degli anni ’50 generò anche la caduta verticale di quel poco di moralità che ancora la borghesia portava con sé.
Riusciranno i nostri eroi a cinque stelle laddove sono falliti tanti altri? Me lo auguro. Temo però che il ricambio della classe politica – ammesso che avvenga – non basterà a cambiare le cose, così come non bastò dopo che i processi di “mani pulite” negli anni ’90 avevano creato le condizioni di una ripartenza da zero, avendo eliminato drasticamente quasi tutti i partiti della prima repubblica (DC, PSI, PRI, PLI). Se vogliamo ridurre la corruzione a dimensioni “normali” (eliminarla del tutto mi pare difficile) occorre mettere in atto un progetto di ampio respiro in grado di riformare la giustizia, la pubblica istruzione, la pubblica amministrazione, la pubblica sicurezza, rendendole efficienti e quindi in grado di contrastare le prassi clientelari e assistenziali che si diffondono anche perché contano sull’impunità non soltanto giudiziaria ma anche sociale. Ricordo, tanti anni fa, parlando della corruzione con colleghi americani, questa bruciante affermazione: “La corruzione esiste anche da noi, ed è anche molto rilevante; ma una differenza c’è, da noi se ne vergognano da voi la esibiscono come manifestazione di furbizia”.

Combattere la “casta”
Ma i Cinque Stelle non si accontentano della classe politica; nel mirino del “cambiamento” c’è la “casta”. Con questo termine gli allievi di Grillo intendono tutti i privilegiati che si annidano nelle istituzioni godendo di vantaggi ingiustificati a spese della collettività. Qui bisogna fare attenzione: se si vogliono cambiare i vertici della pubblica amministrazione, delle partecipazioni di Stato, dell’esteso sottogoverno che è parte integrante dell’apparato pubblico italiano, nulla di nuovo: si chiama spoyl system ed è stato largamente praticato (spesso con risultati discutibili) sia dal centro sinistra che dal centro destra. Se si vogliono mettere le mani su organismi cruciali per la credibilità internazionale del Paese, la prudenza è d’obbligo: Banca d’Italia, Autorità indipendenti (Anti-trust, Borsa, comunicazioni), autonomia universitaria, magistratura, mezzi di informazione liberi, costituiscono il biglietto da visita su cui si valuta in gran parte l’affidabilità del “sistema Italia”, a prescindere dalle variabili maggioranze che possono alternarsi al governo. Anche in questo caso altre sono le soluzioni davvero radicali che da sempre i “liberali qualunque” propongono: ridurre le dimensioni abnormi dell’apparato statale e degli enti locali, ridare fiato all’iniziativa privata, attuare il sano principio per cui è consentito tutto ciò che non è espressamente vietato e non il suo contrario come oggi avviene (per cui è vietato tutto ciò che non è espressamente autorizzato). Si ridurrebbe la “casta”, si restituirebbe al mercato la sua funzione equilibratrice, si libererebbero energie in grado di produrre risorse disponibili per la comunità, si aumenterebbe l’attrattività del “sistema Paese” nei confronti degli investitori. Ma non sembra questa la strada su cui i Cinque Stelle sembrano avviati; al contrario si invoca il ritorno allo Stato di quel poco che si era privatizzato, si evocano nazionalizzazioni, si diffida dell’iniziativa privata, manca poco che si ritorni all’antica pregiudiziale cattolica per la quale il profitto è peccato. Non si coglie nemmeno il proposito di ridisegnare la congruità dell’intero sistema pubblico, tagliarne i costi, renderne più efficienti le strutture; ci si è limitati a misure punitive come il taglio annunciato alle cosiddette “pensioni d’oro”, di dubbia costituzionalità ma di sicuro effetto populistico. I grandi liberali inglesi dell’Ottocento ci avevano avvertiti: non esiste lo Stato buono, non è mai esistito e mai esisterà; può esistere uno Stato costretto ad essere “buono” dal potere di intermediazione esercitato in forme diverse da corpi autonomi in grado di vivere senza ricorrere alla sua protezione. Meno Stato, più società: la grande ricetta liberale che sembra ignorata dal dirigismo resuscitato.
A questo punto naturalmente qualcuno tirerà fuori la tragedia del ponte di Genova. Ma il problema non è che la società Autostrade sia privata e consenta profitti (necessari per remunerare le migliaia di azionisti e creare nuovi investimenti); se fosse stata pubblica sarebbe diverso? La questione è semplice: qualcuno ha sbagliato, la società che non ha effettuato i lavori necessari e la pubblica amministrazione che non ha vigilato come avrebbe dovuto. Speriamo adesso che chi ha sbagliato ne paghi le conseguenze civili e penali.

