Bisogna dare atto a Stefano De Luca di avere saputo mantenere in questi anni viva e sventolante (anche se talvolta un po’ strapazzata) l’antica bandiera del PLI, lo storico partito di Croce, Einaudi, Malagodi, Zanone, che nella prima repubblica ha svolto un ruolo limitato ma non marginale.
Il PLI, anche nei suoi tempi migliori, non è mai stato il raccoglitore esclusivo di quanto la cultura politica liberal-democratica aveva prodotto in Italia; al contrario, ne ha sempre rappresentato soltanto una parte, quella più moderata e conservatrice, erede legittima peraltro del riformismo giolittiano del primo ventennio del secolo scorso. La tradizione liberal-radicale ha trovato altri sbocchi soprattutto nel partito radicale di Pannella, mentre la variante azionista-repubblicana si esprimeva con Ugo La Malfa nel PRI.

Trentesimo congresso
Nei giorni scorsi il vecchio PLI (o quanto ne è rimasto dopo le vicissitudini berlusconiane) ha quindi celebrato il suo XXX congresso riunendo i suoi fedeli seguaci, ma con una marcia in più: la convinzione che il rimescolamento delle carte in atto nello scenario politico potrebbe fornire al partito un’occasione per tornare in parlamento, seppure con numeri limitati. Da qui l’appello alla diaspora liberale perché torni sotto la vecchia bandiera e contribuisca alla rinascita e al rilancio di una presenza dichiaratamente liberale; il successo elettorale di Macron in Francia e di Rutte in Olanda, entrambi espressioni della cultura liberale, ha certamente contribuito ad alimentare questa speranza.
Il sottoscritto, che partecipa sempre alle riunioni liberali (quando viene invitato), un po’ per rivedere vecchi amici un po’ per spiare se qualcosa di nuovo e di diverso si muove nel liberalismo italiano, è andato all’hotel Pamphilj di Roma e ne ha ricavato queste impressioni: troppe contraddizioni, poche specificità, alleanze discutibili.

Troppe contraddizioni
Il liberalismo può essere declinato in modi diversi. Non è una religione (per quanto anch’esse possano essere interpretate in maniere differenti), non presuppone testi sacri frutto di rivelazioni ultraterrene (pur disponendo di testi di riferimento collaudati), si propone soltanto di garantire la libertà di ciascuno nella misura compatibile con quella degli altri. A tal fine ha elaborato alcuni principi etici (solidarietà), economici (mercato regolato), e politici (costituzionalismo) che rappresentano i paletti di un campo assai ampio in cui si possono sviluppare competizioni di vario genere. Per questo un “partito” liberale rappresenta una contraddizione in termini (come già aveva evidenziato Benedetto Croce) che si giustifica soltanto in momenti di particolare difficoltà per la libertà dei cittadini (come fu dopo le due guerre mondiali) oppure se si fa portatore di contenuti specifici che dell’ampio schermo liberale metta in rilievo alcuni aspetti piuttosto che altri. Non a caso la storia del PLI è densa di scissioni e divisioni, non scandalose perché implicite in modi differenti di stabilire le priorità. Così i radicali misero l’accento sui diritti civili e sulla laicità dello Stato, Malagodi puntò a condizionare la politica economica in senso liberista, Zanone e Altissimo si attennero a un liberalismo democratico più attento al principio di solidarietà, e così via. Le contraddizioni sono quindi lecite ma se si esprimono all’interno di uno stesso partito generano risse e confusione, tanto più gravi se il contenitore è di modeste dimensioni, come nel caso dell’attuale PLI.

Poche specificità
Un piccolo partito non può pretendere di rappresentare tutti gli aspetti di una ideologia complessa come il liberalismo; né può affidarsi ai simboli (nome, bandiera, richiamo alla tradizione) per reclamare una sorta di “denominazione di origine controllata”. Anche perché sotto la generica denominazione di “liberale” convivono oggi in Europa formazioni il cui tasso di liberalismo è assai dubbio, pur in un ambito di genere tanto largo. Si chiama “partito per la libertà” quello guidato dal populista razzista Wilders in Olanda, si richiama a principi liberali il partito di estrema destra che governa la Polonia (“Diritto e Giustizia”), è stato sospettato di simpatie naziste il “partito della libertà” austriaco, ecc. Ma anche restando nell’ambito dei partiti liberali più accreditati (per esempio quelli di Gran Bretagna e Germania) le differenze sono molte e ciascuno di essi ha assunto specificità che, in un quadro istituzionale liberale generalmente accettato, li rendono molto diversi. Una cacofonia positiva che però rende sempre difficili decisioni comuni, come ben sanno quanti frequentano il gruppo parlamentare liberale all’Assemblea di Strasburgo o le periodiche riunioni dell’Internazionale Liberale.
Un piccolo partito come quello diretto da De Luca e Morandi deve fare delle scelte, specificare “quale” liberalismo intende privilegiare nel contesto italiano, e su di esso concentrare le proprie risorse umane e organizzative. Altrimenti è destinato al folklore.
Nella bella relazione introduttiva di Giancarlo Morandi ho sentito una visione ampia e al tempo stesso mirata sugli aspetti di compatibilità tra liberalismo e ricadute della globalizzazione, e in qualche intervento ho colto il tentativo di dissociarsi dalla prevalente retorica “reducistica” e di individuare alcuni, pochi temi su cui stabilire le priorità; ma mi sono sembrati in minoranza.

Alleanze discutibili
Dice un vecchio proverbio sempre valido “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”; tanto più valido nella politica italiana dove tutti dicono le stesse cose (abbastanza generiche per essere puntualmente disattese) e l’unico modo per orizzontarsi è quello di vedere con chi ci si allea per realizzarle.
Il PLI alle elezioni amministrative di Roma si è alleato con “Fratelli d’Italia” e la Lega di Salvini; una scelta obiettivamente sconcertante che ha fornito a due partiti illiberali per definizione una copertura di rispettabilità liberale che – a mio avviso – non meritavano. Però, trattandosi di elezioni amministrative, si può sostenere che ciò che conta è il programma, e che sui problemi complessi di Roma convergenze irrituali e paradossali possono anche essere tollerate.
Ma la standing ovation tributata a Giorgia Meloni dopo il suo “saluto” va ben oltre. Anche perché la leader di “Fratelli d’Italia” ha svolto un vero e proprio intervento su temi di attualità politica nazionale prefigurando intese che superano i confini amministrativi. Allora delle due l’una: o i delegati non hanno colto la stridente contraddizione tra la relazione del segretario Morandi e l’intervento di Giorgia Meloni, o è vero che il loro cuore batte in direzione di un nazionalismo protezionista anti-europeo che con il liberalismo ha francamente poco a che vedere.
Basti pensare che Morandi ha aperto la sua relazione ricordando l’emigrazione italiana del passato, un’emigrazione che non era certamente di “profughi” ma di gente che fuggiva dalla fame e dalla miseria, per capire quanto diversa sia la sua concezione – liberale – di accoglienza regolamentata, dalla distinzione tra “profughi” (poche migliaia) da accogliere, e “Immigrati” da respingere (non si sa come), sostenuta tra applausi scroscianti dalla Meloni.

