L’hanno scritto in molti e lo confermo: la scissione del partito democratico si è consumata in modo freddo e un po’ squallido, come una separazione consensuale di coniugi che da anni non si parlavano più. Sarebbe stato meglio farlo in congresso sulla base di un confronto politico serio da cui emergessero le reali differenze tra le parti in causa. Si è preferito percorrere una strada più ambigua, un po’ perché le antipatie personali, le insofferenze caratteriali vi hanno giocato un ruolo inconfessabile e talmente evidente da suscitare fastidio, ma anche perché sia la maggioranza “renziana” che la minoranza scissionista contengono al loro interno visioni diverse e sulle quali si preferisce in questo momento non dividersi. Tuttavia le ambiguità tattiche non possono nascondere una domanda di fondo, non a caso ampiamente trattata nel dibattito mediatico: ci sono ragioni vere e profonde che rendevano ineluttabile la divisione del partito?

La risposta è sì; ma per capire meglio occorre fare un passo indietro. Torino, Lingotto 2007. Valter Veltroni celebra il suo trionfo realizzando il sogno di costituire dalle ceneri della prima repubblica un nuovo partito il quale, prendendo atto definitivamente della fine delle contrapposizioni ideologiche, disegnasse una vasta area riformista di ispirazione liberal-socialista con l’apporto anche di tutti coloro che erano disposti a rigettare vecchi fondamentalismi ormai improponibili. Un compromesso storico moderno in grado di adeguare il nostro sistema politico alla prassi europea e occidentale senza egemonie precostituite e senza la pretesa di costituire un modello ideologico come la “terza via” che avevano avuto in mente Moro e Berlinguer vent’anni prima; un partito nuovo quindi che nasceva anche per far fronte al bipolarismo che andava prendendo piede con il ricompattamento delle destre e di ampi settori liberal-conservatori in un partito anti-ideologico come quello che si era formato intorno alla figura carismatica di Berlusconi. Una prospettiva a lungo termine mirata a catturare vaste aree di consenso anche nel centro dello schieramento e il cui modello era evidentemente – anche nella scelta del nome – il partito democratico americano di Kennedy e di Clinton (Obama non era ancora arrivato).
Il progetto trovò sulla sua strada l’opposizione di D’Alema il quale, al di là della presunzione autoreferenziale che lo porta istintivamente a respingere ogni idea che non sia scaturita da lui, rappresentava comunque lo zoccolo duro del vecchio partito comunista (sia pure riformato dopo la svolta della Bolognina) e un apparato costituito (almeno in parte) da una frangia minoritaria ancora ideologicamente motivata, ostile a una svolta che si annunciava liberale anche nelle scelte economiche. Erano gli anni della globalizzazione ancora vissuta come evoluzione positiva e il vento soffiava in Occidente in favore della “società aperta” di popperiana memoria. Contestando la strategia veltroniana dei tempi lunghi che rischiava di confinare la sinistra all’opposizione D’Alema riuscì già due anni dopo a sbarazzarsi di Veltroni ma non fu in grado di proporre alcuna strategia realmente alternativa. Da quel momento il partito democratico ha cominciato ad annaspare giorno per giorno alla continua ricerca di un compromesso tra i reduci della sinistra marxista e i sostenitori di una forza di governo riformista aperta al centro; divisi su tutto ma uniti dal potere che esercitavano in pezzi importanti della realtà sociale e politica (soprattutto del settore pubblico allargato: enti locali, società partecipate, televisione, sanità, ecc.).

Ciò nonostante il seme buttato da Veltroni non si era completamente disperso.
All’orizzonte comparve un intrepido boy scout, certo Matteo Renzi. Un corpo estraneo per la nomenklatura il quale però ne aveva compreso tutte le debolezze, e in particolare la trappola in cui si era cacciata consentendo le “primarie” aperte a tutti (un’altra imitazione americana che però non teneva conto delle profonde differenze dei due contesti) mediante le quali personaggi estranei al partito erano riusciti utilizzando un populismo di sinistra a buon mercato a farsi riconoscere candidati vincenti al vertice di enti locali dove altrimenti non sarebbero mai giunti: De Magistris a Napoli, Emiliano a Bari, Doria a Genova, Pisapia a Milano, Orlando a Palermo, Marino a Roma, lui stesso a Firenze. Tutti personaggi non indicati dal partito e in gran parte ostili al vecchio gruppo dirigente catto-comunista. Applicando a livello nazionale la lezione che aveva imparato a Firenze (e che comprendeva anche la necessità di unire alla spregiudicatezza tattica contenuti strategici seriamente riformisti e fortemente aggreganti), Renzi avviò la sua marcia su Roma che, dopo un fallimento iniziale (quando l’apparato fece quadrato su Bersani), lo portò in tempi brevi alla segreteria del partito e, poco dopo, malgrado le perplessità del presidente Napolitano, da via del Nazareno a palazzo Chigi dove arrivò congedando bruscamente Enrico Letta con modalità che violavano tutte le regole del bon ton istituzionale. Il “ragazzo” apparve subito per quel che era: un po’ villano, sicuro di sé, circondato da molti yes men (e soprattutto yes women), ancorato a slogan populisti come la “rottamazione” che facevano pensare alla “giovinezza” fascista; ma proprio per questa discontinuità dalla vecchia classe dirigente forse in grado di far breccia in un elettorato confuso e preoccupato che cominciava a sentire sulla pelle gli effetti della crisi e ne addebitava la colpa a chi aveva governato fino a quel momento.
A questo punto la minoranza del PD dovette fare buon viso a cattivo gioco ma la dissidenza – che era politica e non soltanto personale – covava sotto la cenere. La vera partita si giocava sulla realizzazione del programma della “Leopolda” che, con toni e contenuti certamente più grezzi, rilanciava nella sostanza il progetto veltroniano del Lingotto.

Che cosa non ha funzionato? Premesso che non è vero che nulla sia stato fatto e riconoscendo anzi che in alcuni settori (lavoro, scuola, pubblica amministrazione, diritti civili) il governo si è mosso con decisione sfidando le resistenze corporative e il potere di interdizione dei sindacati che tanto a lungo avevano prodotto i loro effetti negativi, la macchina bellica di Renzi si è inceppata sulle riforme istituzionali. Le quali erano sì previste da tempo (Lingotto, Leopolda, ecc.) ma dovevano essere affrontate con intelligenza e cautela, stando attenti – almeno in quel caso – a non cadere nella trappola del “fare a qualunque costo” nella quale è precipitata invece Maria Elena Boschi, inopportunamente incaricata di tenere le fila di una materia così delicata, dove l’opposizione (esterna ma anche interna) non avrebbe mancato di far sentire il suo peso. La strada giusta era quella imboccata da Renzi col “patto del Nazareno” che prevedeva due percorsi tra loro indipendenti, quello della condivisione della cornice istituzionale da riformare ed aggiornare (c’era anche da eleggere il nuovo Capo dello Stato dopo le dimissioni irrevocabili di Napolitano), l’altro delle scelte di governo dove maggioranza e opposizione si sarebbero normalmente confrontati in parlamento. L’incubo mediatico dell’”inciucio”, alimentato dalla convinzione largamente diffusa da Grillo e dai suoi complici che la politica debba sempre essere trasparente e controllabile non da strumenti istituzionali ma da una base popolare spesso incompetente e esposta alla più smaccata disinformazione, è stata forse la ragione principale che ha indotto Renzi e Berlusconi ad abbandonare il progetto, timorosi entrambi di perdere il consenso delle proprie basi e di alimentare il successo dei Cinque Stelle. Fu un grave errore che fece sentire i suoi effetti col referendum che doveva decidere di una riforma istituzionale pasticciata, obiettivamente impresentabile, e che ha finito invece per rappresentare un plebiscito su Renzi in cui non era difficile mettere insieme gli oppositori politici e i contestatori dei contenuti.