Contrastare i poteri forti
Un altro obiettivo della nuova maggioranza (ma soprattutto, ancora una volta, dei Cinque Stelle) è quello di tagliare le unghie ai cosiddetti “poteri forti”, che dall’ombra dei palazzi del potere manovrano in maniera occulta per favorire interessi privati a danno dell’onesto popolo dei lavoratori. Chi sono questi poteri forti? Su questo punto i pentastellati entrano in genericismi fumosi che nascondono l’imbarazzo di chiamarli per nome e cognome. Molto più decisi i leghisti salviniani: i “poteri forti” sono quelli che congiurano, in combutta con l’Europa a trazione tedesca, per ridurre i poteri sovrani della Nazione. Quindi magistratura, informazione (stampa, televisione), grandi imprese (artificiosamente contrapposte alle piccole), banche, mercati internazionali, agenzie di rating, istituzioni sovranazionali, chiesa conciliare (strumentalmente distinta dalla sana tradizione cattolica).
Certo, i poteri forti esistono, sono sempre esistiti; essi consistono in realtà in quei gruppi di persone che dispongono di una autonomia decisionale che gli consente di non dipendere completamente dallo Stato (e quindi dalla politica). Per esempio gli imprenditori associati (Confindustria, Confcommercio e simili), i sindacati, gli editori, la finanza (soprattutto quella internazionale dove svolgono un ruolo determinante i fondi sovrani), la Chiesa, e pochi altri tra cui alcune collaudate corporazioni che gestiscono l’erogazione dei servizi (nella sanità, nella scuola, nell’informazione, ecc.). Ed è difficile per chiunque, in qualunque parte del mondo, governare senza tenerne conto. Qualcuno, prima delle elezioni, lo aveva spiegato a Di Maio il quale infatti ha dedicato qualche settimana del suo tempo ad andare in giro in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, ovunque i “poteri forti” erano annidati, per rassicurarli sulle intenzioni di questo “oggetto sconosciuto” che era per tutti il movimento cinque stelle. Ma poi l’alleanza con Salvini ha innescato una competizione demagogica soprattutto quando il leader della Lega ha fatto il pieno battendo la grancassa dell’immigrazione clandestina. Spiazzato e schiacciato dai sondaggi Di Maio ha ripiegato sul “decreto dignità” che regolarizza i portatori di pizze a domicilio e che produrrà probabilmente –secondo molti – un aumento della disoccupazione e del lavoro nero. Sulle altre questioni scottanti lasciate aperte dalla precedente legislatura la strada obbligata è quella di onorare gli impegni presi facendo credere di avere ottenuto condizioni migliori: così per l’ILVA di Taranto, per l’approdo del gasdotto in Puglia (TAP), per la TAV Torino-Lione. E pazienza se ciò deluderà gli ambientalisti. La vera rivincita di Di Maio si gioca sul “reddito di cittadinanza”: una misura molto popolare nel sud dove ha rappresentato la ragione più importante del consenso elettorale. Ma il problema – come si è sempre saputo – è un po’ come la quadratura del cerchio. Le risorse disponibili, se non si vuole entrare in rotta di collisione con l’Europa, sono poche e non consentono di realizzare contemporaneamente il reddito di cittadinanza, la riforma delle pensioni e l’adozione della flat tax. Anche qui Salvini ha le idee chiare: forzare la situazione aumentando il debito pubblico entrando così consapevolmente in conflitto con la Commissione dell’Unione Europea e con la Banca Centrale Europea, anche in vista di un futuro ridimensionamento dei loro poteri dopo le elezioni del 2019. Ma quali sono in proposito gli intenti e le prospettive dei Cinque Stelle?