Conclusioni
Un piccolo partito non può essere “né carne né pesce”; non può raccogliere le firme per la separazione delle carriere in magistratura facendo proprie preoccupazioni garantiste che appartengono alla cultura liberale, e contemporaneamente inneggiare a visioni “sovraniste” e stataliste come quelle che provengono dalla storia e dalla cultura politica di Giorgia Meloni.
“Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

 

Franco Chiarenza
14 maggio 2017

Che il coinvolgimento massiccio delle organizzazioni non governative (ONG) nelle operazioni di salvataggio dei barconi di fuggitivi che approdano quotidianamente in Italia potesse esserci del marcio era possibile. Bene fa quindi la magistratura a indagare in tale direzione, anche se, non sollecitata dal governo, essa va certamente oltre i limiti che dovrebbero accompagnare l’azione inquisitoria dei pubblici ministeri. D’altronde è interesse delle stesse organizzazioni di volontariato distinguere il grano dal loglio per evitare che nella benemerita collaborazione delle ONG possa esserci qualcuno che ci specula. Dove ha sbagliato dunque il procuratore di Catania Carmelo Zuccari?

Dove ha sbagliato
Nella comunicazione. Il caso Zuccari è in proposito emblematico. Sin dai tempi ormai lontani di “Mani pulite” si è instaurato un rapporto perverso tra la magistratura inquirente e i mezzi di informazione che ha dato luogo al ben noto fenomeno dei processi mediatici che anticipano e spesso svuotano di credibilità i veri processi celebrati nelle aule di giustizia con tutte le garanzie che la legge prevede quando si tratta di mettere in gioco la vita stessa di un cittadino. Si tratta di un fenomeno gravissimo che scardina uno dei pilastri fondamentali dello stato di diritto e alimenta il giustizialismo populista, e che si è aggravato man mano che i nuovi mezzi di comunicazione hanno aumentato la loro pervasività mentre si sono attenuati i controlli e i richiami al principio di responsabilità.
I magistrati hanno in questa degenerazione una parte di responsabilità, messa recentemente in evidenza anche nella relazione annuale del Procuratore generale della Corte di Cassazione. Le ragioni sono probabilmente molte (desiderio di visibilità, eccesso di autostima, visioni politiche, pretesa di sorvegliare e intimorire una classe dirigente potenzialmente corrotta, ecc.) ma il fatto è che è giunto il momento di fare un passo indietro. Carmelo Zuccari invece ha fatto un passo avanti: è andato in un talk show televisivo a raccontare la sua verità, senza ancora che vi sia non soltanto una sentenza ma nemmeno – come lui stesso ha ammesso – uno straccio di prova.

Cosa fare
Occorre tornare alle origini. Innanzi tutto spegnere i riflettori sull’attività della magistratura inquirente e tornare a una prassi di riservatezza che sarebbe utile anche per la raccolta delle prove. Poi bisogna tornare a ragionare sulla separazione delle carriere dei magistrati: come sostiene molta parte della dottrina giuridica (ma lo affermava anche Giovanni Falcone) inquirenti e giudicanti hanno non soltanto funzioni diverse e potenzialmente conflittuali ma anche differente sensibilità giuridica e dovrebbero percorrere itinerari formativi differenziati. Con l’adozione del processo accusatorio il pubblico ministero è a tutti gli effetti una “parte” (l’accusa) che si contrappone all’altra (difesa), mentre il giudice deve mantenere una posizione di terzietà sancita anche dalla Costituzione. Confonderne le carriere contribuisce soltanto a rafforzare lo spirito di casta della magistratura e indebolisce oggettivamente l’indipendenza dei giudici rispetto alle divisioni interne dell’Associazione Magistrati (ANM).
I magistrati inquirenti non sono dei moderni inquisitori chiamati a far trionfare la giustizia, come invece taluno di essi interpreta il proprio ruolo; sono soltanto dei funzionari dello Stato che hanno vinto un concorso (si spera non condizionato da pregiudizi ideologici) chiamati a raccogliere le denunce su possibili violazioni della legge e avviare le indagini preliminari dalle quali un giudice (il GIP) stabilisce se e come avviare un processo penale. Spetterà poi alla procura procedere agli accertamenti e sostenere l’accusa nel processo, confrontandosi con la difesa degli imputati.
L’avviso di garanzia fu introdotto a suo tempo – come dice il nome stesso – per avvertire un libero cittadino che la magistratura inquirente stava indagando sul suo conto e per quali ragioni, in modo che egli avesse tempo e modo di organizzare la sua difesa. Reso pubblico si è trasformato in un avviso ai mezzi di comunicazione sull’avvio di un’azione penale nei confronti di uno o più cittadini che la procura riteneva già probabilmente colpevoli. Il resto lo fanno i giornalisti (talvolta con la complicità di magistrati compiacenti che fanno accedere a documenti che dovrebbero restare riservati) e se poi il disgraziato incappato in questa macchina infernale verrà assolto (come è avvenuto spessissimo) tutta l’enfasi accusatoria dei mezzi di informazione si ridurrà a una breve notizia marginale.
Non si tratta soltanto di arginare il protagonismo di magistrati e poliziotti (che dire, a proposito, delle conferenze stampa in cui si denunciano persone non ancora condannate e spesso nemmeno rinviate a giudizio?) ma di capire perché queste violazioni della correttezza giuridica non suscitino nell’opinione pubblica la riprovazione che ci aspetterebbe e anzi spesso sono accettate acriticamente. La ragione è – a mio avviso – che la classe politica e coloro che sono ad essa adiacenti hanno talmente compromesso la propria credibilità da rendere possibile una legittimazione della funzione salvifica della magistratura, anche a prescindere dalle garanzie che dovrebbero caratterizzare uno stato di diritto (per le quali, per esempio, non si è colpevoli fino a sentenza definitiva). Come dire che la democrazia per salvare se stessa si affida a strumenti che democratici non sono; se poi un Carmelo Zuccari si sente in dovere di proclamare la sua verità in televisione e senza contraddittorio, non bisogna stupirsi.

Franco Chiarenza
1 maggio 2017

Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato sul Corriere della Sera del 29 aprile un articolo che farà discutere (“I promossi d’ufficio a scuola”). Non soltanto per l’autorevolezza dell’autore e per l’importanza del quotidiano che lo ospita ma soprattutto per avere centrato il problema fondamentale della scuola italiana che non è solamente quello delle sue molteplici inefficienze (reclutamento degli insegnanti, strutture, carenze didattiche, ecc.) ma soprattutto del modello cui si ispira (più o meno consapevolmente). Era ora!

