Roma è di nuovo nell’occhio del ciclone. E quando mai non lo è stata? potrebbe obiettare qualcuno. E avrebbe ragione: da molti anni ormai la Capitale è diventata sinonimo di malaffare, corruzione, inerzia burocratica, pigrizia culturale. E inoltre – in questo almeno specchio fedele del Paese – indebitata fino all’osso del collo nella totale indifferenza dei suoi abitanti che pensano che prima o poi qualcuno (cioè lo Stato, cioè tutti gli italiani) pagherà.
Il fatto che Salvini usi strumentalmente le difficoltà della sindaca Raggi per riattivare la vecchia bandiera anti-romana della Lega di Bossi nulla toglie al fatto che un “problema romano” esiste e non da oggi. La gestione Raggi, al di là degli evidenti limiti politici della persona, non ha risolto nulla per la semplice ragione che – come sempre fa il movimento che l’ha espressa – scambia l’ordine dei fattori della crisi: Roma (e l’Italia tutta) non è in crisi perché è corrotta, è corrotta patologicamente perché non riesce a risolvere i problemi strutturali che la riguardano e, in particolare, la capacità di svolgere in maniera funzionale il suo ruolo di Capitale.
Cosa vuol dire “problemi strutturali”? Significa – detto in soldoni – burocrazia meno asfissiante e più efficiente (e forse meno numerosa), servizi adeguati a una metropoli su cui gravitano oltre tre milioni di abitanti, capacità di accoglienza per le diverse tipologie di ospiti che la frequentano (turismo religioso e di massa, turismo di èlite, corpi diplomatici, attività di governo, uomini d’affari, eventi culturali, mondo della comunicazione e dello spettacolo, ecc.), investimenti nella mobilità (soprattutto potenziando la rete su ferro sotterranea e in superficie), sviluppo urbanistico fondato su certezze giuridiche in grado di diminuire drasticamente i poteri discrezionali dell’amministrazione, fonte di ogni corruzione; il che comporta forse una revisione del piano regolatore ma soprattutto una normativa più severa sulle deroghe (anch’esse fonte di abusi come quelli perpetrati a danno dei vincoli ambientali e archeologici (che a Roma ovviamente rivestono particolare importanza).
E altro si potrebbe aggiungere per definire tutti quei problemi che non riguardano la quotidianità ordinaria ma che per essere risolti richiedono progetti ad ampio respiro seriamente studiati per immaginare la direzione da imprimere allo sviluppo futuro della città e i mezzi per farvi fronte. .

Non è sempre stato così
Chi scrive è abbastanza vecchio per avere conosciuto un’altra Roma, quella dell’inizio della Repubblica, quando sulla Capitale si riversavano le speranze, i progetti, i confronti – anche aspri – politici e culturali, quando era capitale indiscussa della letteratura, dei nuovi mezzi di comunicazione, di ogni genere di espressione artistica. Quando, forse per la prima volta nella sua storia moderna, sembrava davvero avere acquisito una centralità riconosciuta, quando più della metà dei suoi abitanti venivano dal resto d’Italia dando vita a un melting pot straordinario che coinvolgeva ogni strato sociale. Certo, l’espansione incontrollata della città, i fenomeni corruttivi già allora preoccupanti, gli attentati al patrimonio naturalistico e archeologico (invano denunciati da Cederna), facevano già intravedere un futuro problematico; i settori più vigili della sinistra democratica suonavano il campanello d’allarme (“Capitale corrotta = Nazione infetta” titolava una famosa inchiesta dell’Espresso nel 1955). Ma comunque la città riusciva, nonostante tutto, a mantenere un ruolo centrale, punto di riferimento obbligato per l’intera classe dirigente, come avviene normalmente in tutte le capitali europee. Anche sul piano internazionale Roma non rappresentava soltanto un patrimonio storico e culturale unico al mondo ma riusciva anche a mantenere una capacità di presenza che ne faceva, con Parigi e Londra (Berlino essendo ancora divisa dal Muro, Madrid capitale di un paese ancora in fase di uscita dal regime franchista) un polo di richiamo ineludibile.
Poi, lentamente ma inesorabilmente, è cominciata la decadenza. E se non si smetterà con la politica dei “pannicelli caldi” essa continuerà rendendo ancor più invivibile la città ai suoi abitanti e più antipatica al resto degli italiani che si sentono doppiamente danneggiati: per i soldi elargiti a fondo perduto e per lo svantaggio che deriva a tutto il Paese da un’immagine così deteriorata della propria Capitale.

Come procedere
Bisogna spiegare agli italiani che una Capitale efficiente e presentabile è una convenienza per tutti, anche per coloro che vivono in periferia e che con Roma bazzicano poco. Lo slogan dell’Espresso può essere rovesciato: Capitale efficiente = Nazione avvantaggiata. Ma occorre anche prendere atto che una Capitale ha dei sovraccosti che derivano dalla sua stessa funzione, e per tale ragione tutte le capitali del mondo sono governate da leggi che in qualche modo ne riconoscono la specificità e la regolano in maniera trasparente e controllabile. Fu quello che a suo modo fece il fascismo con l’istituzione del governatorato. Dopo la guerra la reazione alla retorica romanista che era stata largamente utilizzata dalla propaganda del regime non consentì di affrontare il problema con la serenità necessaria; Roma fu considerata un comune come gli altri (dal punto di vista istituzionale) e non furono certo le modifiche costituzionali del 2002 e la ridenominazione del Comune con la dizione Roma Capitale a modificare concretamente la situazione. Occorreva più coraggio e mettere in cantiere una legge organica che definisca lo “status” della Capitale, separando dove è possibile le responsabilità che ricadono sull’amministrazione centrale dello Stato (con i relativi oneri) da quelle che riguardano la gestione ordinaria che non hanno ragione di essere trattate diversamente da ogni altra città metropolitana. Di fatto (ma purtroppo mai con un chiaro disegno giuridico istituzionale) così avveniva prima del fascismo; lo Stato si assumeva molti oneri, sovraintendeva alle opere pubbliche necessarie, controllava direttamente parti importanti della città (ministeri, caserme, aree archeologiche, persino il fiume Tevere, ecc.). Sarebbe ora di mettere mano a un provvedimento organico, un quadro definitivo entro il quale sia possibile ai diversi organismi che oggi incidono sulla vita della Capitale (Stato, Regione, Città metropolitana) definire i propri compiti e relative responsabilità. E, poiché si tratta di metterci anche soldi, è giusto che chi paga possa controllare le spese. Nel pieno rispetto delle garanzie democratiche, dell’autonomia istituzionale della Città, è possibile trovare strumenti di garanzia che rispettino anche la legittima pretesa dei cittadini italiani di conoscere quanto gli costa la Capitale e in cambio di quali servizi. Servirebbe non soltanto a fare ripartire Roma ma anche a riconciliarla con tutti gli italiani.

Franco Chiarenza
23 aprile 2019

La creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario ha suscitato molte preoccupazioni e lo stesso Capo dello Stato non ha mancato di sottolineare in una comunicazione ai presidenti delle Camere la sua inquietudine. Si teme che la maggioranza di governo voglia scardinare l’attuale sistema creditizio mettendolo sotto accusa e inseguendo così, ancora una volta, una facile popolarità. Perchè le banche in Italia non sono mai state popolari (anche quando si chiamano così). Uno degli obiettivi del populismo infatti – sempre e ovunque – è stato quello di “riformare” le banche rendendo più facile l’accesso al credito. Piace a tutti prendere i soldi a prestito, piace meno restituirli alla scadenza, non piace affatto che si debbano pagare gli interessi. In materia regna una grande confusione alimentata anche dalla diffusa ignoranza sul funzionamento di un’economia moderna, complice pure la scuola che non ne prevede l’insegnamento almeno dei principi basilari.
Dietro tanta ostilità si scorge la convinzione che le banche dovrebbero essere pubbliche o che comunque le loro eventuali perdite debbano sempre essere garantite dallo Stato inteso come pagatore di ultima istanza di tutti i debitori “che non ce la fanno”. Ma le cose non stanno così ed è bene che non stiano così; e quando stavano più o meno così – negli anni della prima repubblica – è anche per questo che abbiamo accumulato quel gigantesco debito pubblico che da allora ci portiamo appresso.

Perché autonome
Il sistema creditizio è oggi articolato in molti istituti privati in competizione tra loro; chi porta i soldi in banca può scegliere quella che offre maggiori vantaggi, chi chiede un mutuo o un prestito cerca l’istituto di credito che offre le migliori condizioni. Dalla concorrenza, come sempre, l’utente ha tutto da guadagnare. Naturalmente le banche corrono dei rischi dai quali cercano di proteggersi (talvolta esageratamente) che si accentuano quando le crisi economiche colpiscono l’occupazione e quindi i redditi. Per questo la legge impone alle banche di mantenere un patrimonio sufficiente a far fronte a qualsiasi difficoltà e attribuisce alla Banca d’Italia il compito di vigilare in proposito.
Per evitare che la politica inquini il sistema creditizio (come è largamente avvenuto durante la prima repubblica) favorendo operazioni in perdita per motivi di consenso elettorale la Banca d’Italia deve mantenere la propria autonomia.

Perché europee
Oggi le banche operano indifferentemente in tutti i paesi europei che hanno adottato l’euro; banche francesi e tedesche sono largamente presenti in Italia, banche italiane sono protagoniste in alcuni paesi dell’est, ecc. L’unità monetaria ha spostato alcune funzioni di controllo dalle banche centrali dei singoli paesi alla Banca centrale europea che ha sede a Francoforte; ma ancora non è stato possibile unificare anche le diverse normative in maniera da rendere l’eurozona realmente omogenea (Unione bancaria). Quando ciò avverrà avremo finalmente un sistema creditizio europeo competitivo e aperto.