Conosciamo il seguito: le dimissioni di Renzi, il governo fotocopia di Gentiloni, la scissione fredda del partito democratico. La frammentazione della sinistra e quella non troppo diversa della destra (anch’essa tutt’altro che priva di validi motivi) rischiano di gettare l’Italia nell’ingovernabilità, considerato anche che un quarto dell’elettorato sembra orientato a sostenere il movimento di Grillo sostanzialmente privo di un’ideologia di riferimento e compatto soltanto nella contestazione dell’attuale classe dirigente, pronto quindi a dividersi a sua volta di fronte a concrete scelte di governo (come dimostra il caso di Roma).
Perché il problema è un altro, ed è molto antico: il modello di società che vogliamo realizzare e su cui passa la vera divisione del paese reale (e che, non a caso, si presenta molto simile in tutti i paesi occidentali). Se andare avanti nella costruzione di una società aperta con tutti i rischi che ciò comporta o tornare indietro a chiuderci nelle nostre presunte sicurezze; la prima ipotesi è quella di un’Europa politicamente unita per affrontare da posizioni di forza gli inevitabili cambiamenti che la globalizzazione produce, di una liberalizzazione che abbatta le gabbie protettive delle corporazioni che ostacolano la meritocrazia e l’innovazione, ecc. La seconda è quella dell’affermazione delle sovranità nazionali, del ritorno ai protezionismi con tanto di dogane e passaporti, come nel passato. Due strade che hanno entrambe le loro motivazioni ma che richiedono scelte chiare senza cercare impossibili compromessi. Si possono studiare correttivi ma non si deve cercare di confonderle facendo credere che si possono percorrere contemporaneamente: esse vanno in direzioni diverse.

Di questo bisogna discutere. Su questo il liberale qualunque vuol giudicare la credibilità delle forze politiche e la loro capacità di portare avanti un progetto coerente. Sul fatto che chi ha pubbliche responsabilità debba essere onesto e che i marciapiedi debbano essere puliti sono tutti d’accordo, ma non è su questo che ci si deve confrontare. La vittoria di Trump in America, l’affermazione di personaggi come Marina Le Pen in Francia, sembrano segnare una svolta verso la distruzione di quanto si è realizzato – proprio su spinta americana – nel secolo scorso in direzione del multilateralismo e della globalizzazione non soltanto economica ma anche culturale; con benefici immensi per tutta l’umanità anche nella legittimazione della democrazia liberale come forma di governo ottimale. Ma la paura di perdere i propri privilegi sta spingendo in Occidente ampi settori dei ceti medi a tornare indietro: si sentono insicuri e sono quindi disposti ad appoggiare chiunque proponga di smantellare quelle che – complici molti media – ritengono essere le cause del loro (giustificato) disagio. Marcia indietro, subito, senza stare troppo a pensare alla sua fattibilità concreta e alle conseguenze che potrebbero derivarne.
Ne parleremo.

P.S. – A chi non lo avesse ancora fatto consiglio la lettura dell’ottimo articolo di Alesina e Giavazzi sul Corriere della sera del 22 febbraio.

 

Franco Chiarenza
24 febbraio 2017

Prima la magistratura gli si mette di traverso sul decreto che blocca gli ingressi agli immigrati di alcuni paesi musulmani, poi lo convincono a nominare ambasciatore in Cina Branstad, molto amico dei cinesi (dopo le dichiarazioni roboanti di sfida di pochi giorni fà), poi deve precipitosamente rassicurare il premier giapponese Abe e il primo ministro canadese Trudeau che nulla cambierà, infine le turbolenze sui rapporti con la Russia di Putin e le conseguenti dimissioni del consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn. Sono passati poco più di venti giorni dall’insediamento e Trump è molto arrabbiato; la sua presidenza ondeggia pericolosamente e il partito repubblicano non può che esserne preoccupato mentre i democratici lo attendono al varco delle prossime scadenze: G8, G20, NATO, Ucraina. La monarchia comunista nord-coreana intanto continua a giocare pericolosamente con i missili e Trump è stato forse informato che senza l’aiuto della Cina sarà difficile fermare Kim Jong-un. Insomma governare la più grande potenza del mondo non è come fare i discorsi alle convention.

Naturalmente siamo soltanto agli esordi e le ingenuità dei primi giorni, l’insicurezza nella successione dei tempi, uno staff che appare inadeguato e confuso, sono tutti elementi che accomunano i dilettanti quando di colpo si trovano proiettati al vertice del potere; per noi italiani il paragone con le vicende di Virginia Raggi al Comune di Roma appare inevitabile.
Ma per l’Europa quanto accade in America dovrebbe servire da lezione; se la precaria alleanza anti-sistema di Le Pen, Salvini, Iglesias dovesse prevalere, trovando sponda negli estremismi di Orban in Ungheria e nella svolta autoritaria in atto in Polonia, tutto il mondo occidentale con i suoi valori e le sue certezze si troverebbe in serio pericolo. Se gli elettori che nei prossimi mesi andranno a votare se ne renderanno conto forse un giorno dovremo ringraziare “The Donald”.

 