Il modello di Don Milani
Di Don Milani si parla molto in questi giorni a proposito e a sproposito. Di lui, della sua personalità morale, delle virtù e dei difetti di un personaggio sicuramente carismatico, a noi in questa sede interessa poco; del suo modello formativo e didattico invece molto per l’influenza che ha avuto (insieme ad altri fattori concomitanti) nell’evoluzione della scuola italiana.
Un modello, quello proposto da Milani, fondato su un presupposto errato e foriero di conseguenze catastrofiche (come quelle denunciate da Galli della Loggia) in base al quale per ridurre la distanza culturale tra le classi sociali bisognasse abbassare il livello di apprendimento per renderlo accessibile ai meno favoriti e non invece fare l’opposto, consentire a tutti gradualmente di sviluppare le proprie potenzialità attraverso una valutazione del merito individuale.
La popolarità del “modello Milani” è facilmente comprensibile: schiacciando tutti verso la mediocrità e un grado di conoscenza elementare, generico, accessibile a chiunque, si va incontro a una concezione minimalistica della società sostanzialmente ispirata da una visione paternalistica che mantiene intatto il potere pastorale di chi si assume la responsabilità di guidare il gregge. Non solo: le famiglie meno avvedute vedono in questo modello scolastico una via facile per la promozione sociale dei propri figli e naturalmente i ragazzi perdono ogni stimolo allo sforzo individuale di miglioramento non vedendolo in alcun modo incoraggiato. A loro volta i sindacati preferiscono un sistema scolastico che copre più facilmente l’inadeguatezza di quella parte di insegnanti che sono giunti alla cattedra senza un’appropriata preparazione e spesso per motivi che hanno poco a che fare con la capacità didattica e molto invece con problemi di sbocco occupazionale (soprattutto nel Mezzogiorno).
L’egemonia culturale della sinistra democristiana assai diffusa nel primo ventennio della Repubblica ha entusiasticamente fatto proprie le idee di Don Milani, anche nella presunzione di rappresentare la sinistra di opposizione (comunisti e socialisti). Ma in realtà la concezione socialista della scuola, tracciata chiaramente da personaggi come Concetto Marchesi e dallo stesso Togliatti, era assai diversa; per essi l’accesso delle classi subalterne al potere passava attraverso una rigorosa selezione meritocratica in grado di formare gruppi dirigenti che potessero governare una società complessa come quella che – bon gré mal gré – il capitalismo aveva creato. Quindi: borse di studio e facilitazioni per accedere a un’istruzione superiore severa, non il contrario, abbassare il livello di apprendimento fino ai meno dotati. E’ paradossale (ma non tanto) che chi è liberale si riconosca più nella concezione togliattiana (e crociana) che non in quella cattolica.

Oltre Galli della Loggia ricordando Einaudi
Il citato articolo di Galli della Loggia si ferma alla diagnosi del fenomeno e delle sue degenerazioni, accentuate dagli sviluppi sociali e politici della recente storia della nostra Repubblica, e lì si ferma, forse perché scoraggiato dal disastrato panorama che ne emerge. Ma qualcosa si potrebbe fare, andando oltre la “buona scuola” della ministra Giannini, che pure si muoveva nella giusta direzione. Si potrebbe tornare a Luigi Einaudi e alla sua proposta di abolire il valore legale del titolo di studio. Basterebbe questo a mettere in moto alcuni meccanismi virtuosi: competizione tra le scuole per essere credibili nell’offerta di lavoro, selezione degli insegnanti, aumento della domanda di meritocrazia da parte delle famiglie, e via dicendo. Perché non ci proviamo?

Franco Chiarenza
30 aprile 2017

L’ennesimo fallimento del tentativo ricorrente di salvare l’Alitalia induce ad alcune riflessioni:

  1. Se l’Alitalia vola sempre in perdita ci saranno delle ragioni. Sono probabilmente molte (management incapace, resistenze sindacali, accordi sbagliati, venir meno del monopolio sui voli interni, concorrenza dell’alta velocità ferroviaria) ma alla radice ci sono sempre le interferenze politiche, anche dopo la privatizzazione.
  2. Ciò è dovuto anche alla difficoltà da parte della nostra classe politica ad abbandonare il concetto di “compagnia di bandiera” ormai completamente superato dalla nuova realtà competitiva del traffico aereo. Altri grandi paesi – come l’Inghilterra, la Spagna, la Germania – ne fanno a meno da tempo; negli Stati Uniti non è mai esistito.
  3. Non è più lecito scaricare – direttamente o indirettamente – le inefficienze sistemiche di Alitalia (ereditate dall’antico monopolio pubblico) sulla collettività. Migliaia di businessmen, giovani, turisti, viaggiano senza chiedersi di quale nazionalità sia l’aereo che utilizzano.
  4. L’opinione pubblica è rimasta giustamente scandalizzata dalle buonuscite milionarie di manager e dirigenti dell’Alitalia dopo ogni “tonfo” gestionale.

Adesso basta. L’Alitalia fallisca come ogni altra azienda che non riesce a mantenere in pareggio i propri bilanci; è giusto che si trovino ammortizzatori sociali per i suoi dipendenti e che possibilmente si salvi un marchio il quale forse ha ancora un valore commerciale, ma non è giusto invece che si chieda alla collettività di farsi carico di un’impresa fallimentare.

L’aeroporto di Fiumicino
Quello che ci preoccupa sono le possibili ripercussioni del fallimento dell’Alitalia sull’aeroporto di Fiumicino che dell’ex-compagnia di bandiera rappresentava l’hub principale. La funzione strategica dell’aeroporto romano resta insostituibile non soltanto per la città e il suo sviluppo ma anche per mantenere in Italia un hub degno di questo nome. Gli aeroporti dell’area milanese per la loro dispersione e per la vicinanza con hub europei di grandi dimensioni (come Zurigo, Colonia, Francoforte e, al limite, Parigi) non rappresentano un’alternativa valida per il traffico di transito; mantenere a Roma una funzione di redistribuzione del traffico da e per l’Italia rappresenta una opportunità geografica e un vantaggio per le regioni meridionali che vanno preservati.

 

Franco Chiarenza
28 aprile 2017

L’esito del referendum in Turchia pone alcuni interrogativi che vanno ben oltre la questione delle modifiche costituzionali imposte da Erdogan attraverso una consultazione assai dubbia per le circostanze che l’hanno accompagnata. Di per sé la trasformazione di una repubblica da parlamentare in presidenziale non è un’operazione autoritaria; esistono paesi come gli Stati Uniti, la Francia ed altri dove sono in vigore esplicitamente o di fatto regimi presidenziali e di cui nessuno mette in discussione l’identità democratica. Non è la forma istituzionale che caratterizza un sistema liberal-democratico ma la presenza di altre condizioni tra cui – fondamentali – la libertà di informazione e l’indipendenza almeno della magistratura giudicante; a cui si deve aggiungere per un corretto equilibrio dei poteri un parlamento regolarmente eletto e legittimato a svolgere la funzione legislativa senza impedimenti. Ha la Turchia di Erdogan questi requisiti ? E li ha mai avuti prima di lui ?