Perché falliscono
Con l’adozione del cosiddetto “bail in” le banche non possono più contare automaticamente nel sostegno dello Stato quando non sono in grado di onorare i loro impegni. E in proposito occorre fare alcune distinzioni non sempre chiare al grande pubblico. Gli azionisti (proprietari) delle banche non dovrebbero mai essere esentati dalle loro responsabilità: sono stati loro a nominare gli amministratori che non hanno saputo gestire l’istituto ed essendo sempre loro a incassare i profitti quando ci sono, è giusto che paghino quando perdono; si chiama infatti capitale di rischio. Diversa la posizione di chi è stato indotto ad acquistare titoli di credito della banca in cambio di finanziamenti; se l’illecito è dimostrato i dirigenti della banca dovrebbero andare in galera e i truffati risarciti (se necessario anche dallo Stato che però dovrebbe rivalersi sul patrimonio delle banche in questione). Infine ci sono i correntisti, considerati sempre vittime innocenti ma qualche volta invece “furbetti” che hanno speculato su improbabili tassi di interesse e, quando è andata male, piangono all’ombra di alcuni ingenui che sono stati davvero raggirati. In tal caso lo Stato (e lo stesso sistema bancario attraverso strumenti di solidarietà) deve garantire i conti correnti di modesta entità. Ma una cosa è certa: l’opinione pubblica non è stata sufficientemente informata che anche le banche possono fallire e che “mettere i soldi in banca” non è più sinonimo di sicurezza. Anche le banche, come ogni altro servizio privato, vanno scelte con attenzione.

In conclusione: Mattarella ha ragione a preoccuparsi. In un momento di crisi come quello che nuovamente stiamo attraversando mettere sotto accusa le banche e cercare nella Banca d’Italia un capro espiatorio per ridurne l’autonomia significa allarmare ulteriormente i mercati, allontanare gli investimenti, rendere problematici i finanziamenti. E’ impossibile che gli uomini di governo, per sprovveduti che siano, non ne siano consapevoli; ma cosa non si farebbe per qualche voto in più!!!

Franco Chiarenza
16 aprile 2019

Torna il tormentone dello “jus soli” dopo che a un ragazzino straniero che è riuscito a chiamare i carabinieri dal suo cellulare durante un sequestro tanto spettacolare quanto assurdo di un bus scolastico è stato deciso di conferire la cittadinanza italiana come se fosse un premio. Ma la cittadinanza è altra cosa ed è davvero incredibile continuare a sbandierarla come una elargizione da concedere come compensazione di (vere o presunte) emarginazioni. Ho letto in proposito affermazioni incredibili come quella dei comitati renziani (“Ritorno al futuro”) per i quali “riconoscere la cittadinanza ai tanti compagni di classe e di gioco dei nostri figli” sarebbe un dovere morale osteggiato in maniera incomprensibile perchè ingiustamente associato al fenomeno migratorio. Ma davvero?
Per fare chiarezza sarà meglio tenere conto di alcune realtà di fatto:

  1. la nazionalità (o cittadinanza che dir si voglia) è di norma una condizione “naturale” automaticamente riconosciuta soltanto ai figli di genitori italiani, o anche di uno solo di essi che lo richieda col consenso del coniuge. Anche nei paesi in cui vige lo jus soli si tratta di una facoltà (e quindi non di un automatismo) che di solito si esercita al compimento della maggiore età.
  2. al di fuori di questa condizione di nascita la nazionalità dovrebbe sempre essere attribuita soltanto quando chi la richiede sia in grado di ottemperare ad alcune condizioni da accertare preventivamente: conoscenza della lingua, della storia e delle tradizioni del Paese; adesione ai principi contenuti nella Costituzione; rinuncia alla nazionalità di nascita. Tutte condizioni che presuppongono la maggiore età dell’interessato.
  3. purtroppo non è vero che la battaglia ideologica che si è scatenata su una questione tutto sommato marginale (perchè più simbolica che portatrice di sostanziali differenze nelle condizioni sociali e nei diritti individuali) prescinda dall’immigrazione. In realtà nessuno dei proponenti di un malinteso jus soli ha pensato alle migliaia di ragazzi europei e americani (ma anche asiatici) che studiano nelle nostre scuole; la presunta “ingiustizia esclusione” in realtà, nell’immaginario politically correct, sembra riguardare essenzialmente i poveri piccoli neri. I quali spesso discriminati lo sono davvero ma non perchè non hanno la cittadinanza italiana ma perchè appunto sono neri e magari musulmani; come dimostra il recente caso avvenuto a Roma dove gli abitanti di un palazzo hanno impedito l’accesso a un appartamento regolarmente assegnato a una coppia di neri musulmani cittadini italiani. Ma davvero qualcuno pensa di combattere il razzismo sventolando un passaporto italiano?
  4. estendere la nazionalità a soggetti che non hanno ancora la capacità di giudizio per richiederla consapevolmente costituisce una violenza (come d’altronde certi sacramenti religiosi somministrati ai bambini; ma per essi vale l’attenuante di una tradizione consolidata). Cosa succederà se a 18 anni il ragazzo italianizzato preferisce ritornare alla sua nazionalità originaria? Negli Stati Uniti e in Inghilterra il “ritorno alle origini” è abbastanza frequente.
  5. non è vero che un ragazzo non italiano che studia da noi e i cui genitori sono regolarmente residenti nel nostro Paese (come prevede la proposta di legge ipocritamente chiamata “jus culturae”) abbia diritti e possibilità diverse da chi è figlio di cittadini italiani. E in quei rari casi (se ce ne fossero) sarebbe giusto intervenire per parificare le condizioni di tutti i residenti che – si presume – sono anche contribuenti.
  6. fanno ridere Di Maio e Salvini (che si è unito al coro dopo qualche iniziale perplessità) che associano la cittadinanza ai “valori” del nostro Paese, intendendo per tali – immagino- quelli contenuti nella Costituzione; che faremo con le migliaia di italiani che non li rispettano, gli togliamo la nazionalità? Quasi quasi avrei già pronta una lunga lista.
  7. infine: ma con tutti i problemi che abbiamo non sarebbe meglio pensare a cose più serie, tenuto anche conto che per come la proposta di legge era stata modificata, la sua concreta applicazione avrebbe riguardato un numero trascurabile di adolescenti?

Un’ultima considerazione: la concessione della cittadinanza a Rami e Adam come ricompensa per il loro coraggio (ma non chiamiamoli eroi, per favore; sono eroi quelli che si sacrificano per gli altri senza vantaggi personali, loro hanno salvato gli altri per salvare sé stessi) pare non corrispondesse affatto a un loro desiderio. Sono stati convinti a prestarsi a un gioco politico più grande di loro, ma in realtà nella loro scuola stavano benissimo anche se non avevano il passaporto italiano.
A proposito di passaporto. Quando viaggeranno con i genitori (non italiani) avranno un passaporto diverso?

 

Franco Chiarenza
31 Marzo 2019

È dalla fine dell’800 che l’Europa paventa il “pericolo giallo” prevedendo che, prima o poi, l’ondata irresistibile dei popoli orientali avrebbe travolto l’Occidente civilizzato. Un pericolo evocato anche da Mussolini prima che si ritrovasse col “patto tripartito” alleato col Giappone militarista che si accingeva ad attaccare gli Stati Uniti d’America. Perchè al Giappone soprattutto si pensava come potenza in grado di soggiogare l’intero Estremo Oriente (Cina compresa) per poi riversare le nuove masse militarizzate sull’Europa. Non è andata così ma la paura dei fantasmi orientali, trasferita sulla Cina divenuta nel tempo uno strano ircocervo capitalista e comunista al tempo stesso, è rimasta. La visita del presidente cinese Xi Jinping in Europa (e in Italia in particolare) ha riacceso le polemiche per gli accordi commerciali che in tale occasione dovrebbero essere firmati.

Il boomerang di Trump
Era evidente già da tempo che la politica isolazionista e protezionista inaugurata dal presidente americano avrebbe prodotto una crisi dei vincoli internazionali che pazientemente erano stati costruiti intorno alla globalizzazione attraverso una rete di accordi multilaterali che servivano soprattutto a imporre regole ai paesi emergenti per limitare al massimo il dumping sociale che ne sarebbe conseguito. In buona sostanza all’apertura degli scambi e del commercio internazionale avrebbero dovuto corrispondere standard minimi fiscali, di protezione sociale e un rule of law (certezza del diritto) che consentissero alla concorrenza di giocare ad armi pari; a questo servivano il WTO, l’OCDE e gli accordi di vertice che si stipulavano tra le grandi potenze (G8, G20, ecc.).
Con la filosofia dell’America First Trump ha messo il suo paese fuori da ogni vincolo internazionale stabilendo con arroganza il primato di accordi bilaterali in cui la forza obiettiva del governo di Washington avrebbe piegato ogni altro contraente; ma il “via libera” del presidente americano ha significato un “liberi tutti” e quindi l’allentamento di quei vincoli che dalla fine della seconda guerra mondiale legavano le economie di mercato di tutto il mondo alla supremazia degli Stati Uniti.
Quanto, al di là di qualche effimero successo a breve termine (un po’ di stabilimenti manifatturieri rientrati negli States) tutto ciò convenga agli interessi geo-politici americani è tutto da verificare.