Franco Chiarenza
15 febbraio 2017

La riunione – molto attesa – della direzione del partito democratico si è conclusa con la convocazione del congresso, sia pure attraverso un passaggio scontato in assemblea nazionale. Un congresso celebrato in queste condizioni, senza un preventivo approfondimento dei motivi della contestazione interna e senza un programma di governo in qualche modo verificato almeno nei punti di convergenza, significa che Renzi non intende dialogare con le correnti di minoranza. Il congresso servirà soltanto a consolidare la sua posizione nel partito e ad aprire le porte a chi vuole uscire: cacciati forse no ma accompagnati alla porta sì. La soluzione scelta da Renzi corrisponde del resto a una sua vecchia convinzione che i diversi pezzi della sinistra del suo partito, anche messi insieme, abbiano una modesta incidenza elettorale. Per questo il leader preferisce correre da solo, sicuro ancora una volta di farcela.
Ma sulla sua strada ci sono ostacoli che non provengono dai nemici dichiarati (D’Alema, Bersani, Cuperlo, Civati, Emiliano) ma piuttosto dagli “amici” che, pur non seguendo la sinistra, sembrano prendere le distanze da lui; e non si tratta di personaggi secondari. Franceschini, Orlando, De Luca, pur molto diversi tra loro, non nascondono la loro insofferenza e cercheranno di impedire a Renzi di divenire, dopo l’eliminazione della sinistra, dominus incontrastato del partito.
Ciò però che è più grave, e si evince da molte reazioni esterne, è che l’opinione pubblica – anche quella orientata a sinistra – non è ancora riuscita a comprendere le ragioni del contendere, a parte quelle evidentissime di carattere personale. Il programma originario di Renzi – quello della “Leopolda” per intenderci – appare piuttosto ammaccato e, per sua stessa ammissione, richiede qualche aggiustamento, ma l’opposizione, se si escludono alcuni generici richiami alle “radici di sinistra” e altri confusi segnali di fumo, non sembra offrire un progetto davvero alternativo. In tali condizioni il P.D. corre diritto verso il disastro elettorale, non per emorragia verso altri ma per un crescente astensionismo che potrebbe minare la sua credibilità.
In questa situazione si inserisce il tentativo di Pisapia di creare una non ben definita “area” di sinistra in cui comprendere tutte le differenze che la agitano. Probabilmente convinto dell’ineluttabilità della scissione l’ex-sindaco di Milano sembra pensare a una sorta di rete di sicurezza, un’”area” appunto, dalla quale far scaturire un minimo comune denominatore in grado di affrontare la campagna elettorale in una convergenza almeno parziale. L’operazione mi pare troppo cerebrale e intellettualistica per riuscire, e comunque resta condizionata da quella che sarà la legge elettorale, ma potrebbe rappresentare l’ultima spiaggia prima che Renzi e i suoi imbocchino la strada di una divaricazione che riporterebbe il leader fiorentino verso quelle posizioni di centro alle quali, pur tra molte ambiguità, ha forse sempre mirato.
E’ davvero curioso che nella riunione della direzione del P.D. non si sia parlato di legge elettorale, e cioè del vero nodo da sciogliere se davvero si vuole andare ad elezioni anticipate (seppure di pochi mesi). A questa stranezza si aggiunge il silenzio di Gentiloni e Padoan che hanno assistito alla riunione senza prendere la parola, creando un precedente; mai era avvenuto che in una direzione di partito il presidente del consiglio e il ministro dell’economia (che di quel partito sono espressione) non parlino delle scadenze che attendono il Paese, a cominciare da tre punti fondamentali che sono quelli che davvero interessano agli italiani: i rapporti con Bruxelles in vista di una possibile procedura di infrazione, il controllo dell’immigrazione (e quindi la questione libica) e la situazione economica (in particolare per quanto riguarda la disoccupazione). L’unico che ha proposto qualcosa di concreto denunciando con accenti drammatici la continua decrescita del Mezzogiorno dimostrando come la disoccupazione stia raggiungendo nelle regioni meridionali dimensioni inaccettabili (compensate di fatto dall’aumento del lavoro nero e dalla preoccupante emigrazione giovanile) è stato De Luca, il contestato governatore della Campania.
Resta da capire se De Luca deve essere considerato un rottamato (era comunista quando Renzi aveva i calzoni corti e faceva lo scout), un rottamando (come vorrebbe la sinistra), o un rottame ancora utilizzabile ma da mettere in disparte alla prima occasione. Non lo so, ma ascoltarlo è per lo meno divertente (per l’ironia sprezzante con cui condisce i suoi discorsi) e istruttivo (per i contenuti concreti che propone). E’ davvero incredibile che per sentire un intervento che esca dall’opprimente atmosfera dei messaggi cifrati, del detto-non detto, delle “convergenze parallele” che furono tipici della prima repubblica, si debba attendere uno che di essa fu attivo testimone!

Franco Chiarenza
14 febbraio 2017

Inutile girarci intorno: questo è il problema. Oggi come mai in precedenza, perché l’inattesa svolta americana ci rivela che l’Europa, di cui – piaccia o meno – rappresentiamo una componente importante, è il re nudo della famosa favola di Andersen.

Europa sì
Uno dei luoghi comuni ricorrenti è che l’Europa è nata male perché concepita soltanto sulla dimensione dell’economia di mercato, senza una “testa” politicamente responsabile e senza sensibilità sociale. La verità è che l’Unione Europea non poteva probabilmente che nascere così; nella storia nulla è casuale e ci sono motivazioni reali e profonde perché le cose siano andate nel modo in cui sono accadute malgrado gli sforzi di una classe dirigente che nei principali paesi del continente non mancava occasione per dichiararsi europeista. Ma anche così, con regole cogenti per regolamentarne i mercati e certamente sbilanciata sul piano politico e militare a favore dell’ombrello protettivo americano, la Comunità Europea ci ha consentito di crescere come mai in precedenza, di assicurare alla maggioranza della popolazione un tenore di vita tra i più elevati al mondo, di creare una rete complessa di rapporti interdipendenti che hanno permesso ai giovani di sentirsi europei a prescindere dalle differenze di lingua, di culture, di religioni. Non succedeva dai tempi dell’illuminismo quando sulla spinta del rinnovamento umanistico e rinascimentale l’Europa riaffermò la propria egemonia culturale sostanzialmente unitaria, al di là dei conflitti militari e dei conflitti politici che la dividevano.
Il trattato di Schengen ha aperto i confini di molti paesi consentendo a uomini e merci di muoversi liberamente senza visti e passaporti, come in una sola nazione; il progetto Erasmus ha permesso a centinaia di migliaia di giovani di viaggiare e fare esperienze in paesi diversi dal proprio.
L’unificazione monetaria ha assicurato ai paesi che hanno aderito all’Eurozona anni di stabilità nei prezzi eliminando le crescite fittizie fondate sulle manovre del cambio e costringendo la nostra industria manifatturiera a realizzare innovazioni di prodotto che l’hanno resa più competitiva; se non ha conseguito a pieno gli effetti positivi che ha avuto in altri paesi la colpa è soltanto nostra. Abbiamo sottovalutato l’importanza delle infrastrutture in una economia globalizzata dove i fattori della competizione non riguardano soltanto il costo del lavoro ma anche (e forse soprattutto) le infrastrutture: siano esse quelle culturali (scuole e università), dei servizi (soprattutto giustizia e servizi legali), dei trasporti (ferrovie, porti, autostrade), del credito (banche e strutture di sostegno agli investimenti), della pubblica amministrazione, della sicurezza; tutti settori in cui siamo rimasti indietro, condizionati dai ricatti elettorali di corporazioni variamente costituite che hanno sempre ostacolato qualsiasi cambiamento radicale. Con chi ce la vogliamo prendere? Siamo arrivati al punto di perdere cospicui finanziamenti pur di non adeguarci alle rigorose regole anti-corruzione pretese da Bruxelles, mentre in altri paesi (vedi Spagna) si rimettevano a nuovo coi soldi europei (e quindi anche nostri). Colpa della Merkel, brutta (il che è vero) e cattiva (il che non è vero)?

Europa no
In Europa contiamo sempre meno. L’asse franco-tedesco, perno essenziale degli equilibri continentali, è sempre più inclinato verso Berlino mentre i problemi del Mediterraneo (non ultimo quello dell’immigrazione selvaggia) sono vergognosamente trascurati. Il trattato di Schengen andava bene quando riguardava essenzialmente gli europei, è diventato un disastro quando ha consentito a centinaia di migliaia di immigrati clandestini di sfuggire a qualsiasi controllo. E infatti è stato precipitosamente sospeso da molti paesi quando l’invasione ha assunto dimensioni senza precedenti.
L’euro forte favorisce la Germania e le sue esportazioni, e se anche fosse vero che il suo surplus commerciale è il risultato di scelte di politica economica virtuose (al contrario delle nostre) come faremo a risalire la china senza concrete misure di sostegno incompatibili con i severi vincoli del trattato di Maastricht?
Per queste ragioni i sostenitori del ritorno alle piene “sovranità nazionali” ritengono che la flessibilità necessaria ai paesi mediterranei (Italia, Grecia, Spagna) si possa ottenere soltanto abbandonando l’Eurozona e tornando al controllo nazionale dei cambi. Politiche sociali di sostegno per il lavoro possono essere realizzate soltanto tramite politiche protezionistiche variamente calibrate in base ad accordi bilaterali, come Trump si propone di fare per correggere gli squilibri commerciali con la Cina, il Giappone e la Germania responsabili delle delocalizzazioni industriali e dei problemi sociali connessi. I vantaggi di un’Europa unita sono stati reali ma rappresentano un’eredità del passato che oggi non corrisponde più alle convenienze di paesi come il nostro. La Brexit e la vittoria di Trump in America hanno contribuito a rafforzare queste tesi; è sempre più difficile convincere le opinioni pubbliche (una volta prevalentemente europeiste) della convenienza a restare in un’Unione Europea fondata sull’asse Berlino – Francoforte. Il fatto che per ora – ma non ancora per molto – la Banca Centrale Europea sia governata da un italiano attutisce ma non elimina il problema.