Il modello turco
Il modello di stato imposto dal “padre della patria” Kemal Ataturk alla Turchia negli anni ’20 del secolo scorso non era certamente democratico; anzi, erano note le simpatie del leader turco per i regimi dittatoriali esistenti o nascenti in Italia e in Germania. Si trattava piuttosto di un regime autoritario che piaceva agli occidentali – anche nei paesi liberal-democratici – soprattutto per i suoi caratteri laici e modernizzanti. Alla base della strategia politica di Ataturk c’era la convinzione (assai simile a quella dell’imperatore giapponese Meiji agli inizi del secolo XX) che la civiltà moderna diffusa in tutto il mondo dall’imperialismo europeo fosse non soltanto vincente rispetto alle culture preesistenti (come quella islamica) ma anche fondata su una indiscutibile superiorità derivata dagli sviluppi scientifici e dalle loro applicazioni tecniche. Uno stato in grado di competere nel mondo moderno doveva quindi adottare il modello occidentale. La trasformazione imposta da Ataturk fu impressionante: cambiò lingua, scrittura, calendario, tradizioni, modelli esistenziali, relegando la religione a un fatto residuale legato alle culture povere dei ceti sociali più emarginati.

L’esercito
Per ottenere tutto ciò e renderlo duraturo Ataturk identificò nelle forze armate la struttura che doveva garantire la laicità dello Stato e la continuazione del processo di modernizzazione. Ne derivò la costituzione di un esercito potente e autoreferenziale che, dopo Ataturk, si rese in qualche misura indipendente dal potere politico. Quando gli equilibri internazionali dopo la fine della seconda guerra mondiale resero necessaria l’attivazione di forme democratiche ne scaturì un sistema parlamentare bipolare caratterizzato dalla presenza pressoché esclusiva di due partiti, quello repubblicano, radicato soprattutto nelle grandi città e nella parte più occidentale del paese, che si considerava erede della rivoluzione kemalista, e quello democratico (variamente denominato) il quale raccoglieva i voti della parte di popolazione ancora legata alla tradizione islamica che il regime di Ataturk aveva ridimensionato ma non eliminato. Quando i democratici, vincendo regolarmente le elezioni, superavano i limiti ferrei della costituzione laica di Ataturk, l’esercito interveniva e rimetteva le cose a posto. Inutile ricordare che questa combinazione “laicità dello Stato – tutela militare – borghesia emergente”, fu sostanzialmente rilanciata dal movimento Baath nella seconda metà del secolo scorso con l’aggiunta di un richiamo alle concezioni socialiste, dando luogo ai regimi autoritari che si affermarono in Egitto, Siria, Iraq, Libia; anche i processi di laicizzazione e di modernizzazione avviati in Iran dallo scià Pahlevi II prima della sua deposizione si ispiravano sostanzialmente al modello turco.

Erdogan
Con la vittoria elettorale di Erdogan nel 2002 l’altalena tra progressisti kemalisti e reazionari musulmani sembrò avere raggiunto la sua conclusione. Non certo per le origini politiche del nuovo leader che era stato un fedele collaboratore di Erbokan, l’ultimo primo ministro di tendenza islamica fatto dimettere dai militari nel 1998, ma per alcune novità di cui egli si fece portatore. Soprattutto due: il definitivo superamento del “revanscismo islamico” con l’accettazione piena del modello laico di Ataturk e la promozione di un processo di adesione all’Unione Europea. Finalmente compariva all’orizzonte un leader islamico compatibile con i principi delle democrazie liberali occidentali; il nuovo “modello turco” fu entusiasticamente salutato in Europa e in America come valido esempio per gli instabili regimi del Medio Oriente.
Erdogan ha continuato per dieci anni a oscillare tra la fedeltà all’Occidente (in particolare accentuando un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti tramite la NATO) e ricorrenti tentazioni di intervenire nella complicata matassa della questione medio-orientale, ma, nel complesso ha rispettato le “regole del gioco” così come il fondatore della patria le aveva stabilite. La sua involuzione verso un modello sostanzialmente autoritario è cominciata negli ultimi anni con alcune misure filo-islamiche e soprattutto con una pressione crescente sui mezzi di informazione e sulla libertà di associazione; il pretesto era fornito dal problema curdo, per la preoccupazione che gli sviluppi militari della questione mediorientale potessero sfociare nella costituzione di uno stato curdo nei territori settentrionali dell’Iraq e della Siria il quale, diventando confinante con la Turchia, avrebbe esercitato un’attrazione fatale per le minoranze curde ampiamente presenti della parte orientale del paese.

Il colpo di stato
Il tentato colpo di stato dello scorso anno presenta tuttora lati oscuri. Non solo per le motivazioni ma anche per le modalità che lo hanno accompagnato. In apparenza sembrava il ritorno ai tradizionali golpe militari del passato per riportare la Turchia all’ortodossia kemalista; ma si vide subito che così non era, sia perché sin dall’inizio gli alti comandi non furono coinvolti (il che contrasta con le finalità politiche dei precedenti colpi di stato e con una tradizione militare rigidamente gerarchica) ma anche perché il riferimento a Gulen, leader politico religioso esiliato in America, appare fuorviante. Gulen è un ideologo musulmano non fondamentalista a cui fa capo un movimento molto diffuso e influente in Turchia. E’ stato un deciso sostenitore di Erdogan e probabilmente l’ispiratore della sua politica filo-europea. La rottura tra i due è avvenuta soltanto nel 2013 non per ragioni “ideologiche” ma soltanto per il potere eccessivo che Gulen stava assicurandosi in strutture portanti dei ceti medi islamici (soprattutto nelle scuole, nella magistratura, nell’università) e che Erdogan considerava potenzialmente alternativo al suo.
Il modo maldestro con cui è stato tentato il colpo di stato fa escludere complicità estere (del genere CIA o FSB russo) mentre ha consentito al presidente turco di mettere a segno una repressione di dimensioni sproporzionate rispetto alla reale pericolosità dell’evento. Da ciò l’impressione – ampiamente diffusa in Occidente – che in effetti esso sia stato utilizzato da Erdogan per eliminare tutti i quadri intermedi che gli erano avversi nella magistratura, nelle università, nei mezzi di informazione, nelle scuole, negli enti locali. L’annuncio di un referendum su una riforma costituzionale che avrebbe ulteriormente rafforzato i suoi poteri è stato inevitabilmente letto come un passaggio alla dittatura personale.