La sfida cino-americana
Il nodo è rappresentato dalla Cina. Dopo la conversione al sistema capitalistico operata da Deng Xiao Ping negli anni ’80 (riuscendo a mantenere il centralismo politico leninista) la Cina ha avuto uno sviluppo impressionante che, dopo avere eliminato alcune delle condizioni di miseria diffusa ereditate dall’estremismo di Mao Zedong, si è rivolto alla conquista dei mercati internazionali con una politica apparentemente discreta ma sostanzialmente espansiva, favorita dalla commistione pubblico/privato che caratterizza il sistema. Gli strumenti utilizzati dai cinesi sono differenziati e in generale poco trasparenti ma riescono a condizionare con cospicui finanziamenti molte economia strutturalmente deboli in Asia e in Africa (e adesso anche in Europa).
Lo sbarramento messo in atto dai predecessori di Trump era costituito da tre componenti con le quali necessariamente i governi cinesi dovevano fare i conti: quella politica attraverso la SEATO (una sorta di NATO sud-orientale, disciolta nel 1977 e sostituita dall’ASEAN, un’alleanza strategica che punta alla creazione di un’area di libero scambio tra alcuni paesi del sud-est asiatico); quella militare garantita dalla incontestabile superiorità militare americana che si evidenziava nelle grandi basi militari in Corea, in Giappone e nelle Filippine e che garantiva Taiwan dalle pretese annessionistiche cinesi; quella economica che subordinava l’accesso ai vantaggi della globalizzazione (ivi compresi gli appetibili mercati americani) al rispetto di regole e vincoli che ruotavano intorno al WTO. Quando Trump ha disinvoltamente rimesso in discussione questo delicato equilibrio di contenimento immaginando una resa senza condizioni dei cinesi, il risultato è stato che improvvisamente il governo di Pechino si è inserito in tutti gli spazi che gli Stati Uniti lasciavano liberi proclamandosi ipocritamente sostenitore del multilateralismo (disponibile cioè ad accettare quelle regole che Trump dichiarava di non volere più rispettare).

La farsa coreana
La debolezza americana è emersa clamorosamente nella ridicola sfida con Kim-il Jong, dittatore di un feroce regime vetero-comunista nella Corea del nord, il quale ha giocato con Trump come Speedy Gonzales contro il gatto Silvestro. Prima la minaccia di colpire gli Stati Uniti con razzi intercontinentali, poi l’improvvisa disponibilità all’accordo, poi un nuovo irrigidimento con l’umiliazione internazionale di Hanoi (luogo simbolico, scelto non a caso dai coreani). E Trump dietro a ogni mossa di Kim come un cane dietro all’osso, convinto di superare ogni ostacolo col suo carisma personale. Mentre la verità è – e i suoi consiglieri glielo avevano detto – che il pallino è in mano ai cinesi che manovrano il dittatore nord-coreano come vogliono (anche perchè senza il loro appoggio non durerebbe a lungo) i quali vogliono una cosa sola, il ritiro degli americani dalla Corea del Sud. Un paese strategico, economicamente molto sviluppato ma militarmente dipendente dalla protezione americana, che i cinesi vorrebbero “neutralizzare” per includerlo di fatto in quel sistema imperiale a geometria variabile che essi vorrebbero gradualmente costruire attorno alla propria egemonia, anche mantenendo talune diversità autoctone (con sistemi politici differenziati) secondo un modello già adottato per Hong Kong e attraverso il quale il regime di Pechino spera di vincere le resistenze di Taiwan alla riunificazione. Se ci riuscissero disporrebbero di un potenziale economico superiore a quello del Giappone (che, ricordiamo, è la quarta potenza economica mondiale) e si avvicinerebbero all’agognato traguardo di realizzare una partnership mondiale con gli Stati Uniti (per ora ancora molto lontana).

La via della seta
In tale contesto si colloca la famosa “via della seta” che prende il nome dal percorso effettuato nel XIII secolo da Marco Polo per andare da Venezia in Estremo Oriente via terra, ma che già era stato praticato sin dai tempi dell’impero romano. Si tratta di un progetto grandioso per collegare la Cina all’Europa attraverso ferrovie e strade coordinate con diramazioni che attraversano l’intero continente asiatico, e con linee navali che ne costituiscono la variante marittima. La sua realizzazzione consentirebbe un impulso straordinario agli scambi commerciali e per essa la Cina offre di anticipare i capitali necessari ai paesi attraversati; ma naturalmente se le economie di tali paesi sono deboli i finanziamenti si trasformano in vincoli politici ed è questo che preoccupa molte nazioni occidentali.
Sbarcando in Europa il presidente Xi sa di muoversi in un terreno minato; lo farà dunque con molta prudenza ma ha dalla sua parte due potenti alleati: la divisione dei paesi europei (molti dei quali hanno già firmato memorandum d’intesa simili a quello che è all’attenzione del governo italiano), e la politica suicida di Trump che, mettendo in difficoltà l’Europa rischia di buttarla nelle braccia della Cina. Certo, il mercato interno cinese non è comparabile a quello americano, i vincoli culturali e politici che uniscono le due sponde dell’Atlantico sono ben più solidi delle fragili identità nazionali dei paesi dell’Asia centrale, istituzioni forti e articolate come quelle dell’Unione Europea e della NATO sono in grado di resistere a chi vorrebbe smantellarle, ma usque tandem, Donald, abuteris patientia nostra?

Franco Chiarenza
15 marzo 2019

La vicenda TAV, giunta al momento dei bandi per gli appalti, aveva due sole possibili soluzioni: il loro avvio, impossibile senza una crisi di governo perchè farebbe perdere la faccia ai Cinque Stelle, oppure un ennesimo rinvio. Azzerare tutto non è possibile: lo sanno anche i Cinque Stelle freschi di un sondaggio che vede al nord quasi la metà della sua base favorevole al progetto (sia pure ridotto), e lo dice l’Unione Europea che ha pubblicato un’analisi sui benefici dell’opera a livello continentale che dovrebbe far vergognare Toninelli e quanti si sono assunti la responsabilità di stilare un’analisi costi/benefici campata per aria. Ma poiché Salvini ha deciso evidentemente che non è ancora venuto il momento di chiedere il divorzio da Di Maio, il presidente Conte ha varato l’unica soluzione praticabile, peraltro tipicamente italiana: una formula bizantina che si risolve sostanzialmente in un rinvio.
Però deve essere chiaro che la TAV è soltanto la punta di un iceberg che prima o poi sarà impossibile evitare. Non è difficile capirne il perché.

Adesso cominciano i guai
Salvini ha incassato il consenso (giunto a mio parere al punto massimo) sulle politiche della sicurezza (legittima difesa, decreto sicurezza e la stessa immigrazione, percepita dalla maggior parte del suo elettorato soprattutto come un problema di sicurezza) nonché sull’anticipo delle pensioni che, riguardando in prevalenza la pubblica amministrazione, gli assicura una rendita elettorale anche nel centro-sud. Da adesso in poi però dovrà fare i conti con altri problemi più difficili da risolvere, cominciando dagli interessi dei piccoli e medi imprenditori del centro-nord che vivono con preoccupazione la tendenza dei Cinque Stelle a penalizzare la produzione manifatturiera, e di cui l’ostilità nei confronti delle grandi infrastrutture costituisce la “cartina di tornasole”. Le tasse continuano ad essere molto elevate, i costi energetici più alti di quelli di altri paesi, la mano d’opera ingabbiata in normative che impediscono qualsiasi forma di flessibilità, tutte questioni su cui i due partner di governo hanno sensibilità diverse.
Di Maio ha portato a casa il reddito di cittadinanza ma ha dovuto cedere su molte altre questioni che la base militante del suo movimento riteneva importanti per la propria identità. Il futuro per lui non si presenta bene: la realizzazione concreta del reddito di cittadinanza mostra numerose criticità dovute anche alla fretta con cui è stato attuato il provvedimento ed esiste il rischio concreto che esso si trasformi in un boomerang, non soltanto al nord dove è visto malissimo ma anche al sud dove potrebbe facilmente trasformarsi in una sorta di sussidio generalizzato a sostegno dell’economia sommersa. I sondaggi e le elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna mostrano peraltro un forte ridimensionamento del consenso elettorale dei Cinque Stelle tanto da richiedere urgenti restauri all’organizzazione stessa del movimento (e ad alcuni suoi presupposti ideologici).
Entrambi i partner tuttavia avevano messo in conto di andare avanti fino alle elezioni europee: Salvini per capire se un’ipotesi alternativa di maggioranza di centro-destra (con Berlusconi, Meloni e frattaglie) sia effettivamente praticabile, Di Maio per arginare l’emorragia sventolando il reddito di cittadinanza. Le scadenze della TAV (peraltro ben note) sono state soltanto un incidente di percorso, amplificato dal clamore mediatico che la vicenda ha creato e che entrambi i “dioscuri” avevano sottovalutato al momento di stringere l’accordo di governo.

La crisi economica
Il vero problema che angoscia entrambi i partiti di maggioranza (e tutti gli italiani responsabili) è un altro: come affrontare la crisi economica che si sta riaffacciando in Europa (e con particolare intensità nel nostro Paese). Una revisione delle previsioni di bilancio (comunque la si voglia denominare) potrebbe rendersi necessaria a breve e mettere a rischio le risorse impegnate per il reddito di cittadinanza e per le pensioni anticipate; l’alternativa sarebbe un nuovo duro confronto con la Commissione dell’UE che potrebbe sfociare in una procedura d’infrazione. Una patata bollente che Salvini e Di Maio passerebbero volentieri ad altri e questo spiegherebbe perchè la partita che si è aperta somiglia tanto al gioco del cerino: chi si brucerà le dita? Forse, per ora, nessuno; basta buttare per terra il cerino. Ma non è detto che si spenga.

 

Franco Chiarenza
11 marzo 2019

Di fronte al problema dell’immigrazione illegale un liberale qualunque – come me – si trova in difficoltà perché (al netto di ogni speculazione elettoralistica) si tratta di una questione complessa che presenta diversi aspetti tra loro non sempre componibili. Ancora una volta cerchiamo di capire, lasciando le opposte faziosità scontrarsi in modi talvolta francamente indecorosi.