Restare in Europa?
Sappiamo tutti che l’Europa, la globalizzazione, l’apertura dei mercati a nuovi paesi, lo stato di diritto, sono percepiti da molti come minacce alla propria sicurezza; se il cambiamento consiste nella strumentalizzazione di queste paure si tratterebbe di un cambiamento che ci porterebbe indietro verso l’autarchia, il nazionalismo, il ritorno alla conflittualità endemica che sfociò in due disastrose guerre mondiali (oggi improbabili ma sostituite da altrettante guerre commerciali per noi esiziali); un remake non molto originale del fatidico “sacro egoismo per l’Italia” pronunciato da Salandra per motivare l’entrata in guerra nel 1915. Un suicidio allora, un suicidio oggi per ragioni che sarebbe troppo lungo enumerare in questa sede ma che probabilmente anche molti elettori dei Cinque Stelle comprendono. Se invece si tratta di cambiare una classe dirigente che si è dimostrata incapace e poco credibile, la sfida consiste nel fare quelle cose che essa non è stata in grado di assicurare, andando avanti non voltandosi indietro.
Fino a questo momento l’unico punto chiaro che sembra emergere dall’azione di governo e soprattutto dalle intenzioni dichiarate è quello di rappresentare (e quindi consolare) le paure e le preoccupazioni, molte delle quali fondate e condivise (come la crescita del divario sociale). Tutti vogliono essere protetti, tutti cercano sicurezza oggi piuttosto che opportunità domani; comprensibile ma sbagliato. Camminare sull’onda emotiva anche quando dati di fatto e ragionamenti dovrebbero indurre a puntare sulle strategie più adatte ad affrontare il futuro, è pericoloso; chi non risica non rosica, dice un vecchio proverbio.
Ed è qui che si misura la distanza tra governanti demagogici e statisti lungimiranti. Quando subito dopo il 1948 si trattò di scegliere tra l’apertura dei mercati e il protezionismo, molti, anche potenti (confindustria, sindacati) si levarono in difesa dei dazi protettivi; statisti come De Gasperi, Einaudi, La Malfa decisero di rischiare, e a loro il Paese deve la più grande trasformazione economica di tutta la sua storia. Scegliere il mantenimento dell’esistente e chiedere maggiori protezioni significa in concreto aumentare l’invadenza dello Stato, ignorare i vincoli di bilancio (che sono necessari per la nostra economia non per imposizione dell’Europa), tornare a tassi di inflazione a due cifre, mettere in discussione i principi fondamentali dello stato di diritto, scivolare verso un regime plebiscitario che della democrazia – soprattutto di quella liberale – ha soltanto l’apparenza.
Il fatto è che mentre in politica interna Grillo e i suoi seguaci credono di avere trovato nella lotta alla corruzione la chiave di volta per la soluzione di tutti i problemi, in politica estera l’incertezza regna assoluta; ben sapendo che le elezioni si vincono (o si perdono) sulle questioni che interessano la quotidianità della vita sociale e non sulle complesse dinamiche della politica estera e delle convenienze economiche su scala globale, non se ne sono preoccupati più di tanto. Ma ora governano con Salvini il quale – come abbiamo detto – (non so se seguito da tutta la Lega) ha le idee chiare: fuori dall’Europa, in posizione defilata nei confronti dell’Alleanza Atlantica, alleati strumentalmente con la Russia, chiusi nelle nostre frontiere, lasciando che il resto del mondo vada nella direzione che vorrà ma evitando che influisca sul nostro giardino recintato. Ma è questa la posizione dei Cinque Stelle? Difficile dirlo: di questo in realtà non hanno mai seriamente discusso (donde asserzioni generiche e piuttosto fumose) anche perché probabilmente le sue diverse anime entrerebbero in contrasto. Gli ambientalisti sono in genere contrari alla globalizzazione capitalistica ma favorevoli a forme di integrazione europea fondate sul solidarismo, i piccoli e medi imprenditori vorrebbero meno Stato e più mercato (anche internazionale perché molti di loro sono esportatori), alcuni agricoltori vorrebbero il blocco delle importazioni agricole, ma altri, prevalentemente esportatori dei nostri prodotti di qualità la pensano diversamente, l’ala di sinistra è più sensibile all’aumento della spesa sociale ma spinge per un’alleanza strategica con la CGIL che non sarebbe condivisa da una parte dell’elettorato (e nemmeno dalla Lega). Insomma un pasticcio in cui può cacciarsi soltanto chi ha costruito il suo successo su slogan accattivanti e promesse di difficile mantenimento. Quanto potrà durare? E quanti danni nel frattempo potrà arrecare?
A Salvini non importa: attende paziente che il collega napoletano resti impigliato nella ragnatela delle contraddizioni. Non ha fretta e sa che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare immenso degli interessi del nord; una volta incassato il dividendo dello stato confusionale del movimento di Grillo sa bene come andarci lui a trattare coi “poteri forti”. C’è abituato: è alleato in tutti gli enti locali con Berlusconi che dei poteri forti ne sa qualcosa.