Il referendum
In tali condizioni l’esito del referendum era dato per scontato. Il fatto che sia stato vinto con un margine così esiguo rappresenta dunque una sconfitta per Erdogan, tenuto anche conto delle denunce per irregolarità (che coinvolgerebbero centinaia di migliaia di schede), del peso determinante degli elettori residenti all’estero (che sono circa tre milioni), della completa mancanza di par condicio nella campagna elettorale. Se Erdogan voleva dimostrare di avere il consenso della grande maggioranza dei turchi non ci è riuscito; al contrario ha mostrato al mondo un paese profondamento diviso. Un esito elettorale risicato e contestato rischia adesso di provocare un ulteriore irrigidimento dell’Europa (che peraltro egli non teme, sicuro com’è di poterla ricattare fermando il flusso degli emigranti dalle zone di guerra del Medio Oriente), ma anche la diffidenza degli investitori internazionali preoccupati dalla possibilità di un rigurgito fondamentalista islamico. Ma soprattutto viene meno l’immagine cui erano rimasti appesi quanti vedevano nel modello turco un esempio di compatibilità tra i valori occidentali e la tradizione musulmana. Gli resta l’appoggio di Trump; ma non è molto affidabile.

 

Franco Chiarenza
19 aprile 2017

Che ci sarebbero state delle correzioni di rotta rispetto agli annunci elettorali era immaginabile; meno prevedibile che i cambiamenti sarebbero stati così rapidi e drastici. Vediamo i diversi fronti aperti dal nuovo presidente americano.

Rapporti con la Russia
E’ il terreno su cui Trump si è trovato in maggiore difficoltà. Le sue aperture verso Putin in campagna elettorale hanno dovuto subito misurarsi con i sentimenti anti-russi prevalenti nelle forze armate e nello stesso establishment del partito repubblicano; le rivelazioni sulle interferenze russe nella campagna elettorale attraverso fake news orchestrate da Mosca, vere o false che siano, hanno profondamente colpito l’opinione pubblica. Non manca chi pensa che Trump sia ricattabile per qualche trascorso durante i suoi soggiorni moscoviti. In ogni caso il presidente ha immediatamente compreso che il problema dei rapporti con la Russia rappresenta un terreno minato e conseguentemente da un lato ha allontanato i consiglieri più sospetti di connivenze filo-russe (e in particolare Michael Flynn e Steve Bannon) e dall’altra ha alzato i livelli di scontro con Putin. In quest’ottica vanno lette l’azione militare contro Assad in Siria e il sostanziale fallimento della missione di Tillerson a Mosca. Putin lo sa e mostra pazienza; si limita a blindare la posizione di Assad rinsaldando sulla politica siriana i rapporti con l’Iran.
Nella conferenza stampa congiunta di Tillerson e Lavrov il ministro degli esteri russo ha ripetutamente richiamato i precedenti dell’Iraq e della Libia quali esempi da non imitare; come dire che prima di rovesciare Assad bisogna essere d’accordo con chi e cosa sostituirlo.

Rapporti con l’Europa
Anche Trump – come tutti – attende l’esito delle elezioni francesi e tedesche; sicuramente “tifa” per Marina Le Pen all’Eliseo e spera in una sconfitta della Merkel a Berlino. Nel frattempo i rapporti con l’Europa (Gran Bretagna esclusa, ma fino a un certo punto) restano in sostanza gelidi. Al centro del contenzioso le misure protezionistiche contro alcuni prodotti europei come ritorsione per analoghi comportamenti europei nei confronti della carne americana. Un atto dovuto nei confronti degli allevatori statunitensi (che della candidatura Trump sono stati sostenitori) e che, in toni più morbidi, era già stato sollevato da Obama.

Rapporti con la Cina
La visita di Xi Jinping a Washington è andata meglio del previsto, anche per l’atteggiamento pragmatico di entrambi gli interlocutori. Le bellicose intenzioni preannunciate da Trump sono rimaste nel cassetto anche probabilmente per le perplessità espresse da Wall Street e dalle multinazionali ormai strettamente integrate nell’economia cinese. I problemi esistono e sono gli stessi che Obama voleva regolare con un accordo multilaterale in grado di contenere l’egemonia cinese; l’avversione di Trump per ogni forma di multilateralismo ha congelato il progetto ma le pressioni giapponesi, australiane e di altri importanti paesi del Pacifico (a cominciare dall’India) non mancheranno di farsi sentire.

La politica interna
La fretta è sempre cattiva consigliera. L’ossessione di annullare subito l’Obamacare sull’assistenza sanitaria ha prima generato un topolino (modifiche molto parziali) poi una sconfitta. Ricordando le resistenze di alcuni settori del partito democratico Trump era convinto di neutralizzare gli estremisti del suo partito; invece le opposizioni si sono coalizzate e Trump è stato costretto a ritirare il suo progetto. Una sconfitta soprattutto di immagine.
Restano intatti i problemi di fondo: come conciliare la diminuzione delle tasse promessa in campagna elettorale con la politica di investimenti infrastrutturali e di potenziamento militare che si vorrebbe mettere in atto. Una contraddizione risolvibile soltanto con un ulteriore
indebitamento, con tutti i problemi che ciò potrebbe comportare nel medio e lungo termine.

Conclusioni (per ora)
I primi cento giorni di Trump appaiono caratterizzati dalla preoccupazione di mostrare una sostanziale discontinuità dalla politica dell’amministrazione precedente; consapevole della debolezza derivata dalla modalità della sua elezione, dall’ostilità dei media che riflette la sfiducia di una parte dell’opinione pubblica che ha un peso rilevante nell’establishment, cerca di consolidare i rapporti con alcuni poteri forti a cominciare da quello militare. La realtà delle cose tuttavia lo spinge inesorabilmente a una sostanziale continuità con la politica estera di Obama: contenimento delle aspirazioni egemoniche della Russia, ridefinizione dei rapporti economici con la Cina, rinuncia al paventato isolazionismo.
Dove si registra una differenza non è nelle prove muscolari, destinate probabilmente a restare manifestazioni di immagine, ma piuttosto nel volere sostituire alla politica multilaterale di Obama, fondata su alleanze e trattati vincolanti, una totale autonomia limitata tutt’al più da intese bilaterali in cui fare valere il peso specifico degli Stati Uniti. In questo quadro si comprende l’ostilità verso la NATO, il ridimensionamento delle Nazioni Unite, la diffidenza nei confronti del WTO (proprio nel momento in cui la Cina, dopo una lunga attesa, sta entrando a farne parte), e così via. Se tale prospettiva sarà mantenuta e non dovrà anch’essa fare i conti con i problemi complessi della globalizzazione e con la stessa convenienza degli Stati Uniti al rispetto di regole condivise, potrebbero verificarsi cambiamenti importanti su due versanti: quello dei rapporti con l’Europa e ancor di più la politica ambientale. Ma anche su questi punti Trump dovrà affrontare il dissenso di parti importanti dell’opinione pubblica presenti anche nel suo partito.
Insomma malgrado le contorsioni dovute all’immersione improvvisa di un personaggio impreparato e mal consigliato nel mare della complessità di una potenza globale, il terremoto provocato dall’imprevisto esito elettorale americano continuerà a registrare scosse di assestamento per un periodo ancora lungo. Non tali però da provocare cambiamenti epocali. Almeno speriamo.