Aspetto umanitario
E’ certamente il più importante perché coinvolge vite di uomini, donne e, sempre più spesso, bambini e adolescenti. Esso va però affrontato non soltanto dal punto di vista del salvataggio in mare di quanti sono riusciti a partire (anche perché su questo punto – al di là delle forzature polemiche – tutti sono d’accordo) ma anche in una dimensione più ampia che potremmo definire come politica di deterrenza per contrastare i flussi migratori dall’Africa all’Italia.
Quando si parla di immigrati molti (soprattutto di sinistra) sostengono che la percezione dell’opinione pubblica è più allarmistica della realtà concreta dimostrata dai numeri, il che probabilmente è vero; ma è altrettanto vero che non bisogna alimentare in Africa la percezione opposta che l’Italia rappresenti un porto franco a cui tutti possono approdare, magari volendo proseguire altrove ma restando poi imbottigliati nel nostro Paese dove si disperdono senza meta creando comprensibili timori. Gli smartphone e internet funzionano anche in Africa. Se un addebito va fatto alle ONG è quello di avere – consapevolmente o no – avvalorato questa percezione, incrementando quindi i flussi migratori col seguito spaventoso di morti annegati che ne è seguito. Anche questo è un aspetto umanitario.

Aspetto giuridico
Dal punto di vista giuridico la questione è molto complicata. Si intrecciano norme di diritto marittimo internazionale, legislazione nazionale, trattati europei (tra i quali emerge l’infausto trattato di Dublino), sentenze contraddittorie. In ogni caso comunque appare sensato pensare che se una nave batte bandiera di un paese è alla sua legislazione e alla sua competenza territoriale che ci si debba riferire: se trasporta immigrati dovrebbe essere il paese della nazionalità del natante ad occuparsene. Il trattato di Dublino dice però diversamente (primo porto di accoglienza) e la giurisprudenza della Corte di giustizia europea è ancora in formazione.
Di fronte al rifiuto di tutti i paesi europei di ridiscuterlo, o anche soltanto di accogliere quote significative di emigranti africani, la chiusura dei porti italiani alle navi delle ONG rappresentava forse una misura inevitabile.

Aspetto politico
Il punto più importante per le ricadute elettorali che comporta è quello politico. Mi riferisco alla percezione che ampi strati di opinione pubblica – anche di tradizione liberale – hanno delle possibili conseguenze di un’immigrazione non controllata. Il timore di perdere l’identità nazionale, di vedere messi in discussione principi e costumi che la caratterizzano, di perdere posti di lavoro in una competizione senza regole che penalizza conquiste sindacali faticosamente conquistate nei decenni trascorsi, costituiscono una miscela confusa che desta paura e consente alle forze politiche che la strumentalizza di raccogliere ampi consensi su indirizzi politici repressivi. Non a caso la diffidenza più forte si rivolge contro i musulmani, portatori di una cultura che è considerata alternativa e non compatibile con la nostra.
Il centro- sinistra non ha fatto nulla negli anni in cui ha governato per rassicurare la parte più preoccupata dell’opinione pubblica, che non è quella che abita i “quartieri alti” (comunque abbastanza indenni da possibili contaminazioni), ma piuttosto le grandi periferie dove il confronto è immediato e quotidiano e la presenza degli immigrati è vissuta come un ulteriore elemento di disagio. Si poteva fare diversamente? Certamente sì a cominciare dal dissuadere gli oltranzisti del “multiculturalismo” a promuovere iniziative inconsulte che vengono lette come una rinuncia alle nostre tradizioni culturali (e religiose) per “venire incontro” alle suscettibilità degli immigrati non cristiani, consentendo così alla destra più reazionaria di brandire con successo i principi dell’identità culturale e del primato nazionale. L’integrazione non può essere intesa come rinuncia all’identità ma deve essere gestita come assimilazione: chi vuole restare in Italia deve accettarne le regole esistenziali, cominciando da quelle che definiscono i diritti e i doveri di cittadinanza nel pieno rispetto dei principi etici in cui noi ci riconosciamo. Per questo la battaglia del centro-sinistra per concedere la nazionalità automaticamente a tutti coloro che sono nati in Italia e che frequentano le nostre scuole, e magari sono figli di immigrati che intendono invece mantenere la loro nazionalità, è stata percepita come una forzatura ideologica; diverso sarebbe stato prevedere al compimento della maggiore età il diritto di acquisire la nazionalità. Parità di diritti alle prestazioni sociali (che può essere collegata alla residenza) e nazionalità sono cose diverse.

Accoglienza
La politica dei rimpatri degli immigrati irregolari è inutile, dannosa e difficilmente praticabile.
Inutile perché non serve ad eliminare il problema, dannosa perché respinge gli immigrati verso un destino inumano e talvolta drammatico, difficilmente praticabile perché per rimpatriare occorre il consenso del paese da cui provengono ed è molto difficile ottenerlo. Si pone quindi il problema dell’accoglienza per quelli che già si trovano in Italia (e per i pochi che ancora arrivano) e su questo i governi passati e quello attuale hanno grandi responsabilità. Essa è stata organizzata male senza un progetto organico, determinando nel Paese situazioni diverse a macchia di leopardo, senza mettere in funzione un sistema efficiente di identificazione che consentisse di separare gli aventi diritto all’asilo da quelli che non ne avevano titolo. Non si è modificata la legge Bossi-Fini che tutt’oggi impedisce l’integrazione anche laddove è possibile, alimentando lavoro nero e mano d’opera per la delinquenza organizzata. Non si è proceduto a una campagna di sensibilizzazione sui mass-media e sui social-network per contrastare le falsificazioni su cui in buona parte Salvini ha costruito il suo successo elettorale.

Futuro
Ciò che abbiamo detto riguarda l’emergenza del presente. Ma ciò di cui si deve discutere è l’emergenza del futuro quando l’inesorabile calo demografico renderà l’immigrazione non soltanto inevitabile ma assolutamente necessaria, in coincidenza peraltro col problema inverso dei paesi africani per i quali l’emigrazione in Europa è questione di sopravvivenza. Aiutarli a casa loro, come recita un facile slogan, è possibile e doveroso ma non basterà, almeno per qualche decennio, ad eliminare il fenomeno, come dimostra la storia della nostra emigrazione che si esaurì soltanto quando il tenore di vita in Italia si avvicinò in maniera significativa a quello dei paesi destinatari.
In proposito però bisogna essere chiari: il problema non è soltanto italiano ma piuttosto europeo e gli altri paesi del vecchio continente lo sanno benissimo; se c’è qualcuno lassù che pensa di fare dell’Italia una zona-cuscinetto che si assume per conto degli altri la funzione di filtro dell’immigrazione proveniente dal Mediterraneo (come si è fatto con la Turchia per l’immigrazione dal Vicino Oriente), magari anche pagandone i costi, occorre che sappia che l’opinione pubblica italiana, innervosita e arrabbiata, non lo consentirà mai, anche a costo di uscire dall’Unione Europea. Le soluzioni sono altre e costituiscono l’impegno più gravoso della nuova legislatura del parlamento europeo che inizierà alla fine dell’anno.
Si tratta di una sfida che i partiti europeisti devono vincere nei confronti dei nazionalisti e degli isolazionisti dei propri paesi, senza ipocrisie. Occorre riaprire le frontiere in Europa, affrontare i problemi dell’immigrazione con strumenti sovranazionali, disegnare una grande politica per l’Africa mettendo in gioco ingenti risorse economiche, le diverse eredità storiche, le influenze culturali ancora forti, per stabilizzare le democrazie africane e arginare le spinte neo-colonialiste della Cina (delle quali – chissà perché – Di Battista, preoccupato soltanto di quelle francesi, non parla mai).
Se ne discute poco, anche tra gli europeisti; sarebbe il caso di cominciare.

 

Franco Chiarenza
13 febbraio 2019

 

L’11 febbraio ricorre il novantesimo anniversario della firma dei patti lateranensi e del concordato, un insieme di accordi tra lo Stato italiano e la Santa Sede meglio conosciuti come “Conciliazione”.
Ricordarlo, e valutare al contempo qual è oggi la situazione dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa cattolica, sembra opportuno. Almeno per un liberale.

11 febbraio 1929
Cosa avvenne in quel giorno quando Benito Mussolini, capo del governo italiano, e il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato della Chiesa cattolica, sancirono la conciliazione tra il regno d’Italia nato dal Risorgimento e la Chiesa romana che da quell’evento era stata privata del suo secolare dominio temporale su vaste regioni della penisola?
Non è questa la sede per raccontare e interpretare per l’ennesima volta un evento su cui si è nel tempo accumulata una pubblicistica esauriente; basta ricordare alcuni punti essenziali.

  1. il Concordato fu possibile con il fascismo mentre non riuscì mai con i governi liberali (che pure lo avevano cautamente cercato) perché potè configurarsi come un patto tra due assolutismi, quello religioso e intollerante della Chiesa di allora (ancora condizionata dal “Sillabo” di Pio IX) e quello politico che il fascismo stava consolidando in Italia. Il riconoscimento del cattolicesimo come “religione di Stato” e il giuramento di fedeltà dei vescovi allo Stato italiano ne rappresentano l’elemento emblematico.
  2. la Chiesa otteneva col Concordato non soltanto una posizione privilegiata ma soprattutto il rovesciamento del principio cavourriano “Libera Chiesa in libero Stato”. Il fascismo riceveva una legittimazione politica e morale che rafforzava le deboli basi costituzionali su cui poggiava essendo ancora vigente lo Statuto del 1848. Mussolini diventava così nelle parole del papa “un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale”.
  3. lo Stato versò a vario titolo alla Chiesa una somma considerevole che ha costituito la base dei privilegi economici e fiscali su cui il Vaticano ha costruito il suo potere finanziario sovranazionale.