 

Franco Chiarenza
15 settembre 2018

P.S. Questo articolo era stato scritto il 2 settembre. Ho atteso a pubblicarlo per vedere se gli sviluppi della situazione lo rendessero superato. Non è successo nulla.

Ne erano crollati altri negli ultimi anni ponendoci il dubbio che la loro costruzione nella seconda metà del secolo scorso presentasse qualche problema. Nella nostra cultura millenaria i ponti hanno rappresentato quasi l’eternità: ponte Milvio a Roma ha duemila anni ed è ancora in piedi.
Nell’orgia di dichiarazioni, interviste, polemiche più o meno strumentali, una cosa ci sembra di avere capito: le tecnologie basate sul cemento armato se, da un lato, consentono costruzioni ardite e leggere, d’altra parte hanno comportato (almeno in passato) fragilità intrinseche che emergono nel tempo legate all’usura delle anime ferrose imprigionate nei contenitori di cemento (e per questo anche di difficile manutenzione).

Il viadotto sul Polcevera
Il crollo avvenuto a Genova rappresenta però qualcosa di più di un inconveniente tecnico; non soltanto per le vittime innocenti che ha provocato e che hanno dato all’evento le dimensioni di una tragedia umana tanto più inaccettabile quanto più ragionevolmente prevedibile, ma anche perché l’ardito ponte sul Polcevera, celebrato quando fu costruito come un capolavoro dell’ingegneria italiana, rappresentava qualcosa di più del collegamento tra due quartieri di Genova. Era uno dei punti di convergenza del traffico tra l’Italia e l’Europa meridionale, passaggio obbligato tra il porto, la città, le grandi vie di comunicazione che si irradiano verso la Francia e all’interno del Paese. Un ponte simbolo al cui crollo si finisce per attribuire anche un significato che va ben oltre la tragedia che ha provocato.
Su un punto Di Maio ha ragione: un ponte così non doveva crollare. Qualcuno ha sbagliato e ha sulla coscienza la responsabilità di 43 morti, decine di feriti, danni ingentissimi. Anche se in parte la colpa è pure di chi (come il suo mentore Beppe Grillo) si oppose alla costruzione del by-pass della Gronda, progettato appunto per alleggerire il carico crescente che transitava per il ponte sul Polcevera e che, se rapidamente realizzato, avrebbe facilitato una revisione totale delle strutture del ponte Morandi rendendone possibile la chiusura ed eventualmente il rifacimento.
Spetterà alla magistratura stabilire le responsabilità, sarà compito delle istituzioni di governo nazionali e regionali mettere in sicurezza strutture analoghe, toccherà alla concessionaria “Atlantia” pagare i costi.

Le concessioni
Ma nella bufera delle polemiche è emersa una tendenza, spinta soprattutto dal movimento Cinque Stelle, di fare marcia indietro sulla politica delle concessioni e tornare alla gestione pubblica diretta delle grandi infrastrutture autostradali. Per un liberale non c’è da scandalizzarsi: a fronte di un “monopolio naturale” come si configura una rete di comunicazione e di trasporti non ripetibile (come strade e ferrovie) lo Stato ha tutto il diritto di gestirla direttamente. In passato lo ha fatto con le ferrovie, con la rete delle strade ordinarie, e da ultimo, con la nazionalizzazione della produzione e distribuzione dell’energia elettrica nel 1962. Anche in quel caso si denunciò la deriva “socialista” e dirigista dei partiti che l’avevano promossa ma in realtà nessun vero liberale poté contestare che in linea di principio la nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali dove non era possibile realizzare alcuna forma di concorrenza era del tutto compatibile con i principi liberali.
Le ferrovie erano state statalizzate durante i governi liberali nel 1905.
Domandiamoci però perché, dopo una gestione quasi diretta (quando la società Autostrade era controllata dall’IRI e quindi indirettamente dallo Stato), si è preferito (come in Francia e in Spagna; non in Germania) passare al sistema delle concessioni.
Il motivo principale è economico. Costruire le infrastrutture moderne è molto costoso; parecchi paesi hanno preferito farle realizzare a spese di privati in cambio di concessioni d’uso pluriennali. In altri casi la costruzione è stata finanziata dallo Stato ma si è preferito assegnarne in concessione la gestione in cambio dei proventi derivanti dai pedaggi perché anche soltanto amministrare e mantenere le autostrade richiede costi e capacità che la nostra pubblica amministrazione non è in grado di garantire. E in effetti quando lo Stato ha voluto gestire in proprio qualche autostrada i risultati sono stati disastrosi: si pensi all’autostrada Salerno-Reggio Calabria o alla Catania-Gela. Per non parlare delle precarie condizioni in cui versano molte strade provinciali e statali, soprattutto nel Sud. Una seconda ragione è che attraverso una gestione privatistica, soprattutto se quotata in Borsa, è possibile raccogliere capitali senza gravare sul bilancio dello Stato; il 50% di Atlantia, per esempio, è quotato in borsa e su di esso hanno investito migliaia di risparmiatori.
Il sistema delle concessioni quindi è stato adottato soprattutto per ragioni di convenienza economica e di maggiore efficienza. Oltre tutto in un sistema pubblico diventerebbero inevitabili le pressioni per un uso gratuito senza pedaggio (come avviene infatti nella Salerno-Reggio Calabria) con ulteriori aggravi di bilancio.