Europa forse
Il fatto è che la costruzione europea rappresenta una sfida. Vere o sbagliate che siano le ragioni dell’exit o del remain occorre esaminare il problema adottando ottiche diverse, se non si vogliono compiere errori irrimediabili.
Innanzi tutto bisogna considerare realisticamente se tornare indietro sia possibile, quanto ci costerebbe e se sarebbe davvero conveniente; aspetterei di vedere cosa succederà con la Gran Bretagna che pure era assai meno integrata di noi nell’Unione.
Poi occorre capire se le svalutazioni competitive rappresenterebbero davvero quella panacea che alcuni immaginano per risolvere i problemi dell’occupazione mantenendo tutte le nostre cattive abitudini (che è il vero sogno di tanti italiani). Perché le condizioni del mercato internazionale non sono più quelle di tanti anni fa e perché il rischio delle ritorsioni protezionistiche è assai più elevato.
Se riavere il controllo sulla propria moneta significa – come mi pare pensino molti fautori dell’Italexit – aumentare la spesa pubblica per sostenere i bisogni sociali, occorre capire se ciò comporterebbe una ripresa dell’inflazione come già la conoscemmo in passato. L’inflazione – insegnava Einaudi – è la più ingiusta delle tasse perché grava in maniera inversamente proporzionale su ricchi e poveri.
Se però restare in Europa significa lasciare le cose come stanno gli svantaggi per l’Italia potrebbero aumentare e rischieremmo, come la Grecia, un avvitamento verso il basso che ci renderebbe sempre più periferici negli equilibri continentali. Bisogna quindi restare in Europa e cambiarla. Questa è la vera sfida.
Trump forse ci aiuterà; ritirando l’ombrello a stelle e strisce ci costringerà a fare i conti con noi stessi. E i conti sono presto fatti: ci conviene essere una piccola parte di un’Europa grande e potente in grado di fare valere le sue (e nostre) ragioni, piuttosto che restare soli a cercare alleanze bilaterali che somiglierebbero pericolosamente a quelle tra un topo e un leone ?
Ma perché l’opinione pubblica si convinca di questo occorre fare sul serio; il passo compiuto dalla cancelliera Merkel in direzione di un’Europa forte tra chi ci sta, va nella giusta direzione.
Ma resta da definire come, in quali tempi, con quali passaggi, verso quali conclusioni. Dovremo attendere le elezioni francesi e tedesche per capire meglio? Forse sì; un’Europa senza la Francia e la Germania non è nemmeno immaginabile.

Franco Chiarenza
13 febbraio 2017

Smettiamola di denominare le leggi elettorali con la desinenza latina “um”: mattarellum, porcellum, italicum. Un uso invalso a seguito di una battuta di spirito (quale fu all’origine nella versione di Sartori) che, se ripetuta all’infinito, diventa noiosa e volgare.
Parliamo di legge elettorale e basta.
I fatti sono noti. La legge vigente è stata dichiarata dalla Corte Costituzionale legittima e praticabile salvo il previsto ballottaggio tra le prime due liste che non abbiano raggiunto il 40% e il criterio per le candidature multiple. Considerato che – al momento attuale – la percentuale del 40% sembra irraggiungibile da qualsiasi partito ne deriva di fatto una legge proporzionale corretta da un modesto sbarramento del 3%. Si tornerebbe quindi a privilegiare la rappresentanza rispetto alla governabilità con un’inversione di tendenza stupefacente.
In realtà, poiché la legge è stata comunque modificata dalla Corte, un nuovo passaggio parlamentare pare inevitabile non soltanto dal punto di vista giuridico ma anche semplicemente per motivi di correttezza. E a questo punto sarà impossibile evitare una riapertura dei giochi a tutto campo perché in effetti un ritorno alla proporzionale nelle attuali condizioni non lo vuole nessuno (salvo forse il movimento cinque stelle che ha tutto da guadagnare da una situazione di instabilità di governo).
Inoltre c’è il problema del Senato. Immaginata dal partito renziano come un corollario alla riforma istituzionale che prevedeva la soppressione del Senato elettivo, la nuova legge elettorale non teneva conto del bicameralismo. Bocciata la riforma non vi è dubbio che alle prossime elezioni si voterà anche per i senatori e difficilmente si potrà conservare per esso una legge elettorale tanto difforme da quella che regolerà l’elezione della Camera dei deputati. Un accordo rapido e bi-partisan – come vorrebbe Renzi – trova quindi molti ostacoli sul suo cammino e la chiave del gioco – ancora una volta – passa nelle mani di Berlusconi, il quale non sembra interessato ad elezioni anticipate anche perché spera entro l’anno di ottenere alla corte di giustizia di Strasburgo un verdetto favorevole che gli consenta di rimettersi in gioco.

Forse sbaglio, ma ho l’impressione che Gentiloni possa dormire sonni tranquilli; si arriverà alla fine dell’anno senza un accordo definitivo, e da lì alla scadenza naturale del 2018 il passo sarà breve. Anche perché il presidente Mattarella non sembra entusiasta di sciogliere le Camere senza una visione chiara del “dopo”, soprattutto in un momento in cui l’Italia ha la presidenza di turno del G7 e la politica internazionale, già scossa dalla Brexit e dall’elezione di Trump, dovrà fare i conti con le elezioni in Olanda, Francia e Germania. A proposito della quale va detto che la candidatura di Schulz per i socialisti apre nuove prospettive, sia nel caso che la Merkel superi la difficile prova elettorale sia nell’eventualità di una nuova grande coalizione con i socialisti; se c’è un personaggio capace di imprimere un nuovo slancio all’unificazione politica dell’Europa questi è l’ex presidente del Parlamento europeo Martin Schulz.

Chi vivrà vedrà.

Franco Chiarenza
26 gennaio 2017

Dal discorso di insediamento di Trump c’erano poche sorprese da attendersi e infatti così è stato.
Il nuovo presidente ha confermato – nei suoi tratti essenziali – la sua linea politica tutta orientata sui problemi interni della sicurezza, sia intesa come difesa dalle minacce del terrorismo sia come mantenimento dei posti di lavoro e della centralità della classe media (prevalentemente ma non soltanto bianca). “America first” non è soltanto uno slogan ma una precisa strategia che comporta alcune rilevanti conseguenze.