 

Franco Chiarenza
14 aprile 2017

Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri, insieme ad altri (tra i quali spiccano Mario Monti, Francesco Rutelli ed Emma Bonino), hanno lanciato un appello per il rafforzamento dell’unità europea, denominato “Forza Europa”. A parte il dubbio gusto di scegliere uno slogan che ricorda troppo da vicino il berlusconiano “Forza Italia”, l’appello giunge in un momento in cui la popolarità dell’Unione Europea è scesa a livelli preoccupanti. In poco più di dieci anni l’Europa è passata nell’immaginario collettivo da un’aspirazione salvifica che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi a un’attribuzione di responsabilità per la crisi che stiamo vivendo, altrettanto irrazionale. Leggere su face-book le proteste, le dichiarazioni contrarie, e talvolta purtroppo anche gli insulti contro l’appello di Della Vedova suscita stupore prima che indignazione per l’inconsistenza degli argomenti addotti e per la percezione sbagliata che si ha dell’Unione Europea anche negli interventi più equilibrati.

Perché no
Le ragioni di tanta avversione possono essere riassunte in alcuni slogan ricorrenti:

  • “L’Europa salva le banche e i banchieri invece di occuparsi delle reali emergenze”. Si continua a pensare alle banche come istituti che fanno soltanto gli interessi dei banchieri (visti come orribili sfruttatori) e si dimentica che un sistema bancario efficiente e sicuro rappresenta una garanzia per i risparmiatori, per gli investitori e quindi per la creazione di posti di lavoro. Se il nostro sistema bancario, in alcune sue parti, non corrispondeva a questi criteri, la colpa è nostra non dell’Europa.
  • “L’Europa fa solo gli interessi della Germania”. Il che in parte può essere vero ma si dimentica che la Germania già da anni ha fatto quei “compiti a casa” che le hanno consentito di crescere e di guadagnare credibilità mentre noi ci siamo fermati ogni qualvolta si trattava di fare riforme incisive, continuando così ad aumentare il debito pubblico che è tra i più elevati del mondo. In queste condizioni sono i tedeschi che vogliono liberarsi della nostra zavorra e se ce ne andassimo molti a Berlino accenderebbero fuochi d’artificio per festeggiare. Dopodiché i conti con la Germania dovremo continuare a farli ma in condizioni molto più deboli che non all’interno di un partenariato europeo dove, almeno formalmente, il nostro voto conta quanto quello tedesco.
  • “L’Europa ci toglie la sovranità”. Come dire che da soli risolveremmo meglio i nostri problemi. A prescindere dal fatto che l’Europa toglie sovranità a noi nella stessa misura in cui la toglie agli altri e che i trattati che lo prevedono li abbiamo sottoscritti perché far parte di un mercato ampio e senza dogane era molto conveniente per un paese come il nostro fondamentalmente esportatore, quello che è criticabile (ed è largamente condiviso) è il fatto che la perdita di sovranità sia avvenuta a vantaggio di organismi sostanzialmente intergovernativi (come la Commissione e il Consiglio) senza un significativo controllo democratico (affidato soltanto in parte al Parlamento Europeo). Il che dovrebbe spingere a completare la costruzione dell’unità europea, non a smantellarla. Ma poi: vogliamo tornare al protezionismo? Non conviene a nessuno, men che meno all’Italia.
  • “Bisogna uscire dall’euro e tornare alla lira manovrando sul cambio per facilitare le esportazioni”.
    Restare o uscire dall’Eurozona è motivo di dibattito, ma è cosa diversa dall’uscita dall’Unione. Tuttavia sono abbastanza vecchio per ricordare cosa significavano le “svalutazioni competitive”: necessità di confrontarsi con altre monete anch’esse soggette a variazioni di cambio, tornare alle transazioni in dollari americani, e, soprattutto, alimentare l’inflazione (che infatti, negli anni “felici” delle svalutazioni arrivava a superare il 10% l’anno). L’adozione dell’euro ci ha consentito un decennio di stabilità dei prezzi, ci ha obbligato a contenere la spesa pubblica, ha costretto l’industria a puntare sull’innovazione di prodotto, ha facilitato gli scambi internazionali. Ci sono delle criticità? Certamente sì, lo riconoscono anche i banchieri centrali. Ma anche in questo caso si tratta di andare avanti, per esempio armonizzando i sistemi fiscali. Il che significa che il nostro Paese, allineandosi alla media europea degli oneri fiscali, avrà meno gettito disponibile da spendere e il nodo delle mancate riforme di struttura (che ci fanno perdere decine di miliardi l’anno) tornerebbe ad essere fondamentale. Perché le riforme vanno fatte e non è colpa dell’Europa se non le abbiamo fatte; al contrario, è l’Europa che ce le chiede da molti anni.

Conclusioni amare
L’ondata di fango sull’Europa, ampiamente alimentata dai mass-media (penso soprattutto ad alcuni talk-show superficiali e demagogici), non è giustificata. Capisco che dipende in gran parte da pulsioni incontrollabili che riflettono la preoccupazione di una crisi che non finisce mai e che produce disoccupazione, compressione dei ceti medi, aumento della povertà. Molti pensano che la strada imboccata sessant’anni fa con l’apertura dei mercati, la globalizzazione, le istituzioni sovranazionali, fosse sbagliata. I liberali degni di questo nome sono convinti del contrario: se non avessimo scelto quella strada staremmo molto peggio. I non liberali, liberi cittadini comunque, hanno il diritto di pensare diversamente, ma quel che emerge dalle reazioni all’appello di Della Vedova è ben altro, molto più preoccupante:

  • ignoranza diffusa sull’Unione Europea: come funziona, quali sono i suoi organismi, qual è il livello di partecipazione italiana.
  • scarsa conoscenza delle più elementari leggi dell’economia e anche della reale composizione della struttura sociale del nostro Paese.
  • completa disinformazione sui benefici che provengono dall’Europa (libertà di circolazione, sovvenzioni di progetti, scambi culturali, coordinamento delle politiche commerciali, ecc.)
  • nostalgia del passato (peraltro ignorato nella sua realtà) e ritorno al protezionismo, anche quando (o soprattutto perché) esso protegge l’inefficienza, la mediocrità, la corruzione.
  • rifiuto della globalizzazione immaginata come causa dell’immigrazione incontrollata, della disoccupazione e dei cambiamenti sociali che hanno modificato il tenore di vita di parti consistenti della popolazione.