Nazionalizzazioni = più Stato
Ciò che preoccupa i liberali non è tanto la revoca delle concessioni e l’affidamento all’ANAS della gestione delle autostrade ma piuttosto una linea di tendenza che sembra emergere dalla cultura di governo soprattutto del movimento Cinque Stelle: aumentare le dimensioni della presenza pubblica, interrompendo quel percorso di privatizzazioni che il centro-sinistra si era visto obbligato a intraprendere quando il Paese, negli anni ’90, ha rischiato la bancarotta (qualcuno se ne ricorda?). Prima di allora l’Italia era considerata la nazione più “statizzata” dopo la Russia, c’era l’IRI che produceva (in perdita) persino i panettoni, e soltanto l’alleggerimento del debito pubblico ci consentì di partecipare alla nascente Unione Europea. Se si vuole tornare indietro, come sembra auspicare Di Maio, interpretando una cultura politica assai diffusa nel Mezzogiorno, indifferente quando non ostile ai meccanismi della società industriale fondati sul rischio imprenditoriale e sulla mobilità sociale, c’è di che preoccuparsi. Non a caso Salvini prende tempo (attraverso un evidente gioco delle parti con Giorgetti), si diverte a fare battute sull’Europa addebitandogli colpe che (almeno in questo caso) non ha, confondendo i vincoli del patto di stabilità con la mancata utilizzazione dei fondi che l’Unione ci aveva messo a disposizione. La maggior parte dei suoi elettori sono al nord e non è il caso di scherzare col fuoco.

Il profitto
La cultura che sta dietro tutto questo risale a tempi lontani ed è strettamente collegata con la concezione cattolica per la quale il profitto è un male, talvolta inevitabile, ma comunque da considerare con diffidenza. Anche in questo caso l’idea che si vuole fare passare è che l’ansia del profitto sia stata la causa principale della tragedia di Genova e che quindi l’unico modo di evitare rischi per la vita stessa dei cittadini sia quella di ricondurre allo Stato la gestione di tutte le infrastrutture, e se ciò comporta inefficienza e costi maggiori, pazienza. Almeno non ci sarà qualcuno che ne ha approfittato (cioè tratto profitto).
Questa concezione è molto diffusa ed è storicamente presente anche nella sinistra italiana; in qualche caso, quando prassi corruttive molto frequenti hanno consentito a soggetti privati senza scrupoli di impadronirsi di risorse pubbliche, ha anche qualche fondamento. Ma non bisogna lasciarsi condizionare da disfunzioni – anche evidenti – per gettare il bambino con l’acqua sporca.
Il sistema delle concessioni consente – come abbiamo detto – di trarre la maggiore convenienza in termini finanziari (perché raccoglie risorse provenienti dalla finanza privata), di efficienza (per la capacità imprenditoriale che lo Stato non può avere), e di competenza tecnica. Per funzionare bene deve avere alle spalle una pubblica amministrazione che sappia svolgere il suo compito di controllo in modo trasparente e con mezzi adeguati. Se ci sono concessionari avidi che speculano fino a mettere a rischio vite umane, bisogna tagliar loro le unghie; ma per farlo occorre disporre di buone forbici e saperle usare. Non dobbiamo chiedere a chi investe e cerca un profitto di “essere buono”; bisogna costringerlo ad esserlo. L’economia di mercato funziona se lo Stato evita di scendere in campo ma si assume la funzione indispensabile di stabilire le regole del gioco e di farle rispettare. Altrimenti la partita è truccata.