La prima – di cui si sono già viste le prime avvisaglie – è una forte pressione sui produttori industriali a non delocalizzare gli impianti anche attraverso disincentivi fiscali penalizzanti che rappresenterebbero una prima grave violazione della filosofia dei mercati aperti che gli Stati Uniti hanno perseguito sin da dopo la seconda guerra mondiale. Ciò si lega perfettamente al blocco dell’immigrazione per impedire che il dumping sul costo del lavoro, bloccato all’estero si riproduca in patria.
La seconda parte della strategia di Trump è fondata su una riduzione drastica della pressione fiscale soprattutto al fine di favorire i grandi capitali i quali verrebbero indotti attraverso misure incentivanti di vario genere a effettuare nuovi investimenti produttivi in patria. Ciò comporta tuttavia una riduzione degli introiti federali che andrà in parte a incidere sulla riforma sanitaria di Obama (che infatti si vuole sopprimere o comunque ridimensionare) ma resta in contraddizione con la politica di espansione della spesa per il rinnovamento delle infrastrutture.
Gli investimenti sulle infrastrutture (di cui gli Stati Uniti hanno certamente bisogno) rappresentano infatti il terzo pilastro della strategia di Trump. Per effettuarli senza aumentare il debito pubblico Trump conta su un massiccio afflusso di risorse private da reperire sui mercati anche tramite l’offerta di titoli di Stato a tassi convenienti e opportune riduzioni fiscali.
La quarta conseguenza di tale filosofia produttivistica e protezionista è il “via libera” alla eliminazione dei vincoli ecologici e alla riduzione di ogni ingombrante obbligo sociale per le imprese.

“America first” significa anche che le scelte di politica estera dovranno essere rigorosamente subordinate agli interessi americani, non considerati in una prospettiva di lungo raggio ma nel calcolo di convenienza a breve termine. In termini concreti ciò comporta un rovesciamento dei fondamenti che hanno caratterizzato (sia pure con evidenti variazioni) la continuità della politica estera di tutti i predecessori di Trump, da Truman in poi (compreso Reagan, a cui spesso Trump si riferisce) in quanto di fatto essa diventa esplicitamente subalterna alle esigenze di politica interna. Quindi:

  • dichiarazione delle ostilità alla Cina, considerata pericolosa per gli interessi dell’industria americana e denunciata per le manipolazioni valutarie (che peraltro avevano già suscitato preoccupazione nell’amministrazione Obama).
  • ricerca di un accordo globale con la Russia, vista come un mercato potenzialmente rilevante per le esportazioni americane, anche se ciò può comportare un sostanziale abbandono delle posizioni finora sostenute in Medio Oriente e nell’Europa orientale.
  • decisa avversione a ogni forma di integrazione europea, considerata pericolosa per gli interessi economici americani. Quindi non soltanto blocco definitivo del TTIP (già in crisi per l’opposizione che aveva suscitato in alcuni settori dell’opinione pubblica europea) ma pure incoraggiamento alle spinte disgregatrici dei movimenti populisti europei (in piena consonanza con le ambizioni strategiche della Russia di Putin). Trump preferisce un’Europa divisa e priva di sostanziale potere contrattuale per motivi prevalentemente economici, Putin per ragioni politiche (riaffermare l’egemonia russa sull’Europa orientale).
  • attenuazione del deterrente militare e strategico della NATO, ritenuto costoso e sovrabbondante rispetto alle esigenze di difesa del territorio americano e delle ricadute sulla politica interna.
  • rinuncia a qualsiasi pretesa di guida politica e ideologica del mondo occidentale. Il gigante americano imporrà la sua volontà in base alla forza che saprà esprimere attraverso un’economia rafforzata senza alcuna condivisione collegiale che abbia altro significato di quella di certi consigli d’amministrazione aziendali dove ci si scambiano opinioni ma chi decide è l’azionista di maggioranza.

Naturalmente questi propositi (che hanno peraltro una loro coerenza intrinseca) non sono facili da realizzare per le resistenze che incontreranno ovunque e soprattutto negli Stati Uniti.
Trump sconta infatti una realtà inoppugnabile: quella di essere un presidente eletto da una minoranza della popolazione (arrivato alla Casa Bianca per le caratteristiche particolari delle norme costituzionali che regolano le elezioni presidenziali) e di avere contro, o, nel migliore dei casi in posizione di attesa, una parte consistente dell’”establishment” e dell’apparato militare e industriale che hanno sempre avuto come punti fermi la solidarietà atlantica e il contenimento della potenza russa.
Trump inoltre si troverà contro un’opposizione molto agguerrita consapevole di rappresentare la metà maggioritaria del paese (e comunque la parte più urbanizzata e culturalmente avanzata) che ha già dato segni di insofferenza e di rifiuto della presidenza Trump, e sarà guidata per di più dallo stesso presidente uscente Obama, il quale, forte di una popolarità ancora rilevante, non sembra avere alcuna intenzione di ritirarsi nelle “riserve” dorate che fino ad oggi hanno ospitato gli ex-presidenti. Una presenza ingombrante che probabilmente prelude a una candidatura di Michelle Obama alle prossime elezioni presidenziali.
Trump inoltre sconta un’avversione (peraltro ricambiata) della maggior parte dei mass media, cosa che negli Stati Uniti non è mai stata senza conseguenze. Il rapporto con l’opinione pubblica, anche con la sua parte più rozza, non può limitarsi ai tweet.
Trump infine sa di avere i suoi peggiori avversari (perché meno visibili) nel suo stesso partito. Alcune posizioni – soprattutto di politica estera – saranno fortemente contestate nel Congresso.

Le nomine effettuate da Trump sono assai contraddittorie. Non soltanto perché sembrano riflettere concezioni politiche tra loro non compatibili e spesso non riconducibili alle affermazioni del nuovo presidente ma soprattutto per l’ambiguità di molti dei prescelti.
Rex Tilleson, designato Segretario di Stato, è un “top manager” attualmente amministratore delegato della Exxon dove ha svolto tutta la sua carriera di lavoro; in tale veste, come presidente della Exxon Neftegas (attraverso la quale vengono gestiti gli interessi energetici della compagnia in Russia e nel mar Caspio), ha avuto intensi rapporti con l’establishment russo. La sua formazione giovanile “politica” si è concentrata nei Boy Scouts (in America assai influenti nelle politiche giovanili) di cui è stato dirigente nazionale.
Steven Mnuchin è il nuovo Segretario del Tesoro, in pratica il ministro dell’Economia. E’ stato un banchiere di Goldman Sachs, ha raccolto i fondi per la campagna di Trump ma è stato legato in passato al finanziere Soros (nemico acerrimo di Trump) e ha avuto intensi rapporti con economisti più legati al mondo democratico. Si deve a lui tuttavia il piano sulla “deregulation” e sui tagli fiscali che è alla base del consenso raccolto da Trump. Negli ultimi anni ha lavorato nel complesso mondo finanziario che sostiene la produzione cinematografica di Hollywood, dove – ironia della sorte – ha prodotto film di contenuto ecologico molto apprezzati dagli ecologisti apocalittici (come quelli di Clint Eastwood). E’ considerato una persona senza scrupoli, perfetto “servitore” dei diversi “padroni” che via via hanno costellato la sua carriera. Uomo per tutte le stagioni, ormai miliardario per effetto delle speculazioni edilizie che – ancora ironia della sorte – in passato lo hanno visto anche in dura contrapposizione di interessi con lo stesso Trump.
Alla Difesa, altro settore centrale del governo, Trump ha nominato James Mattis, un generale dei “Marine” in pensione che ha partecipato a tutti gli interventi bellici in Medio Oriente, è stato comandante militare della NATO, di cui, a quanto risulta, è un fervente sostenitore.
Ce n’è quanto basta, tralasciando altre nomine significative nel suo staff anch’esse apparentemente contraddittorie, per restare perplessi. Nel migliore dei casi si può pensare a un team in grado di seguire e di correggere i cambiamenti di direzione che di volta in volta potrebbero rendersi necessari anche in considerazione del pragmatismo e del cinismo che il nuovo presidente ha ampiamente esibito (e talvolta persino rivendicato).