26 marzo 1947
L’Assemblea costituente eletta l’anno prima per redigere la nuova Costituzione approvava dopo un’aspra discussione l’articolo 7 che incorpora i patti lateranensi nel testo costituzionale malgrado le evidenti contraddizioni con i principi costituzionali, lasciando aperta una finestra a una possibile revisione soltanto col consenso della Chiesa. I comunisti sorprendentemente votarono a favore e il loro consenso fu determinante. Si trattò, visto col senno di poi, di una prova generale del compromesso storico in salsa togliattiana. Il leader comunista sapeva che una presenza comunista nel governo di un Paese allora profondamente cattolico, priva dell’”assistenza” dell’armata rossa (che era stata determinante in altri paesi dell’Europa orientale), sarebbe necessariamente passata attraverso un accordo con la Chiesa; intesa fattibile perché fondata su una comune avversione ai principi della democrazia liberale occidentale e a una possibile convergenza su politiche economiche dirigiste a forte contenuto sociale. Contava molto nell’atteggiamento comunista anche la consapevolezza che il voto femminile, molto condizionato in quegli anni da preoccupazioni di ordine religioso, potesse indebolire la posizione elettorale dell’estrema sinistra.

18 febbraio 1984
Passarono 37 anni prima che finalmente un governo italiano ponesse con decisione il problema di una revisione del Concordato che eliminasse almeno le clausole più anacronistiche del trattato. Il nuovo Concordato fu firmato a villa Madama da Bettino Craxi e dal cardinale Agostino Casaroli; si trattò naturalmente di un compromesso che peraltro eliminava alcune assurdità come il riconoscimento di religione di Stato al cattolicesimo, la riduzione di alcuni privilegi ecclesiastici e la non obbligatorietà dell’insegnamento della religione nelle scuole. Apprezzabile apparve anche il nuovo sistema di finanziamento del sostentamento del clero posto, almeno in linea di principio, ai contribuenti che destinavano l’8 per mille dell’imposta a tal fine (principio poi esteso ad altre confessioni religiose). Purtroppo l’attuazione concreta delle nuove norme mostrò tutta la sua ambiguità: l’8 per mille fu calcolato sull’intero ammontare delle entrate tributarie, consentendo alla Chiesa di incassare centinaia di milioni, l’insegnamento della religione cattolica è restato prevalente per la resistenza dei ministri che si sono succeduti alla pubblica istruzione di istituire corsi alternativi, l’immenso patrimonio immobiliare della Chiesa è stato praticamente esentato dalle tasse (fino a quando, un anno fa, è intervenuta in proposito la Corte di giustizia dell’Unione Europea).

Oggi
Sono passati altri 35 anni. A che serve ancora un Concordato, non sarebbe ora di abolirlo e di mantenere nella sua essenza liberale e pluralista soltanto l’articolo 19 della Costituzione? L’Italia è profondamente cambiata, è un paese secolarizzato in cui la questione religiosa ha perso buona parte della sua rilevanza, il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, con la definitiva costituzione di uno Stato della Città del Vaticano, non si pone più in termini conflittuali. Anche la Chiesa è cambiata: con il Concilio Vaticano II (che ha legittimato il pluralismo religioso) e soprattutto con le encicliche di Giovanni XXIII ha definitivamente abbandonato le posizioni illiberali e oltranziste che avevano caratterizzato il Concilio Vaticano I (interrotto il 20 settembre 1870 dall’irruzione dei bersaglieri nella città). La successiva elezione di pontefici non italiani ha accentuato la dimensione planetaria del suo magistero e ha diminuito la pressione temporale che continuava a esercitare sul nostro paese e la presenza cattolica, ormai minoritaria, è sentita soprattutto come attività assistenziale.
A che serve dunque un Concordato? Un papa come Bergoglio, molto attento a restituire alla Chiesa una dimensione morale e spirituale, dovrebbe essere il primo a rendersi conto che l’esistenza di accordi privilegiati con gli Stati – perchè tale è l’essenza dei Concordati – non ha alcuna ragione di essere se davvero la Chiesa intende ridurre la sua dimensione temporale.
Consegniamo dunque alla storia per sempre la “questione romana” con tutte le sue evoluzioni. Mai come oggi Stato e Chiesa sono indipendenti, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, come recita l’apertura dell’articolo 7; il resto è superfluo e dannoso a entrambi.

 

Franco Chiarenza
11 febbraio 2019

Mio nipote (anni ventuno), simpatizzante del PD, mi ha chiesto: non ti sembra che alcune proposte dei Cinque Stelle siano giuste? Per esempio il reddito di cittadinanza non dovrebbe far parte di una politica di sinistra? Vedi – ho dovuto rispondergli (ma non so se l’ho convinto) – il problema non è cosa si vuol fare ma come si fanno le cose. Il “come” è importante perché costringe a considerare le conseguenze.
Un liberale, come credo di essere, non può negare che, al di là delle forme bizzarre che caratterizzano la loro azione politica, il movimento fondato da Grillo e Casaleggio porti avanti anche alcune ragioni e battaglie in cui i liberali non possono non riconoscersi. Dove si resta perplessi (e talvolta sconcertati) è nelle soluzioni proposte dai Cinque Stelle, quasi sempre confuse e incerte, spesso approssimative fino al limite di un dilettantismo demagogico. Sembra sempre che Di Maio sia attento soltanto al mantenimento di un consenso che, provenendo da motivazioni diverse e contrastanti, è destinato a modificarsi ogni volta che il movimento dovrà compiere delle scelte di governo. Per esempio:

a) – pubblica moralità
I partiti che hanno governato fino a ieri hanno molto sottovalutato l’importanza di questo aspetto per un’opinione pubblica stanca degli scandali continui che si sono succeduti. Il successo dei Cinque Stelle è in parte fondato su questa indignazione, probabilmente esagerata rispetto alle reali dimensioni del fenomeno, ma considerata invece nella percezione di molti giunta a livelli di guardia (come già avvenne vent’anni fa con “Mani pulite”). Certe arroganti difese di privilegi inaccettabili (come i vitalizi dei parlamentari), certi abusi visibili a tutti (come l’uso di auto e aerei “blu”), certi condannati che impunemente restavano alla ribalta, certi processi conclusi con prescrizioni scandalose, hanno alimentato la protesta come benzina sulla brace.
Un maggiore rigore morale non può dunque che essere accolto con favore dai liberali, ma non deve trasformarsi nel suo contrario cioè nel venir meno dei principi di garanzia di ogni stato di diritto. Quando si sospende “sine die” la prescrizione dopo il giudizio di primo grado si agisce frettolosamente e demagogicamente e si rischia di peggiorare la situazione facendo venir meno il diritto di essere giudicato in tempi certi. Anche la sospensione dai pubblici uffici prima di una sentenza definitiva appare in contraddizione con la presunzione di innocenza stabilita dalla Costituzione. A fronte quindi di un problema reale come quello di evitare che la prescrizione divenisse – come talvolta è avvenuto – una tattica utilizzata per ottenere assoluzioni per decorrenza dei termini bisognava agire diversamente: mettere in piedi una riforma complessiva della giustizia penale in grado di eliminare molte procedure dilatorie che oggi consentono troppo spesso l’impunità. Tempi lunghi? Non necessariamente se c’è una volontà politica e una capacità di condividere anche con le opposizioni una riforma così importante.

b) – la casta
Uno dei bersagli preferiti dai Cinque Stelle è la cosiddetta “casta”. Con questo termine essi si riferiscono in realtà alla classe dirigente, in particolare a quella politica, che a loro avviso si rinnova per cooptazione, è insensibile a qualsiasi promozione sociale dal basso, ed esercita una sorta di egemonia totalizzante non soltanto nella politica ma anche nei giornali, nell’economia, nella finanza, nell’università, ecc. Il problema è reale e nessuno più di un liberale può essere sensibile al mancato funzionamento dell’ “ascensore sociale” (che è poi anche una delle cause della “fuga dei cervelli” a parole tanto deprecata, nei fatti incoraggiata per lasciare spazio ai figli dei soliti noti).
Ma, ancora una volta, la soluzione non può essere cercata nel trionfo dell’incompetenza. Per progettare il futuro mantenendo i piedi per terra nel presente servono competenze politiche (non soltanto tecniche) che non si improvvisano; per evitare gli inevitabili ostacoli occorrono esperienze maturate nei poteri locali, pubbliche relazioni durevoli, capacità di contemperare – quando si può – interessi diversi, pur mantenendo come una stella polare le idee e le ragioni per le quali si è chiesto il consenso dei cittadini. L’idea balzana che chiunque dall’oggi al domani possa governare realtà complesse come quelle che caratterizzano la politica contemporanea, che cioè si possa esercitare il potere su mandato fiduciario di poche migliaia di individui (siano essi iscritti ai partiti o a una piattaforma digitale poco cambia) è non soltanto velleitaria ma anche foriera di esiti catastrofici; lo abbiamo già visto in passato con i partiti fondati su ideologie totalizzanti, da quello fascista dopo la prima guerra mondiale a quelli comunisti dopo la seconda. Lo slogan “uno vale uno” è giusto se attiene ai diritti (e ai doveri) di cittadinanza non se riguarda le competenze di ciascuno di noi: faresti aggiustare l’impianto elettrico a una persona qualsiasi o ti faresti difendere in tribunale da chi non esercita come avvocato?
La democrazia è fondata sul pluralismo delle idee e sul confronto civile che vanno esercitati nel contesto di una carta fondamentale che ne regola le modalità; minare la rappresentanza parlamentare basata sulla responsabilità di ciascun deputato o senatore di fronte al Paese (e non al partito che lo ha fatto eleggere) è estremamente pericoloso. La prima repubblica cadde anche per le degenerazioni della partitocrazia che avevano quasi svuotato i poteri del parlamento. La politica non è una partita di poker in cui chi vince prende tutto il piatto, e dove le campagne elettorali si trasformano in tifoserie che si scambiano insulti incitando all’odio; è invece una competizione fondata sul confronto tra progetti di governo diversi (e talvolta anche opposti) dove si discute e si decide in base a una delega che andrà verificata alla fine del mandato e non giorno per giorno in base ai sondaggi. I bilanci di casa si fanno a fine d’anno, quelli della politica a fine legislatura.
Quanto conti la competenza, l’esperienza, lo dimostra l’esperimento di Virginia Raggi a Roma: ha impiegato sei mesi per crearsi una giunta stabile, ha affrontato i problemi più scottanti in modo superficiale, ha peggiorato le condizioni di vita della città già rese precarie dai suoi predecessori. Per non parlare di alcuni ministri (come l’ineffabile Danilo Toninelli) ormai oggetto di quotidiano sarcasmo su quegli stessi “social” che avrebbero dovuto rappresentare la forza dirompente del movimento.
Questo non significa che qualcosa non si possa fare, anche in termini di ingegneria istituzionale: per esempio stabilire alcuni limiti al rinnovo del mandato, come si è fatto – con ottimi risultati – nell’elezione dei sindaci. O anche adottare forme di recall (già sperimentate negli USA) che però sono possibili solo rendendo definitivo almeno per una camera il sistema elettorale uninominale (il che, oltre tutto, consentirebbe un legame organico e continuo tra elettori ed eletti). Misure che vanno studiate attentamente, concordate con maggioranze più ampie di quelle di governo, e attuate con regole chiare non suscettibili di interpretazioni distorcenti (come è avvenuto in passato per alcuni casi di incompatibilità stabiliti dalla legge, per esempio per i magistrati che scendono in politica).