 

Franco Chiarenza
24 agosto 2018

A modesto avviso di un “liberale qualunque” le cose da fare per superare l’attuale congiuntura sono:

  1. Abbandonare la retorica pro-contro immigrati cercando di spostare altrove il punto dirimente del contrasto. Stessa cosa sulla legittima difesa. Si tratta di tematiche complesse che richiedono analisi realistiche su cui la sinistra si muove con difficoltà ed è sicuramente perdente anche in ampi settori di elettorato moderato.
  2. Centrare il confronto con la maggioranza sull’Europa, anche in vista del rinnovo del Parlamento di Strasburgo l’anno prossimo. E’ un tema che imbarazza e divide i Cinque Stelle che in materia non hanno mai avuto idee chiare; in molti di essi le derive sovraniste e nazionaliste della nuova Lega sono accolte con evidente disagio. Riprendere dunque lo slogan della Bonino “Più Europa”, con l’obiettivo di rilanciare il processo di unificazione politica con chi ci sta. Evitare la retorica di un’ “Europa diversa”, quasi a giustificare gli anti-europeisti. Ognuno di noi la vuole diversa (più liberale, più socialista, più attenta alle differenze sociali, più ambientalista, e quant’altro). “Quale Europa” è una dialettica da sviluppare in un’Unione che già sia stata costituita e alla quale siano state cedute porzioni importanti di sovranità in politica estera, nella difesa, nel coordinamento delle politiche finanziarie nell’ambito della moneta comune. Prima facciamo l’Europa poi discutiamo come dev’essere, non viceversa. Dire di essere europeisti soltanto a condizione che l’Unione sia come la vorremmo è un modo garbato di dire che si vuole fermare il processo di integrazione. A ben vedere si tratta della stessa divaricazione che divise i nostri antenati quando si trattò di unificare l’Italia. Da un lato gli unitari a tutti i costi, anche, se necessario, mantenendo la monarchia sabauda e alleandosi con Napoleone III, dall’altra i “duri e puri” della Repubblica romana (“uniti sì ma solo se ……”). Ha avuto ragione Cavour (prima facciamo l’Italia poi discutiamo).
  3. Integrare il discorso sull’Europa con quello dei “compiti a casa”, riprendendo in parte il primo riformismo di Renzi (quello della Leopolda) ma senza Renzi il quale, per ora, resta impresentabile ai fini di un recupero del consenso. I compiti a casa sono le cose che non funzionano e su cui né la Lega né il movimento Cinque Stelle propongono soluzioni convincenti: in primis scuola e giustizia.
  4. I “compiti a casa” servono anche a risolvere il problema dei problemi, quello della disoccupazione. Non sono le leggi che producono lavoro, ma soltanto gli investimenti. Essi si possono favorire con provvedimenti che riducano gli eccessi burocratici, portino la pressione fiscale a livelli accettabili, facciano funzionare bene e rapidamente la giustizia (soprattutto civile e amministrativa), raccordino l’offerta formativa alla domanda delle imprese. In questo (e poche altre cose) consistono i “compiti a casa”.
  5. Affrontare con decisione e sincerità tematiche elettoralmente sensibili come le pensioni e il sostegno alla disoccupazione involontaria (in sostanza il cosiddetto “reddito di cittadinanza”). In una situazione di risorse limitate favorire gli adeguamenti pensionistici e creare nuove misure assistenziali significa scegliere una politica sostanzialmente volta a sostenere anziani (e giovani mal formati rispetto alle esigenze del mondo produttivo) inevitabilmente a scapito della creazione di nuovi posti di lavoro. Il “reddito di inclusione sociale” varato dal governo Gentiloni, con qualche modifica migliorativa, è uno strumento valido per contrastare il disagio sociale. Anche gli incentivi 4.0 per l’innovazione di prodotto messi in cantiere dal precedente governo sono stati accolti con favore dagli imprenditori; potrebbero produrre più occupazione se la loro utilizzazione non fosse ostacolata in parte dalla mancanza di mano d’opera qualificata (donde l’importanza di una riforma radicale delle scuole tecnico-professionali).
  6. Ridurre sensibilmente il debito pubblico per ridare fiato al credito. Continuare a pensare di farlo senza ricorrere a misure straordinarie costituisce un’ingenuità a cui non crede più nessuno. L’unico modo per conseguire l’obiettivo è quello di un prelievo “una tantum” sul patrimonio immobiliare da destinare esclusivamente alla riduzione del debito. Chi non è d’accordo suggerisca alternative praticabili senza continuare a prendere in giro l’Europa, i mercati e, in ultima analisi, noi stessi.