In conclusione: Trump ha intercettato le preoccupazioni di una parte importante dell’elettorato americano ma le sue “ricette” appaiono semplicistiche e trovano la decisa opposizione di un’altra parte dell’America che non intende rinunciare al ruolo di guida non soltanto economica ma anche politica e morale dell’intero Occidente democratico. Trump peraltro è figlio dell’ondata populistica provocata anche in Europa dalla globalizzazione che ha messo in moto flussi di emigrazione, di trasferimenti industriali e finanziari inarrestabili ma percepiti come un pericolo per il tenore di vita acquisito nell’ultimo secolo dalla “middle class”. I populismi appaiono sempre all’orizzonte della storia quando equilibri consolidati vengono modificati: ma non hanno mai prodotto risultati positivi, anzi hanno contribuito a peggiorarli. Determinano isolazionismo e protezionismo che però, essendo reciproci, finiscono per danneggiare tutte le parti in causa, come hanno dimostrato le frequenti guerre commerciali degli albori dell’industrializzazione. Inoltre spesso finiscono per sfociare in conflitti armati in base al principio – enunciato da Frederic Bastiat – che “dove non passano le merci passano gli eserciti”. Dietro i grandi conflitti militari dell’ultimo secolo ci sono quasi sempre ondate di emozioni popolari fortemente irrazionali che li hanno spinti e incoraggiati: basti pensare alle due guerre mondiali, agli interventi americani in Medio Oriente dopo l’abbattimento delle “twin towers”, ecc.
La presidenza di Trump quindi, almeno a giudicare dalle prime mosse, non preoccupa tanto noi liberali per ciò che potrebbe avvenire all’interno degli Stati Uniti (una sterzata protezionista potrebbe anche produrre risultati positivi, almeno in un primo momento) ma piuttosto per la scossa che imprime agli equilibri internazionali: tutti conoscono l’apologo dell’apprendista stregone.

Franco Chiarenza
22 gennaio 2017

E parliamone possibilmente in maniera non ideologica.
Archiviata la richiesta di reintrodurre la versione originaria dell’articolo 18 per l’evidente tentativo di estenderne l’applicazione, la Corte costituzionale ha correttamente ammesso gli altri due quesiti referendari promossi dalla CGIL, dei quali il più sentito dalla pubblica opinione è certamente quello che riguarda i voucher.
Cosa sono i voucher ? Buoni lavoro rilasciati dall’INPS acquistabili in modo molto semplice e utilizzabili per retribuire lavori accessori effettuati con prestazioni saltuarie per prestazioni che non superino l’importo massimo di 7.000 euro l’anno; per contrastare alcuni possibili abusi nel 2016 il governo Renzi ha introdotto obblighi più rigorosi per i datori di lavoro che se ne servono (nome del beneficiario, giorno e orario dell’utilizzo).
Essi sono stati introdotti per la prima volta dal governo Prodi nel 2008 per rendere più elastiche rispetto ai contratti di categoria le tante prestazioni occasionali che si rendono necessarie in una moderna società di servizi (soprattutto nel commercio ma anche in altri settori del terziario) cercando così di fare emergere e di contrastare il lavoro nero ampiamente diffuso nel lavoro occasionale.
Sono serviti ? Sicuramente sì, come affermano a gran voce commercianti e organizzazioni di servizi (a cominciare dai sindacati che oggi ne propongono la soppressione; soltanto CGIL e CISL li hanno utilizzati per un ammontare complessivo di 2.250.000 euro nel 2016).
Se ne è fatto un abuso utilizzandoli anche dove avrebbero potuto essere sostituiti da forme contrattuali più regolamentate ? Forse in alcuni casi sì, come sembra dimostrare il loro aumento vertiginoso anche in settori “ambigui” come l’agricoltura e soprattutto l’edilizia.
Hanno fatto emergere il lavoro nero ? Questo è forse l’aspetto più controverso del dibattito in corso. Secondo i sindacati non soltanto la risposta è no, ma addirittura lo avrebbero incentivato col trucco del “voucher a metà” (parte del lavoro in voucher, parte in contanti e in nero, in modo da vanificare eventuali controlli). Secondo i commercianti l’emersione del nero c’è stata riducendo lo svantaggio fiscale degli esercizi che rispettano la legge; gli abusi sarebbero marginali e facilmente eliminabili senza sopprimere uno strumento che ha ridato fiato alle imprese. Secondo l’INPS (Tito Boeri) i voucher sono uno strumento utile anche se spesso è stato utilizzato in settori per i quali non era stato immaginato e il lavoro nero è rimasto elevato proprio là dove si voleva contrastarlo (collaboratori domestici e agricoltura). Si possono riformare (per esempio stabilendo tetti mensili e con una vigilanza più attenta) ma sarebbe un errore sopprimerli.

In conclusione:

  1. Dietro tanta agitazione c’è la legittima aspirazione dei disoccupati di accedere a un lavoro stabile; da qui il rifiuto di ogni forma di “precariato”. Ma la mancanza di lavoro stabile non dipende da leggi e contratti piuttosto invece dalla scarsa attrattività del sistema-Paese per nuovi investimenti produttivi. Le cause sono molte e spesso ripetute, ma si tratta di un discorso che i sindacati fingono di non capire perché molte rigidità che ostacolano gli investimenti dipendono anche da loro.
  2. Il dilemma tra più lavoro e meno diritti è deviante. L’attenuazione delle garanzie è il risultato di una crisi prodotta dalla globalizzazione nei cui confronti l’Europa e in particolare l’Italia non hanno saputo attrezzarsi in tempo; chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati non serve a nulla e si finisce per cadere nella trappola autarchica e isolazionista dei movimenti populisti.
  3. Il referendum probabilmente non si farà perché la stessa CGIL che lo ha promosso preferirà concordare alcune modifiche che le consentano di salvare la faccia chiudendo una vicenda che comincia ad essere imbarazzante. Oltre tutto essendo impossibile dimostrare che la soppressione dei voucher incrementi posti stabili di lavoro, mentre è certo che farebbe di nuovo aumentare il lavoro nero, non metterei la mano sul fuoco sull’esito referendario.
  4. Ringraziamo Dio (e il popolo italiano) che non siano passate le riforme costituzionali di Renzi che, tra le altre cose, prevedevano l’introduzione di referendum popolari propositivi; vi immaginate quali e quanti danni all’economia avrebbe prodotto le reintroduzione e l’allargamento dell’art. 18 ? Fuga all’estero delle imprese, chiusura di piccoli esercizi (al di sotto di 18 dipendenti) che non vogliono essere condannati a mantenere a vita i propri collaboratori, aumento esponenziale di lunghissime e costose controversie giudiziarie per dimostrare l’esistenza di una “giusta causa”, ecc.