c) – reddito di cittadinanza e pensioni
Sul fatto che fossero necessarie misure di sostegno per la parte più povera del Paese credo siano tutti d’accordo; già il governo Gentiloni si era mosso in questa direzione con il cosiddetto reddito di inclusione. Il problema è come realizzare tale legittima esigenza in presenza di un bilancio che dispone di poche risorse realmente spendibili (e su questo punto si è consumato il duro confronto con la Commissione dell’Unione Europea). La legge sul reddito di cittadinanza voluta da Di Maio si muove nella stessa logica assistenziale degli 80 euro di Renzi: una gigantesca operazione di voto di scambio. Le misure di contenimento e di controllo previste nel provvedimento rischiano di essere inattuabili e di produrre nella loro concreta attuazione un pasticcio confuso e indecoroso. In un paese come il nostro (e non soltanto al sud) il reddito di cittadinanza potrebbe incrementare il lavoro nero e produrre infiniti aggiramenti fraudolenti praticamente impossibili da scoprire e sanzionare.
Se è vero che la mancanza di lavoro costituisce il problema più grave da affrontare non è certo col reddito di cittadinanza che si risolve; anche ammesso (e non concesso) che – come prefigura Di Maio – l’incremento dei consumi dovesse aumentare la domanda fino a generare significativi aumenti della produzione (e quindi dell’occupazione) gli effetti si vedrebbero soltanto in tempi lunghi. Hanno quindi ragione gli imprenditori quando sostengono che i pochi mezzi disponibili (in gran parte derivati da un’ulteriore aumento del debito pubblico) dovrebbero essere utilizzati non per finanziare misure prevalentemente assistenziali dai dubbi risultati espansivi ma per facilitare attraverso la riduzione delle imposte gli investimenti produttivi in grado di generare occupazione.
Perchè il vero problema non è fare lavorare chi non vuole (e potrebbe accontentarsi del “salario di cittadinanza”) ma creare il lavoro che non c’è.

Anche per le pensioni vale lo stesso ragionamento. A prescindere dalla retorica anti-Fornero cavalcata spregiudicatamente (e secondo me infondatamente) da Salvini, si tratta di capire se sia utile impiegare ingenti risorse per consentire ai pensionandi di anticipare l’uscita dal lavoro (oltretutto in presenza di un fenomeno come l’allungamento delle aspettative di vita, in sé positivo, ma foriero di un appesantimento dei conti previdenziali). Si tratta infatti di una misura assistenziale che non genera sviluppo né nuova occupazione; e nemmeno garantisce quel ricambio generazionale auspicato da Salvini se non accelerando di poco quel che sarebbe comunque avvenuto (nella pubblica amministrazione, perché nel settore privato è molto improbabile).

Entrambe le riforme poi presentano anche un lato oscuro non sufficientemente valutato. In un paese come il nostro dove l’economia sommersa ha dimensioni gigantesche (e occupa non meno di tre milioni di lavoratori) si rischia di aumentarne l’estensione con l’immissione sul mercato del lavoro reale di migliaia di soggetti ancora validi che, avendo la pensione o il reddito di cittadinanza, andranno a costituire una forza-lavoro retribuita in nero a basso costo. Spesso, soprattutto nel sud, per le piccole imprese marginali il lavoro nero, con l’evasione fiscale e contributiva che l’accompagna, è una condizione di sopravvivenza; ed è questa la ragione vera per cui tutti, politici, sindacalisti, mezzi di informazione, fingono di non vederlo. Di Maio minaccia per costoro fuoco e fiamme; ma vivendo a Pomigliano d’Arco non può non sapere qual’è già oggi la realtà sotto gli occhi di tutti e la difficoltà di applicare le leggi (anche quelle che già ci sono) per contrastare l’economia sommersa. Lui e il suo compagno Di Battista hanno “scoperto” che i rispettivi padri nelle loro piccole imprese utilizzavano il lavoro nero! Che sorpresa!!!
In tale contesto le sanzioni minacciate da Di Maio rischiano di fare la fine delle “grida” di manzoniana memoria. C’è una vecchia storiella messa in giro per dimostrare il carattere pragmatico degli inglesi: se in una sala affollata dove è proibito fumare i trasgressori sono pochi puoi cacciarli fuori, ma se sono la grande maggioranza è meglio togliere il cartello di divieto. Noi di solito facciamo peggio, manteniamo il cartello e fumiamo lo stesso.
Per noi liberali dunque su una questione tanto importante e condivisibile negli obiettivi bisognava intervenire diversamente: con misure di sostegno transitorie per i disoccupati potenziando seriamente i centri per l’impiego, mettendo in atto percorsi individuali differenziati (e ci vorranno molti mesi); con un’assistenza familiare mirata nei casi di esclusione irreversibile, cercando nel contempo di riorganizzare in maniera efficiente tutto il settore dell’assistenza pubblica oggi caratterizzato da provvedimenti parziali e incongrui e dalla confusione delle competenze, fonte di sprechi e corruzione (ricordi i ricorrenti scandali dei falsi invalidi? Ciechi che giocano a calcio, zoppi che corrono la maratona, ecc.)

d) – rapporti con i mezzi di comunicazione
L’Ordine dei giornalisti, creato dal regime fascista per controllare la stampa ed esistente quasi esclusivamente in Italia, non va riformato; va semplicemente soppresso. Costa molto, serve soltanto a creare barriere corporative all’accesso ai mezzi di informazione, potrebbe essere sostituito da organismi più flessibili concordati tra editori e sindacato dei giornalisti senza veste istituzionale. Lo ripeto (insieme a tanti altri) da anni attirandomi l’ostilità della corporazione. Se il movimento Cinque Stelle lo farà i liberali non potranno che essere d’accordo, anche perchè la soppressione dell’Ordine dei giornalisti fu sostenuta a suo tempo pure da Luigi Einaudi.
Lo stesso vale per i finanziamenti pubblici all’editoria contro i quali i liberali si battono da sempre. Se un giornale non riesce a farsi finanziare dai suoi lettori e dalla pubblicità deve chiudere; farlo sovvenzionare dallo Stato costituisce un’inaccettabile violazione del principio di libertà dell’informazione, anche a prescindere dalle modalità sostanzialmente discrezionali con cui lo si realizza. Tanto più oggi che l’informazione transita assai più su internet che non sulla carta stampata e le minoranze dispongono di infiniti mezzi per fare conoscere le loro opinioni..

e) – difesa dell’ambiente
Si tratta di un problema della cui importanza tutti sono consapevoli. In Italia la questione è vitale per la particolare natura del territorio, unico al mondo non soltanto per ragioni idrogeologiche ma anche e soprattutto per gli assetti urbani e paesaggistici che la sua storia ha lasciato. Ciò però non significa fermare tutte le opere necessarie a facilitare la produzione di beni e servizi, i quali hanno bisogno di grandi infrastrutture ben funzionanti nei trasporti, nell’edilizia urbana, nella comunicazione. Spetta alla politica naturalmente valutarne la convenienza di volta in volta ma le decisioni devono essere trasparenti nelle loro motivazioni, adottate in tempi certi, rese definitive rapidamente, evitando che ogni progetto si incancrenisca in passaggi burocratici e decisionali che non finiscono mai dando luogo a contenziosi che durano anni. Abbiamo opere pubbliche per 500 miliardi sostanzialmente ferme; basterebbe riavviarle per creare un volano per la ripresa economica e l’occupazione.
La preoccupazione dei Cinque Stelle che le grandi opere pubbliche progettate siano talvolta inutili o comunque sproporzionate in una corretta logica costi-benefici, e che spesso siano fonte di corruzione e di malversazioni, ha un indiscutibile fondamento. Le tante opere incompiute, le “cattedrali nel deserto” che punteggiano le regioni meridionali, stanno a dimostrarlo. Ma si tratta di inconvenienti che si contrastano con leggi appropriate (a cominciare da una revisione di quelle che regolano gli appalti), con una attenta vigilanza che deve partire dalla pubblica amministrazione prima ancora di finire nelle aule giudiziarie. Non fare le opere pubbliche perchè generano corruzione è come non costruire automobili perchè provocano incidenti.
Invece i Cinque Stelle si attardano in battaglie di retroguardia a fini puramente ideologici, come nel caso della TAV, del TAP, del traforo del Brennero, dell’alta velocità ferroviaria, delle linee metropolitane nelle grandi aree urbane. In qualche momento (e in qualche dichiarazione improvvisata) sembra quasi che auspichino una società modellata su quelle comunità quacchere americane dove per evitare la corruzione e fare prevalere i buoni sentimenti ogni comodità moderna viene bandita, vengono riesumate le carrozze a cavalli, e il governo è affidato a saggi anziani che lo esercitano con modalità patriarcali.