Al netto degli insulti, che servono soltanto a mascherare l’incompetenza e l’ignoranza, c’è davvero da preoccuparsi. Conoscere per deliberare, diceva Luigi Einaudi. Non è che la scuola, estraniandosi da qualsiasi insegnamento di educazione civica, ha per caso qualche responsabilità?

 

Franco Chiarenza
21 marzo 2017

Perché siamo contenti
Un liberale non può che essere contento se i liberali (seppure divisi in due partiti come si conviene a liberali che si rispettino) vincono le elezioni in Olanda respingendo l’offensiva populistica anti-europeista e razzista del partito di Wilders. Si tratta di un secondo segnale (dopo quello delle elezioni presidenziali austriache) di una controffensiva dei movimenti che nell’Europa vedono un’opportunità e non un ostacolo.

La partecipazione
Ma in entrambi i casi il voto ha presentato alcune caratteristiche comuni che devono farci riflettere. La prima è la partecipazione al voto. L’ondata xenofoba e nazionalista si sconfigge andando a votare in massa, non importa per chi; l’astensione è come un voto regalato agli estremisti. Una constatazione che riguarda anche il referendum che ha sancito la Brexit e l’elezione di Trump negli Stati Uniti dove il populismo ha potuto prevalere anche per la bassa partecipazione al voto soprattutto dei giovani e dei “disincantati” (quelli che dicono: è inutile andare a votare tanto chiunque vinca non cambia nulla; se ne accorgeranno i giovani libertari londinesi e le minoranze etniche americane).

Il sistema elettorale
La seconda riflessione riguarda il sistema elettorale. L’esempio olandese dimostra che un sistema proporzionale o uninominale senza ballottaggio (all’inglese) rappresenta certamente un freno al prevalere di ondate di protesta irrazionali e comunque minoritarie strumentalizzate da leader populisti. I sistemi maggioritari infatti se per un verso favoriscono la governabilità d’altra parte rischiano, soprattutto se caratterizzati dal ballottaggio, di consegnare il potere ai movimenti che meglio sono in grado di intercettare le paure e le reazioni dei settori più disorientati della pubblica opinione. Questa è la ragione per cui l’esito delle elezioni francesi preoccupa di più di quelle olandesi (a prescindere dal diverso peso politico ed economico dei due paesi). Perché in Olanda anche se Wilders fosse arrivato in testa non avrebbe mai potuto disporre di una maggioranza parlamentare e ne sarebbe conseguito un governo di coalizione tra forze anti-populiste che comunque avrebbe potuto ottenere la fiducia del parlamento. In Francia invece – a parità di consensi con Wilders in Olanda – Marina Le Pen arrivando in testa costringerà quote rilevanti di elettori a scegliere tra due candidati ugualmente sgraditi; non tutti cercheranno razionalmente il male minore, molti sceglieranno l’astensione e ciò potrebbe consentire al Front National di approdare all’Eliseo col suo seguito razzista e populista. Vero è che i conti potrebbero non tornare in Assemblea Nazionale costringendo la Le Pen a costituire un governo più possibilista ma comunque la presenza al vertice dello Stato francese di un’estremista anti-europea, considerati i poteri di cui disporrebbe soprattutto in politica estera, rappresenterebbe un rischio davvero mortale per le istituzioni comunitarie.

E in Italia? Pensiamoci
Tutto ciò dimostra l’importanza dei sistemi elettorali che molti tendono a sottovalutare. Quando esiste nel Paese una maggioranza che si riconosce in valori condivisi che vanno oltre la maggioranza di governo (come in Gran Bretagna e – prima di Trump – negli Stati Uniti) un sistema maggioritario è preferibile perché consente esecutivi stabili e una più facile alternanza di governo. Quando invece lo scontro avviene su valori fondanti della democrazia liberale (come accadde in Italia dopo la guerra) il sistema proporzionale impedisce comunque alle forze antagoniste di prevalere. Se i comunisti fossero anche arrivati primi alle elezioni nella prima repubblica, non potendo in ogni caso raggiungere la maggioranza assoluta, cosa sarebbe cambiato ? Cosa avrebbe impedito ai partiti anti-comunisti, comunque prevalenti, di formare una maggioranza di governo escludendo il partito comunista ?
Ci avviamo alle elezioni tra un anno anche in Italia. Anche per noi si pone una riflessione: forse, a conti fatti, un sistema proporzionale come quello che in sostanza ci ha consegnato la corte costituzionale, potrebbe rappresentare nella situazione attuale la soluzione migliore, consentendo anche, come dimostra l’esempio olandese, una affluenza alle urne più consistente. Pensiamoci. Ci pensa anche il liberale qualunque la cui cultura politica ha sempre diffidato dei sistemi proporzionali preferendogli sistemi uninominali che accrescono il collegamento tra rappresentati e rappresentanti. Ma uninominale (senza ballottaggio) o proporzionale, quel che bisogna davvero evitare sono i “premi di maggioranza”; potrebbero premiare i nemici della democrazia liberale e dell’integrazione europea.

 

Franco Chiarenza
17 marzo 2017

Si chiamano Angela (Merkel), Francesco (Hollande), Mariano (Rajoy) e Paolo (Gentiloni). Hanno stretto un patto di ferro: andare avanti nell’integrazione europea come unica risposta possibile all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione e alle turbolenze del nuovo presidente americano che investono a fasi alterne anche l’Europa. Un primo forte segnale di discontinuità lo hanno dato al consiglio europeo imponendo la riconferma alla presidenza del polacco Tusk malgrado l’opposizione del governo polacco oggi guidato dai suoi avversari conservatori e nazionalisti. Ma l’impegno più significativo è atteso dal vertice straordinario convocato a Roma per celebrare i 60 anni della nascita della Comunità Europea dal quale dovrebbe scaturire l’atto di nascita di un’Europa a due (o più) velocità. Resta però il fatto che tutti e quattro i “moschettieri” potrebbero non essere più al loro posto di qui a pochi mesi.
Il caso della Merkel è quello che preoccupa meno: la competizione elettorale di ottobre in Germania non dovrebbe dare grandi sorprese, e anche nel caso che vincesse il socialista Schultz l’impegno per l’Europa non verrebbe certamente meno (Schultz è stato per molti anni presidente del parlamento europeo).
Hollande non sarà invece sicuramente più presidente e le elezioni francesi rappresentano la maggiore incognita per il futuro dell’Europa; se dovesse vincere Marina Le Pen il discorso si chiuderebbe prima ancora di cominciare, anche con Fillon è lecito qualche dubbio sulla sua tenuta europeista, i socialisti sembrano fuori dai giochi. Soltanto una miracolosa vittoria di Macron darebbe garanzie certe per un rilancio dell’unità europea.
Rajoy è un presidente precario senza una maggioranza certa; da un momento all’altro i socialisti potrebbero rovesciarlo e anche in Spagna nuove elezioni presentano forti rischi di instabilità. Se dovessero aumentare i consensi dei “podemos” (una variante iberica dei “cinque stelle”) il discorso europeo sarebbe seriamente compromesso.
Quanto a Gentiloni lo sappiamo bene; arriverà fino alla scadenza della legislatura ma dopo le elezioni è molto improbabile che sarà ancora lui a guidare il governo. Se gli succederà Renzi dobbiamo prendere atto che nel suo discorso congressuale al Lingotto l’unificazione europea è tornata al centro dell’attenzione, e in generale tutto il PD è su posizioni europeiste. Se invece i “cinque stelle” o l’estrema destra di Salvini e Meloni divenissero determinanti il primo siluro partirebbe certamente per affondare i progetti di rafforzamento delle istituzioni europee.