Personalmente non sarei contrario a una disciplina anche severa sui licenziamenti perché sono contrario ai licenziamenti arbitrari. Prima però rivediamo seriamente i motivi di “giusta causa” e stabiliamo procedure giudiziarie rapide e inappellabili. Per come stanno oggi le cose pretendere che il rapporto di lavoro si trasformi in un matrimonio indissolubile finché pensione non sopraggiunga, mi sembra dannoso e controproducente ai fini di un aumento dell’occupazione. Introducendo un congruo indennizzo economico per i licenziamenti immotivati il “job act”rappresenta un giusto compromesso tra i diritti del lavoratore e quelli, altrettanto importanti, della responsabilità di chi dirige l’impresa anche nella scelta dei collaboratori.
A proposito: “job act” si pronuncia “giob act”. Ma quand’è che la smetteremo di usare termini inglesi anche quando non sarebbero necessari ?

 

Franco Chiarenza
12 gennaio 2017

Se c’è una cosa bella della politica è che non ci si annoia mai; molto meglio del campionato di calcio dove, comunque vadano le cose, vince sempre la Juventus. Il doppio colpo di scena Grillo – ALDE e ritorno – ne è la dimostrazione.
I fatti sono noti: su spinta di Roberto Casaleggio il leader pentastellato annuncia il divorzio dall’oltranzista nazionalista inglese Farage nel parlamento europeo e chiama elettronicamente a raccolta i decisori del movimento sulla possibilità di un’alleanza coi liberali europei dell’ALDE (in realtà già negoziata tra Beppe Grillo e Guy Verhofstadt). C’è qualche malumore nella base ma i disegni del fondatore sono imperscrutabili come quelli di Dio e quindi non si discutono: approvati col 78%. Ma – sorpresa! – chi non è d’accordo a questo punto è il gruppo parlamentare dell’ALDE nel quale pesano in maniera determinante i liberali tedeschi. Un pasticcio incomprensibile come non se ne erano visti da tempo e una seconda dimostrazione dell’incapacità e del dilettantismo politico di Grillo dopo la vicenda ancora aperta della sindaca di Roma.

Poche cose sono chiare dell’ideologia politica dei Cinque Stelle, ma tra quelle più accertate ci sono sempre state un’avversione ad ogni forma di federalismo europeo (in particolare nei confronti della moneta unica), una predilezione per la democrazia diretta rispetto al parlamentarismo liberale, un estremismo ecologico che si spinge fino alla messa in discussione di alcuni diritti individuali; tutte cose che con il liberalismo non soltanto hanno poco a che fare ma talvolta ne rappresentano l’esatto contrario.
Come possono Grillo e Casaleggio avere pensato di entrare a far parte del club (anche se un po’ decaduto) dei liberali europei? E come può Verhofstadt avere considerato possibile un matrimonio così male assortito?
Le risposte più probabili non fanno onore a nessuna delle due parti in commedia se è vero – come sembra – che nelle intenzioni dei due leader ci fosse un’alleanza tecnica fondata su uno scambio per cui i cinque stelle avrebbero appoggiato la candidatura dello statista belga alla presidenza del Parlamento europeo (per la quale Verhofstadt dovrà confrontarsi col socialista Pittella e col popolare Tajani) mentre Grillo avrebbe salvato i consistenti finanziamenti al gruppo (che avrebbe perso dopo il divorzio da Farange). Non si sa per chi dei due provare più vergogna.

Una postilla. Forse in questa vicenda mal condotta e per certi aspetti ridicola c’è – almeno per quanto riguarda il movimento cinque stelle – qualcosa di più. Sembra evidenziarsi una divaricazione sempre più avvertibile tra una linea moderata in cerca di una “normalità” politica (soprattutto nell’articolazione delle alleanze) e un’anima populista più rozza e spregiudicata che Casaleggio stenta a tenere a freno. Grillo media ma somiglia sempre di più a un prestigioso vaso di coccio tra vasi di ferro.

 

Franco Chiarenza
11 gennaio 2017

Il giovane Renzi, coerente con l’immagine che si è costruita di impavido rottamatore della vecchia politica, ha cercato la sfida a tutti i costi mettendo alla prova la composita galassia dei suoi avversari, sicuro che la sua strategia offensiva avrebbe alla fine prevalso; per questo – immagino – ha trasformato un referendum su alcune modifiche costituzionali in una chiamata plebiscitaria, senza tenere conto che proprio il referendum è il tipico strumento che consente alle opposizioni di aggregarsi senza la necessità di proporre alcunché di alternativo, uno strumento quindi da non utilizzare se non si ha la certezza di vincere.
In sostanza Renzi, al quale non mancano doti di leadership e coraggio innovativo (anche nei confronti dei riti consunti del suo partito), ha peccato di superficialità sottovalutando gli avversari. L’ha fatto una prima volta quando ha deciso, per ricompattare il proprio partito, di candidare Mattarella al Quirinale, consentendo così agli estremisti di Forza Italia di liquidare il patto del Nazareno; l’ha fatto di nuovo forzando una legge elettorale e una riforma costituzionale che andavano diversamente costruite e su cui era possibile trovare probabilmente un’intesa più ampia della maggioranza di governo. Ma in politica il metodo conta quanto e forse più della sostanza; caduta la possibilità di trovare sulle riforme un’intesa con almeno una parte dell’opposizione ha scelto lo scontro frontale ma così facendo ha spostato il dibattito dai contenuti istituzionali a una sorta di plebiscito sulla sua leadership andando inevitabilmente a fracassarsi sugli scogli referendari. Eppure la storia della nostra Costituzione, strattonata da tutte le parti, modificata spesso e male, doveva insegnargli che senza un accordo bipartisan largamente maggioritario in parlamento le riforme istituzionali finiscono per abortire (e anche quando sono approvate, soprattutto se malfatte e improvvisate come è avvenuto col titolo V, vanno incontro a un difficile assestamento costellato da contestazioni infinite). Bisognava prenderne atto: con questo parlamento il consenso di Berlusconi era imprescindibile per qualsiasi riforma strutturale, aver pensato di poterne fare a meno è stato un atto di presunzione che Renzi ha pagato caro; le volpi – diceva Craxi (riferendosi ad Andreotti) – prima o poi finiscono in pellicceria. E’ avvenuto infatti che essendo stata trasformata la consultazione in una richiesta di fiducia “coram populo” le opposizioni si sono compattate potendo contare sui tanti e diversi motivi di malumore che con i quesiti referendari nulla avevano a che fare (a cui si sono aggiunti quelli di quanti – pochi o molti che siano – hanno votato no per fermare una riforma pasticciata, incompleta e potenzialmente pericolosa). In momenti di difficoltà prudenza vuole che non si sfidi la pubblica opinione.