In conclusione un po’ di pragmatismo e di gradualità non guasterebbe. Per esempio la questione dei termovalorizzatori (definiti sprezzantemente inceneritori e “tumorifici” da Grillo) andrebbe affrontata come si fa in paesi che in tema di ambientalismo possono darci delle lezioni, come quelli scandinavi. A Copenhagen (e altrove) nuovi impianti assolutamente sicuri non soltanto hanno risolto il problema dei rifiuti (assorbendo a caro prezzo anche rifiuti altrui come quelli napoletani) ma producono anche energia elettrica consentendo l’illuminazione di interi quartieri (lo hanno fatto anche a Brescia). In sostanza accade che noi siamo costretti a portare (sempre a caro prezzo) i nostri rifiuti ai termovalorizzatori che l’indegna gazzarra incosciente di Grillo vorrebbe distrutti; il povero Pizzarotti, divenuto sindaco di Parma coi voti dei Cinque Stelle si è subito reso conto dell’assurdità della situazione ed è stato cacciato dal movimento (non dalla sua città che lo ha trionfalmente rieletto). E’ mancato poco che la Raggi dirottasse i rifiuti romani proprio nell’impianto di Pizzarotti. Certo, il ciclo integrale costituisce una soluzione ideale, ma per farlo funzionare occorrono una diffusa coscienza civica e organizzazioni efficienti che da noi sono molto carenti e per venirne a capo ci vogliono tempi molto lunghi. L’idea che intanto dobbiamo tenerci la puzza così impariamo più presto a fare la raccolta differenziata mi ricorda la pedagogia staliniana; manca solo la Siberia.
Lo stesso discorso vale per l’energia. Una delle ragioni della ridotta competitività del nostro sistema industriale è notoriamente il costo dell’energia; avere escluso drasticamente e precipitosamente l’opzione nucleare ci è costato caro. Un’opinione pubblica allarmata, disinformata, ha deciso con un referendum senza rendersi conto che le centrali francesi, austriache, slovene ci circondano; il rischio è rimasto uguale e spesso abbiamo dovuto comprare l’energia dalla Francia. Le ragioni degli anti-nucleari erano parzialmente fondate, ma bisognava muoversi in maniera graduale, d’intesa almeno con i partner europei (come poi si è fatto con decisioni comuni sull’incremento delle fonti energetiche rinnovabili). Avremmo risparmiato qualche miliardo e non ci saremmo ridotti a dipendere totalmente dall’estero.
Ora tocca al gas. Ne avremo bisogno ancora per molti anni e, a quanto affermano gli esperti, ne abbiamo in quantità nei mari che ci circondano; ma il solito oltranzismo ideologico si oppone alle trivellazioni. Finirà che il nostro gas lo tireranno fuori gli albanesi e i greci (i giacimenti, come le radiazioni nucleari, si diffondono senza passaporto) e poi ce lo rivenderanno (sempre a caro prezzo).
Si tratta soltanto di alcuni esempi; altri se ne potrebbero fare. Sembra di scorgere una strategia di fondo ostile alle grandi industrie, agli investimenti strutturali, alla stessa economia di mercato, con la finalità di favorire il “piccolo è bello”. Il problema non è se sia giusto o sbagliato (per noi liberali è sbagliato) perchè tutti hanno diritto alle loro opinioni, ma se davvero i tanti che hanno votato i Cinque Stelle sono consapevoli di tali obiettivi e delle conseguenze che la loro strategia comporterà nell’economia del Paese.

Preoccupa però noi liberali qualunque – al di là di una ideologia non condivisibe – l’assetto politico che si cerca di configurare. Ci domandiamo se insistendo in modo quasi maniacale nel condannare gli errori e le degenerazioni del passato per avere via libera nel buttare l’acqua sporca, il vero obiettivo non sia quello di buttare con essa il bambino che richiedeva soltanto di essere lavato. Fuor di metafora se l’intenzione non sia quella di eliminare la democrazia liberale coi suoi equilibri istituzionali, un sistema politico che ha consentito più di ogni altro in ogni epoca della storia di assicurare il massimo di libertà in un contesto economico che ha liberato dalla fame e dall’indigenza milioni di esseri umani. Non ci sarebbe da stupirsi; le ideologie si trasformano spesso in fondamentalismi e questi ultimi – sempre richiamandosi a una superiore legittimazione popolare – rifiutano ogni confronto e, prima o poi, reprimono il dissenso.
Ci preoccupa per esempio l’allergia ad ogni confronto pubblico che vada oltre gli slogan elettorali, una discutibile democrazia interna nel movimento, i rapporti poco chiari tra il gestore del portale Rousseau e la dirigenza politica, la diffidenza per ogni corpo intermedio che si frapponga tra la “volontà popolare” espressa in modo plebiscitario e il potere, l’ignoranza elevata a valore di eguaglianza sociale, un certo “giustizialismo” vendicativo che raccoglie gli umori più negativi della “pancia” del Paese, il disprezzo per le forme istituzionali. E infine un’idea di “democrazia diretta” che eliminerebbe ogni possibilità di mediazione costruttiva, una forma di plebiscitarismo che – anche senza scomodare i totalitarismi di Mussolini, Hitler e Stalin – ha sempre prodotto governi sostanzialmente autoritari anche quando formalmente fondati sul consenso popolare: ieri i Bonaparte, oggi le “demokrature” di Putin, Erdogan, Orban, Kazinski, ecc.
No grazie. Noi italiani abbiamo già dato.

 

Franco Chiarenza
24 gennaio 2019

Con una cerimonia solenne nella sede della Banca d’Italia, alla presenza del Capo dello Stato e del presidente del Consiglio, è stato presentato qualche giorno fa il primo volume dell’edizione nazionale delle opere di Luigi Einaudi. Un’occasione per il governatore Visco di ribadire alcune preoccupazioni molto attuali e per il curatore Pier Luigi Ciocca di ricordare alcuni passaggi fondamentali del pensiero di Einaudi. Un’opportunità per un liberale qualunque come me per riflettere ancora una volta sulla sua eccezionale personalità.

Einaudi presidente
Non avrebbe mai potuto immaginare che la sua lunga esistenza politica si sarebbe conclusa al Quirinale, in quel palazzo che aveva ospitato papi e re, e che lui stesso – monarchico – rispettava come simbolo dell’unificazione nazionale. Ci arrivò in un momento difficile di passaggio istituzionale dal regno dei Savoia alla nascita della Repubblica in seguito a un referendum che aveva profondamente lacerato il Paese. La sua presidenza costituiva un precedente nel quale avrebbero in qualche misura dovuto riconoscersi i successori, un esempio per un’opinione pubblica incuriosita dalla novità, una garanzia per i monarchici che la loro preferenza istituzionale non sarebbe stata oggetto di discriminazione (come invece, necessariamente, si doveva fare in quel momento nei confronti dei nostalgici del fascismo).
Einaudi seppe svolgere il suo compito con uno stile ineguagliabile, unendo alla modestia personale un rispetto per le forme necessariamente solenni del ruolo istituzionale, utilizzando tutti gli strumenti che la Costituzione gli riconosceva per esercitare un ruolo di persuasione e di controllo sugli atti di governo. Non per questo smise di scrivere; lo “Scrittoio del Presidente” rappresenta una testimonianza preziosa di questa sua esperienza e, con le più note “Prediche inutili”, un testamento politico fondato sulla convinzione che la nuova classe dirigente dovesse con l’esempio, con chiare scelte politiche ed economiche, favorire la crescita morale e materiale del popolo italiano che usciva dalla terribile esperienza del fascismo e della seconda guerra mondiale

Einaudi economista
Einaudi era certamente un sostenitore dell’economia di mercato. Ma, proprio per questo, riteneva che il sistema italiano ereditato dal fascismo fosse lontano da quel modello, dato il peso che in esso avevano ancora le corporazioni, i monopoli, i vincoli di ogni genere che caratterizzavano la presenza dello Stato. Ma non era contrario all’intervento pubblico per principio; al contrario lo riteneva necessario quando serviva a garantire l’uguaglianza delle opportunità, quando cioè era finalizzato ad assicurare quanto più possibile le condizioni minime di partenza nella competizione esistenziale. Da qui l’importanza che Einaudi attribuiva alla scuola e alla sua capacità di rispondere efficacemente alle esigenze della società; da qui la sua ostilità al riconoscimento legale del titolo di studio che favorisce inevitabilmente la mediocrità a scapito della competenza. Nella sua concezione la scuola avrebbe dovuto essere diffusa ovunque secondo i diversi livelli di formazione, severa quanto basta per operare una giusta selezione, attenta a promuovere competenze da riversare sul mercato del lavoro, sensibile all’innovazione, in grado sostanzialmente di consentire a chiunque di possedere le conoscenze necessarie per potere deliberare consapevolmente nelle scelte che la società civile impone a ciascuno dei suoi componenti. Così non è stata e ne paghiamo le conseguenze anche in termini di coesione sociale.
Il medesimo principio valeva negli assetti produttivi; toccava allo Stato intervenire nelle infrastrutture necessarie e ogni qual volta potesse svolgere un ruolo di “volano” per lo sviluppo. Temeva però come la peste – ben conoscendo i vizi della classe politica – che strumenti pensati per realizzare tali compiti finissero per trasformarsi in giganteschi serbatoi di sottogoverno. La questione morale e le teorie economiche erano nel suo pensiero strettamente associate. Da qui la sua diffidenza per i colossi statali come l’IRI e l’ENI, troppo grandi e potenti per essere controllati dalla politica ma, al contempo, troppo infestati da logiche politiche clientelari per svolgere una funzione di sostegno all’iniziativa privata sufficentemente elastica da assecondare le variabili di un mercato sempre più ampio.