Mi pare di essere seduto su un vulcano che conosco bene, l’Etna. Quando comincia a brontolare si sa che sta per eruttare ma non si sa mai a quale altezza e in quale direzione. Se apre le sue bocche sulla valle del bove tutti tirano un respiro di sollievo: non farà danni e dopo essersi sfogato tornerà in letargo. Ma quando le lingue di fuoco escono dalla parte dei paesi e della stessa città eretta sotto la montagna la lava può distruggere tutto ciò che è stato costruito e ci vogliono decenni per ricominciare. E’ già successo; al centro della piazza del Duomo a Catania un antico elefantino in pietra lavica sta lì a ricordarcelo.

Franco Chiarenza
14 marzo 2017

Premesso che un terzo stadio a Roma non mi sembra francamente tra le priorità della Capitale, è molto significativo il modo in cui si è concluso il tormentone che per un anno ha angosciato la tifoseria romanista coinvolgendo in un crescendo inarrestabile larga parte dell’opinione pubblica nazionale. In un susseguirsi di stupefacenti contraddizioni (ci andremo a nuoto, sibila Grillo; le tribune del vecchio ippodromo vanno protette, scopre improvvisamente la Sovrintendenza; non consentiremo l’ennesimo regalo ai “noti” costruttori, affermano un paio delle cinque stelle, ecc.) lo psicodramma si è risolto con un tipico colpo di teatro all’italiana: ma come non pensarci prima? Basta dimezzare le cubature e il gioco è fatto. I Cinque Stelle possono dire (con un po’ di faccia tosta, ma quella non gli manca) che hanno impedito la “colata di cemento” in un’area che dal rischio di sommersione (vedi le dichiarazioni di Grillo) è improvvisamente diventata comunque edificabile per centinaia di migliaia di metri cubi, i romanisti portano a casa lo stadio, i costruttori sembrano anch’essi molto contenti malgrado il dimezzamento. E qui sta il punto, perché quando tutti sono soddisfatti c’è qualcosa che non torna.
Infatti è subito intervenuto l’ex-sindaco Marino, la cui giunta aveva approvato il progetto originario, a chiarire il mistero. Il nuovo progetto Raggi altro non è che la riedizione della prima proposta di Pallotta (presidente italo-americano della Roma) che la sua giunta aveva respinto per alcune inoppugnabili ragioni: la costruzione di uno stadio calcistico, tanto più se realizzata nella nuova formula di porlo al centro di un complesso multifunzionale (con negozi, mercati, uffici, parchi giochi, ecc. ) comporta spostamenti di ingenti masse di cittadini che richiedono adeguamenti strutturali rilevanti (metropolitana, strade, ponti sul Tevere, risanamento idro-geologico, messa in opera di parchi pubblici) che l’amministrazione comunale non ha le risorse sufficienti per realizzare. Il nuovo progetto Marino comportava sì un aumento rilevante delle cubature ma metteva a carico dei costruttori e della Roma la realizzazione di tutte le infrastrutture, e oltretutto prevedeva che le nuove cubature fossero prevalentemente concentrate sulle famose torri di Libeskind, un’opera urbanistica avveniristica firmata da uno degli architetti più famosi al mondo (è suo il progetto della bellissima Freedom Tower di New York) che avrebbe messo la città al centro dell’urbanistica contemporanea (insieme all’auditorium di Renzo Piano che mi pare l’ultima opera di pregio realizzata a Roma).
Ecco spiegato il perché del “tutti contenti”. Lo stadio sarà comunque costruito e i tifosi della Roma saranno contenti; come arrivarci sarà un problema ma basterà partire da casa qualche ora prima. La zona commerciale sarà fatta ma sulla natura dei negozi (non si parla pudicamente di centri commerciali per non urtare la suscettibilità dei “chilometrozeristi”) si pronunceranno gli abitanti; immagino un referendum se preferire una macelleria o un fruttivendolo. I costruttori sono contenti perché tutti gli oneri accessori che non producono reddito saranno a carico del Comune (almeno quei pochi che saranno realizzati). Gli appalti restano quelli previsti monopolizzati in gran parte con chiamata diretta da multinazionali edili americane. Il problema idrogeologico è scomparso come d’incanto, le perplessità della Sovrintendenza sembrano superate (e ci sarebbe da chiedersi come mai questa improvvisa attenzione per le cadenti tribune del vecchio ippodromo in una città dove il più grande patrimonio archeologico del mondo non trova tutela adeguata), e Grillo può “twittare” brava Raggi. Brava davvero, anche nel malore misterioso che l’ha colta e di cui nessuno è riuscito a conoscere le cause (con il marito che, intervistato all’ospedale, continuava a ripetere “ma sta bene, sta bene”), che probabilmente è servito a concordare l’ultimo accordo con il movimento da una parte e con la Roma dall’altra. Forse non ha ancora imparato ad amministrare ma sta imparando in fretta i trucchi della politica.

P.S. Le torri di Libeskind a Tor di Valle non si faranno; in compenso è già partita la costruzione della torre Libeskind a Milano nell’area dell’ex-fiera. Roma continua la sua lenta marcia verso l’impaludamento provinciale, Milano si muove velocemente in competizione con le metropoli europee. Il liberale qualunque vorrebbe invece un rilancio strategico della Capitale, anche con la realizzazione di grandi infrastrutture urbanistiche d’avanguardia; ma i romani hanno votato i Cinque Stelle (con qualche ragione) e dobbiamo accontentarci della loro filosofia minimalista: meglio le strade senza buche e la spazzatura riciclata con la differenziata che i grattacieli di Libeskind. Il fatto è che le strade continuano a somigliare a percorsi di guerra e la spazzatura domina incontrastata in cassonetti debordanti e indifferenziati.

 

Franco Chiarenza
28 febbraio 2017