Tutto negativo quindi il bilancio del governo Renzi? Non direi. L’impostazione iniziale del programma di governo era corretta e le prime applicazioni, pur tra molti compromessi che ne hanno limitato l’efficacia, andavano nella direzione giusta: liberalizzare nei limiti del possibile il mercato del lavoro, introdurre nella scuola criteri meritocratici in grado di restituirle il prestigio perduto, semplificare la legislazione in materia civile e amministrativa, contenere i poteri di interdizione che negli ultimi vent’anni i sindacati e la magistratura si sono ritagliati a spese delle istituzioni politiche. In politica estera, a prescindere da qualche estrosità dell’ultimo periodo, vanno apprezzati il disimpegno da interventi non ben preparati (come in Libia), e l’energica spinta per un maggiore impegno europeo nei confronti dell’immigrazione incontrollata che mette in crisi le nostre strutture di accoglienza, anche e soprattutto cercando di modificare l’infausto trattato di Dublino. Per il resto non c’era altro da fare che attendere sperando che le elezioni in Francia, in Olanda e in Germania non ci riservino sorprese sgradite come è avvenuto per quelle americane. A proposito delle quali non bisogna dimenticare che il 2017 è anche l’anno dei primi cento giorni del nuovo presidente, essenziali come sempre per comprendere quanta parte del Trump elettorale farà parte del programma del nuovo inquilino della Casa Bianca: per ora tutto fa pensare al peggio. Un anno quindi cruciale in cui, per di più, l’Italia si troverà a svolgere compiti istituzionali internazionali rilevanti come la presidenza del G7 e l’entrata pro-tempore nel consiglio di sicurezza dell’ONU.

Ma i bilanci – si sa – vanno fatti anche tenendo conto delle partite passive; e sull’altro piatto del governo Renzi le criticità non sono poche, spesso per difficoltà oggettive talvolta per la tendenza dell’ex-presidente del consiglio a cercare consensi facili nell’immediato rinunciando a misure più efficaci (anche se meno avvertibili in prima battuta) tali da modificare in profondità gli elementi strutturali che frenano lo sviluppo. Cominciando dalla disoccupazione che continua a restare alta specialmente tra i giovani. E poiché per avere occupazione occorrono investimenti se questi non arrivano non è colpa del destino (cinico e baro) ma vuol dire semplicemente che le imprese ritengono poco conveniente avviare nuove attività in Italia. Non si tratta soltanto del costo del lavoro, certo non superiore al resto d’Europa; quel che occorre – tutti lo ripetono da anni – è da un lato la rimozione dei vincoli burocratici e delle protezioni corporative che scoraggiano le nuove iniziative, dall’altro la costruzione di infrastrutture che contribuiscano alla modernizzazione del Paese: strade, porti, aeroporti, mobilità urbana, ma anche giustizia lenta, scuole scadenti, sanità e pensioni fuori controllo, e quant’altro funziona poco e male in tutto il Paese e soprattutto nel Mezzogiorno che resta il grande malato d’Europa.
Non sarebbe stato meglio utilizzare i modesti margini di flessibilità consentiti dal gigantesco debito pubblico che ci trasciniamo da decenni per ridurre gli oneri fiscali delle imprese invece di disperderli in modo maldestro distribuendo la famosa “mancia” di 80 euro che (come era prevedibile), non ha risolto alcun problema ai beneficiari e men che meno ha prodotto significativi incrementi dei consumi? E’ completamente mancata una strategia di largo respiro mentre il ministro Padoan è apparso spesso frastornato e condizionato dalla difficoltà di mettere insieme le esigenze elettorali del premier e le compatibilità che l’Europa giustamente ci chiede.

Eccoci dunque al nuovo governo. Perchè Gentiloni ? Da un punto di vista rigorosamente costituzionale il governo Renzi, non essendo stato sfiduciato dal parlamento, avrebbe potuto restare in carica; ma hanno prevalso considerazioni politiche e la stessa credibilità di un leader che aveva esplicitamente legato ai risultati del referendum la sua permanenza alla guida del governo. La scelta di Mattarella è stata quindi corretta e nulla avrebbe giustificato sul piano istituzionale uno scioglimento anticipato delle Camere, tanto più in presenza di una vistosa carenza di regole applicabili per lo svolgimento di nuove elezioni.
Un governo fotocopia? In parte sì, e volutamente, per segnare appunto la continuità con un governo espresso dalla stessa maggioranza; ma attenzione, Paolo Gentiloni non è una fotocopia di Renzi. Proveniente da quella componente cattolica – la Margherita – che aveva contribuito nel 2007 a costituire il partito democratico sulle ceneri del vecchio partito comunista (variamente ridenominato), il discendente di quel conte Vincenzo Ottorino Gentiloni che nel lontano 1913 aveva siglato per i cattolici un’alleanza elettorale con Giolitti, sostituisce all’immagine arrembante di Renzi quella di più basso profilo di chi conosce le regole della politica e sa gestire il compromesso. E’ come se la campanella strappata bruscamente di mano a Enrico Letta nel 2015 fosse tornata al punto di partenza.
Andare ad elezioni anticipate in estate con questo governo ? E’ possibile ma non è probabile.

Il compito a cui è chiamato Gentiloni in questa fase è di completare dove possibile le riforme in cantiere e non attuate (alcune delle quali urgenti e necessarie), avviare in sordina qualche riforma costituzionale condivisa (per esempio la soppressione del CNEL e delle Province), occuparsi in maniera prioritaria di sicurezza interna e di politica estera. Affidare il ministero degli interni a Marco Minniti è apparsa una scelta opportuna che premia la competenza e l’esperienza acquisita negli ultimi anni dal ministro in materia di sicurezza; meno felice pare la sostituzione della Giannini al ministero della pubblica istruzione con Valeria Fedeli, ex-sindacalista della CGIL. Le sue prime mosse appaiono infatti tese non a migliorare la riforma della “buona scuola” (che nella sua prima attuazione ha mostrato molte criticità) ma a rovesciarne le priorità: tornano a farla da padroni i sindacati della scuola, viene rimesso in discussione un percorso di meritocrazia e di responsabilità gerarchica e ci ritroveremo a settembre col consueto balletto dei trasferimenti da nord (dove mancano gli insegnanti) a sud (dove abbondano), coi presidi delegittimati a intervenire sulle carenze didattiche degli insegnanti, con cattedre mescolate in funzione delle esigenze dei docenti e non degli allievi. Con buona pace di quanti – come me – speravano che si fosse imboccata la strada giusta per fare risalire l’Italia dagli ultimi posti nelle classifiche OCDE a un livello più compatibile con le tradizioni culturali del Paese.
Pure sui “vaucher” i sindacati preparano la loro vendetta chiedendo un referendum che non solo li sopprima ma faccia tornare in vita l’articolo 18 sui licenziamenti in una versione ancor più rigida di quella originaria (con buona pace per i nuovi investimenti), sempre in base al principio che sia meglio avere meno occupati ma garantiti al 100% piuttosto che tollerare offerte più elastiche di lavoro (subito bollate come forme di sfruttamento) anche quando possono alleviare almeno in parte la disoccupazione o quanto meno fare emergere in parte il lavoro nero. Del quale nessuno si occupa e si preoccupa: si depreca a parole, lo si tollera nei fatti (sapendo che senza il suo supporto l’economia – soprattutto in alcune aree meridionali – ne sarebbe ulteriormente danneggiata). In sostanza ci si volta dall’altra parte e si ripetono gli anatemi contro l’evasione fiscale come se il lavoro nero non ne rappresentasse una componente fondamentale. L’importante – per i sindacati – è tornare a sedersi col governo al tavolo della sala gialla di palazzo Chigi per ritrovare quel ruolo quasi istituzionale di interlocutori obbligatori che con Renzi temevano di avere perduto.

Dovremo rimpiangere Renzi?

 

Franco Chiarenza
10 gennaio 2017