Einaudi governante
Come governatore della Banca d’Italia e poi ministro dell’Economia operò scelte molto nette: lotta all’inflazione (da lui considerata la più iniqua delle tasse perché colpisce maggiormente in proporzione chi meno ha), stabilità monetaria e contenimento del debito pubblico. Si deve a quelle decisioni (e a quelle successive di apertura dei mercati al commercio internazionale) se il Paese poté riprendersi con una velocità che stupì tutto il mondo, creando quel “miracolo” economico degli anni ’50 che miracoloso non fu ma semplicemente il frutto di scelte lungimiranti e di buon senso che non tutti avevano inizialmente apprezzato. Il futuro dell’Italia nell’idea di Einaudi coincideva con quello dell’Europa, la quale soltanto mettendo insieme le proprie risorse e le diverse espressioni culturali avrebbe potuto ritrovare un ruolo importante nella nuova distribuzione delle egemonie politiche che si stava delineando nel mondo. Se fosse vivo oggi si riconoscerebbe nello slogan “Più Europa”.
All’Europa Einaudi affidava anche le sue speranze perchè fosse finalmente abbattuto il muro dei privilegi corporativi che impediva lo sviluppo del Paese nel cruciale settore dei servizi; un fardello che ancora oggi frena l’innovazione e pesa sulla crescita almeno quanto l’esistenza di un debito pubblico ingestibile. E in effetti quel poco che si è riusciti a liberalizzare lo si deve ai trattati europei. Ma la strada da percorrere è ancora lunga; restano ancora radicati negli italiani alcuni vizi che hanno ereditato dalla loro storia, tra i quali quello di cercare sempre nella protezione dello Stato la risposta a tutti i problemi, anche di quelli che potrebbero risolvere da soli.

Einaudi giornalista
Molti non ricordano che Einaudi è stato anche un grande giornalista, sin dalle sue origini. Dalla pratica giornalistica ha ereditato probabilmente la sua scrittura rigorosa ma semplice e sempre comprensibile, convinto che la divulgazione corretta è altrettanto importante della competenza scientifica. E’ stato un collaboratore storico del “Corriere della Sera” prima dell’avvento del fascismo e dopo la caduta di quel regime; ma la sua firma compariva spesso anche sull’Economista. Nel periodo tra le due guerre, impedito nell’attività politica, diresse riviste specializzate di grande rilievo come “Riforma sociale” e “Rivista di storia economica”. Molto sensibile al tema della libertà di informazione, da lui giustamente considerato cruciale per le democrazie liberali, si schierò contro la decisione della DC di mantenere l’Ordine dei giornalisti, creato dal fascismo per controllare i giornalisti.

La terra di Einaudi
La famiglia Einaudi era molto legata alla terra, rivelando in ciò le antiche origini contadine. Anche Luigi Einaudi era attaccato a quel mondo, ai suoi riti, ai suoi valori; da lì aveva tratto quei convincimenti sull’importanza della competenza, del rigore morale, della concezione del rischio come fattore ineludibile dell’esistenza per affrontare il quale occorre prepararsi senza contare troppo sulla protezione dello Stato. Principi che aveva messo in atto nel podere di San Giacomo a Dogliani che lui stesso aveva acquistato dai conti Marenco e del quale si occupava attivamente nei momenti liberi e dove si rifugiava per scrivere e meditare. Anche da Presidente non mancò mai a una vendemmia, e ancora oggi un bicchiere di dolcetto Einaudi vale una gita in quei luoghi bellissimi, a contatto con le valli che hanno visto il fiorire di eresie protestanti le quali hanno lasciato un’eredità culturale che per secoli ha garantito il mantenimento di valori liberali fondamentali nella costruzione del Piemonte moderno, primo mattone dell’unità d’Italia.

Franco Chiarenza
20 gennaio 2019

Nei giorni scorsi ho pubblicato sul mio blog un articolo in cui cercavo di capire quanto corrispondesse a verità lo slogan del “cambiamento”, continuamente ripetuto dalla nuova maggioranza. L’articolo ha suscitato molte reazioni, più di quante immaginassi, fino a raggiungere un numero di interazioni per me senza precedenti. Ne sono lusingato ma mi sono anche chiesto perché e ho quindi cercato di analizzare le risposte e i dialoghi che ne sono scaturiti, al netto naturalmente degli insulti e delle dichiarazioni di fede che sono per me ovviamente irrilivanti. Premesso dunque che i consensi e le contestazioni si dividono circa a metà, interessa esaminare le motivazioni dei contestatori che ho cercato di riassumere in quattro punti.

Cambiamento purchessia
Un primo gruppo di interlocutori non nasconde che il cambiamento è importante per sé stesso, a prescindere dai risultati. Occorreva cambiare radicalmente la classe dirigente e se per farlo bisogna anche pagare un prezzo in termini di esperienza di governo non importa. Il giudizio finale andrà dato al termine dell’esperienza di governo e se sarà necessario si potrà sempre cambiare di nuovo.

Le colpe del PD
Molti hanno espresso – anche in termini piuttosto violenti – un forte rancore nei confronti del partito democratico. Le ragioni sono sostanzialmente sintetizzabili in tre punti: 1) il PD ha tradito le ragioni di giustizia sociale con leggi che hanno danneggiato le parti più deboli del Paese. 2) Il PD (e soprattutto Renzi) ha tollerato la corruzione e la disonestà, si è alleato con i “poteri forti” contro il popolo. 3)La disastrosa situazione economica e sociale è imputabile all’alleanza tra PD, banche voraci e dissestate, e sottomissione all’Europa dominata dagli interessi della finanza internazionale. Qualcuno attribuisce all’”inciucio” tra Renzi e Berlusconi la ragione dell’inaffidabilità del PD.

L’onestà vale anche un po’ di incompetenza
Sul tasto dell’onestà insistono in molti. La figura di Renzi viene accostata agli intrecci familiari con Banca Etruria, mentre i vitalizi per deputati e senatori e “pensioni d’oro” sono meno presenti nei commenti di quanto immaginassi. Qualcuno ammette che errori di ingenuità e di incompetenza sono stati compiuti nei primi mesi del nuovo governo ma che essi vadano messi in conto all’inevitabile inesperienza dei nuovi arrivati e che bisogna dare loro il tempo necessario. La colpa non è loro se hanno ereditato una situazione così difficile.

Immigrazione e orgoglio nazionale
Il consenso sulla politica di contrasto all’immigrazione è stato ovviamente totale, con punte spiacevole di razzismo e ripetizione di fakenews da tempo smentite. Su questo tema si innesta un forte anti-europeismo (inteso come responsabilità dell’Unione per non avere aiutato l’Italia) e una rivendicazione dell’orgoglio nazionale che i precedenti governi, asserviti alla Germania e alla Francia, avrebbero colpevolmente ignorato.
Nessun accenno alle grandi opere infrastrutturali. Qualche puntualizzazione difensiva sugli effetti espansivi del “reddito di cittadinanza” e dei pensionamenti anticipati.

Conclusioni
L’impressione che il voto di marzo sia stato determinato in larga misura da un rancore profondo nei confronti di una classe politica ritenuta incapace di gestire la crisi economica resta confermata; ad essa si aggiunge un profondo fastidio per i riti politici e parlamentari della vecchia maggioranza. In sostanza nessun progetto alternativo, molta rabbia contro i governanti precedenti, richiamo continuo all’onestà come valore predominante (quindi adesione ai tagli ai vitalizi, agli stipendi, alle pensioni d’oro, ecc,).
Colpisce, nei commenti negativi, l’assenza quasi totale delle problematiche di bilancio: il debito pubblico, le opere pubbliche, la riforma fiscale, ecc. L’Europa è vista sempre in proiezione negativa ma si nota chiaramente che di essa nulla si sa: quali siano i suoi poteri, come funziona, quali ricadute ha sul sistema produttivo italiano, ecc. I sostenitori della Lega ribadiscono che il partito di Salvini è cosa diversa dalla vecchia Lega di Bossi; si conferma quindi la percezione che essa abbia svolto una funzione di raccolta in chiave nazionalistica, estranea alla cultura politica dei Cinque Stelle, e questo spiega il riposizionamento, confermato dai sondaggi più recenti, che vede la Lega molto al di sopra dei pentastellati. In pratica c’è una parte di elettorato che ha votato per il partito di Grillo che oggi preferirebbe Salvini (e tale tendenza potrebbe aumentare se gli esiti concreti del reddito di cittadinanza dovessero produrre qualche delusione) ma cambiati gli addendi il totale resta uguale: le soluzioni per il futuro sono diversificate, spesso confuse, ma il rifiuto del passato è netto e condiviso.
Se questo è vero il PD, anche a guida Zingaretti, è destinato a restare sotto la quota del 20% e si apre invece uno spazio al centro dello schieramento politico che non si sa da chi potrà essere occupato; non certo da Berlusconi. Dal partito che verrà?

Franco Chiarenza
16 gennaio 2019