  7. Diminuire sensibilmente la pressione fiscale. Se, al di là dei contrasti ideologici “di principio”, si dimostrasse che la flat tax sarebbe in grado di fare emergere almeno in parte il gigantesco sommerso che caratterizza (e penalizza) la nostra economia, se ne potrebbe discutere. Nicola Rossi (economista storico della sinistra) ha sostenuto che, realizzata con intelligenza e gradualità, essa potrebbe rappresentare una soluzione accettabile. Per tranquillizzare gli scrupoli della sinistra costituzionale che ritiene ancora la progressività delle imposta un tabù irrinunciabile (mentre ha prodotto uno dei sistemi fiscali più iniqui e fallimentari dell’Occidente) basterebbe forse chiamarla diversamente. La nostra sinistra è da sempre molto sensibile ai nominalismi a scapito della sostanza dei problemi.
  8. Opere pubbliche. Possono costituire una leva importante per rilanciare l’economia assorbendo in parte la disoccupazione e creando le infrastrutture necessarie per rendere attrattivo il Paese a nuovi investimenti. La retorica pentastellata contro le “grandi opere” poggia su un duplice equivoco che va smantellato, anche contestando le cifre false su cui si basa la loro propaganda. Il primo è che gli appalti per le grandi opere siano fonte certa di corruzione e di connivenze poco trasparenti; anche se spesso in passato è stato così bastano norme chiare e controlli verificabili per impedire che ciò avvenga (e in parte il governo Gentiloni le aveva già messe in atto). Il secondo equivoco riguarda i costi che si fanno apparire sproporzionati mentre con le somme “risparmiate” si potrebbero finanziare lavori pubblici più vicini alle esigenze quotidiane dei cittadini: ferrovie locali, strade provinciali, scuole, ospedali, assistenza, ecc. Non è così. Alcune grandi opere, per esempio, sono finanziate da fondi europei che vengono concessi per progetti infrastrutturali di interesse continentale (i grandi assi stradali e ferroviari, il rilancio delle zone sottosviluppate, ecc.). Il nostro Paese è l’unico che non ha saputo (o voluto?) utilizzare i fondi europei per realizzare adeguati investimenti sul territorio. Di questi invece ha bisogno l’economia del futuro, non solo per creare nuovo lavoro ma anche per mantenere quello che c’è. E non si tratta soltanto di infrastrutture nei trasporti ma anche (e forse soprattutto) di quelle immateriali come università efficienti, ricerca scientifica, razionalizzazione della sanità pubblica, ecc.
  9. Mezzogiorno. Basta con la vecchia retorica meridionalistica. Ripetiamo ai miei conterranei la lezione inascoltata di Gaetano Salvemini che ricordava già un secolo fa che la salvezza del Mezzogiorno non può venire da fuori. Da realtà esterne e sovrastanti (Stato centrale, Europa, finanza internazionale) possono arrivare sostegni anche significativi se le regioni meridionali riescono a mettere insieme un progetto organico di rilancio economico credibile e orientato al futuro, nel cui contesto le infrastrutture giocano un ruolo fondamentale. Inutile crogiolarci nel lamentoso vittimismo di certi meridionali se per andare in ferrovia da Roma a Bari ci vogliono tempi biblici, se il collegamento tra Palermo e Catania è affidato a una ferrovia degna del Far West del secolo scorso, se le autostrade costruite nel Sud dallo Stato (e, chissà perché, solo quelle) crollano ignominiosamente e quando ci sono ricordano le montagne russe. Il tutto con la complicità di una classe dirigente che ha preferito utilizzare le risorse disponibili per creare migliaia di “posti fissi” non necessari, moltiplicando così una burocrazia già nota per la sua incapacità e la sua pigrizia. La verità è che i nuovi investimenti, se “privati”, non attirano; sono considerati precari e non garantiscono il posto di lavoro in caso di inefficienza; Checco Zalone nei suoi film ce ne ha dato una plastica descrizione. E poi ci si chiede perché gran parte dell’elettorato meridionale sia passato in blocco dalla vecchia DC clientelare a Berlusconi, e da quest’ultimo senza esitazioni al movimento Cinque Stelle. Scrutando all’orizzonte se si presenta qualcun altro che in futuro voglia “assisterlo”.
    Si tratta di una grave carenza culturale che peraltro non riguarda tutti i meridionali ma soltanto quelli più rassegnati e impigriti dalla mancanza di stimoli. Per trattenere gli altri – i migliori – sul territorio ed evitare che fuggano altrove bisogna dir loro la verità e spingerli a creare le condizioni per superare questa situazione nell’unico modo possibile: una rivoluzione culturale.

Alcuni di questi punti sono incompatibili con la cultura prevalente del partito democratico il quale continua a identificare il ruolo della sinistra nell’intervento salvifico dello Stato e quindi, in sostanza, in una politica dirigista. Gli appelli del tipo “i barbari sono alle porte bisogna unirsi per fare fronte”, come quello lanciato da Massimo Cacciari – pur condivisibili nell’analisi – mi lasciano perplessi nella loro praticabilità. Il centro sinistra è diviso non (o non soltanto) per rivalità personali ma perché pretende di tenere insieme visioni troppo diverse nel modo di concepire il modello politico e sociale del futuro. La storia del passato dimostra che le unificazioni forzate da emergenze vere o presunte non pagano elettoralmente: due più due non ha mai fatto cinque ma quasi sempre tre. Uno studioso della politica come Cacciari dovrebbe saperlo bene. Piuttosto che cercare di mettersi d’accordo con compromessi programmatici pasticciati è meglio procedere separati.
Esiste in Italia uno spazio centrista che, in base ai risultati conseguiti da Monti nel 2013, corrisponde “grosso modo” al 10% dell’elettorato. Renzi era riuscito ad assorbirlo nelle elezioni europee dell’anno successivo pagando però il prezzo di una scissione a sinistra (come sempre avviene quando la sinistra cerca di occupare uno spazio di centro: chi ha studiato la storia dei socialisti italiani lo sa bene). Oggi questo elettorato moderato e liberale (che potrebbe ampliarsi fino al 20%) è disperso tra Forza Italia, Cinque Stelle e PD. Forza Italia, costretta nella camicia di forza che continua a imporgli Berlusconi con la sua ingombrante presenza, non sembra in grado di assorbirlo (anche perché la prevedibile leadership di Tajani appare debole e troppo dipendente da Arcore). I Cinque Stelle dovrebbero avere raggiunto il loro massimo punto di espansione; qualsiasi scelta di merito, in mancanza di un chiaro obiettivo ideologico, gli farà perdere consensi, e comunque le concezioni liberali in economia sembrano estranee alla cultura prevalente nel suo “nocciolo duro”. Il partito democratico è alle prese con scelte laceranti, tra la convinzione (dura a morire) che bisogna recuperare un elettorato di sinistra (anche se qualcuno ingenuamente potrebbe chiedersi perché questo “popolo di sinistra” non ha colto l’occasione per sostenere “Liberi e Uguali”), la tentazione di riassorbire un elettorato moderato di centro e le velleità vendicative di Renzi.

I “liberali qualunque”, da me presuntuosamente rappresentati (in numero di due aderenti; non tre perché andrebbero incontro a una sicura scissione) ritengono che occorra costruire un nuovo spazio politico di riferimento al di fuori del PD, in grado di percorrere in modo chiaro e deciso la strada di un riformismo liberale senza la preoccupazione di dovere fare i conti con Grasso e Fassina da una parte e con il paternalismo di Berlusconi dall’altra. Mi pare sia questa l’indicazione che proviene – in modi diversi ma sostanzialmente convergenti – da personaggi come Calenda e Cottorelli ed è su di essa che si possono costruire significative alleanze tra ceti medi, imprenditori, giovani che cercano opportunità e non assistenza. Dieci per cento? Basterebbe a cambiare la politica italiana. Per le necessarie alleanze e gli inevitabili compromessi c’è tempo.

Franco Chiarenza
9 agosto 2018