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Un libro – questo di Gianna Radiconcini – quasi postumo, finito di scrivere pochi giorni prima di concludere la sua lunga attivissima esistenza. Si tratta di una straordinaria testimonianza di vita per almeno tre ragioni: la prima è certamente la singolarità del personaggio che ha attraversato un periodo di cruciali trasformazioni politiche e sociali senza mai perdere l’occasione per sentirsi partecipante attiva di quei cambiamenti. Il secondo motivo di interesse sta nel modo in cui ha vissuto la sua condizione femminile e le complicazioni familiari facendole diventare battaglie per la liberazione della donna in un contesto politico e giuridico che rendeva problematico anche alle più preparate di loro di svolgere un impegno attivo in un mondo ancora fortemente maschilista. La terza, non ultima, ragione di interesse si connette alla sua professione giornalistica che esercitò con scrupolo e passione e che le ha consentito di assistere a molti eventi epocali “in diretta”.
Gianna Radiconcini era una donna d’azione, non soltanto per avere militato dopo la guerra nel partito d’azione (seguendo poi, al momento della scissione, la scelta compiuta da Parri e da La Malfa), ma soprattutto per il suo modo di concepire la politica sempre come impegno militante al quale apportava un entusiasmo “ragazzesco” che sfiorava l’ingenuità. Il che le ha anche consentito di svolgere un ruolo di pressione sul suo partito perchè si facesse carico in sede di governo delle due grandi tematiche che l’appassionavano: la riforma del diritto di famiglia (ancora fermo alle norme fasciste del codice) e la causa dell’unità europea nella visione federalista di Altiero Spinelli di cui era stata grande ammiratrice. L’Europa del trattato di Maastricht con le sue estenuanti mediazioni che si celebravano tra Bruxelles e Strasburgo non poteva soddisfare i suoi slanci idealistici, ma ciò non le impediva di svolgere il suo lavoro di corrispondente della RAI con correttezza e serietà, sempre giustamente denunciando la scarsa attenzione che la politica italiana in quegli anni sembrava dedicare a una questione tanto importante.
Gianna Radiconcini era sempre indignata (e chi, come me, la conosceva, lo sapeva bene) contro qualcuno o qualcosa che violava i principi di moralità politica in cui si riconosceva e, di conseguenza, era poco propensa alla virtù liberale della tolleranza. Non stupisce quindi che il libro rifletta il suo carattere, che certi profili siano tagliati con l’accetta, certi fenomeni vengano interpretati in modo severo e senza attenuanti; il che nulla toglie alla straordinarietà di una testimonianza che percorre quasi un secolo, aprendosi coi ricordi della Resistenza a Roma nel 1944 andando avanti tra alti e bassi sempre in attesa che si realizzi una vera unità europea che invece non arrivava mai.
Sempre attiva fino all’ultimo ha scritto questo libro – gradevolissimo da leggere – in punta di penna, con una vena ironica che non trascende mai nel pessimismo. Lo dovrebbero leggere i più giovani (tra quei pochi che ancora lo fanno) per capire con quanta intensità si può vivere la propria esistenza quando la si considera al servizio degli altri, avendo come guida le proprie idee e la capacità di confrontarle con tutti. Per questa passione un po’ ingenua ma trascinante aveva sempre successo quando andava a parlare nelle scuole; tra ragazzi ci si intende.

Franco Chiarenza

Gianna Radiconcini: Profili a memoria. (La Lepre Edizioni – Roma 2022 – pag.222, euro 16)

Torna a farsi sentire la vena satirica di Saro Freni dopo il suo fortunato esordio (Lettere dall’Italia – 2016). Ancora una volta si tratta di ritratti disegnati per lettori stranieri che vogliano capire qualcosa di questo strano nostro Paese; un esercizio, quello di vederci con occhi a noi estranei, altre volte praticato e non sempre riuscito perchè inevitabilmente si finisce per guardarsi allo specchio, il quale, per deformato che sia, non corrisponde sempre a come davvero ci percepiscono gli altri. Premesso quindi che il libro si legge con grande piacere anche per la scrittura ironica ma sempre garbata che riflette la personalità dell’autore, rara avis in un mondo dove la volgarità sembra diventata la regola (soprattutto quando si parla di avversari), ho riscontrato qualche criticità che l’amicizia per Saro non mi consente di trascurare.
La prima riguarda la cronologia. I ritratti sono necessariamente datati (si tratta infatti di una raccolta di articoli pubblicati su un giornale svizzero) e per qualcuno di essi le novità che si sono aggiunte rendono i profili abbozzati poco adattabili agli avvenimenti successivi. Ciò vale soprattutto per la politica anche perchè in certi momenti essa ha assunto da noi tempi e modi talmente frenetici che è difficile pure per gli italiani seguirne i ritmi sconvolgenti; non fai in tempo a scrivere di un governo che pochi giorni dopo i suoi componenti sono all’opposizione, spegni il computer e li ritrovi alleati con quelli che risultavano essere i peggiori nemici, si dimentica quanto era stato detto il giorno prima o addirittura se ne rovescia il significato, persino l’abbigliamento confonde le idee, chi era in t-shirt fino a quel giorno ricompare improvvisamente in giacca e cravatta e, al contrario, compassati dilettanti del potere ingessati in un completo grigio scoprono la gioia del deshabillè. Più che un libro servirebbe un blog continuamente aggiornato.
La seconda osservazione è più seria. In alcuni articoli il mio amico Saro si incazza. Abbandona il tono ironico e disinvolto per assumerne uno diverso, più preoccupato. Lo capisco, per come stanno le cose ci sarebbe da incavolarsi tutti i giorni; ma è una mutazione che mi ha sorpreso perchè rivela un timore profondo ben diverso dal sarcasmo con cui vengono giustamente trattati certi personaggi che occupano indecorosamente la ribalta (non soltanto politica); ne risulta una satira amara e pessimistica che induce a riflettere, come dire che non è più tempo di scherzare. Il mio inossidabile ottimismo ne resta inevitabilmente compromesso e il “dover essere” sostituisce la leggerezza irridente del “come siamo”. Quando gli amici svizzeri che leggono i suoi divertenti ritratti faranno parte della NATO (ammesso che ciò avvenga davvero) si renderanno conto perchè noi ci siamo entrati sin dal 1949, pur essendo l’Atlantico piuttosto lontano dalle nostre coste. Il fatto è che gli italiani cercano sempre qualcuno o qualcosa che li protegga per poi esercitare nei suoi confronti lo sport che preferiscono (dopo il tifo calcistico): il tiro a segno della maldicenza. Ma se Freni non ha deciso di assumere la cittadinanza svizzera farà meglio a rassegnarsi e continuare con ironia a descrivere lo spettacolo messo in scena quotidianamente dai nostri connazionali; se è vero che il teatro serve a mascherare la realtà fingendola diversa, come Pirandello ci ha insegnato, bisogna riconoscere il loro talento nella recitazione. La tragedia – invisibile – si consuma dietro le quinte dove gli attori devono prendere atto che le cose che contano si decidono e si fanno altrove. Rivelando a sipario aperto le loro debolezze e le loro finzioni Saro Freni infrange la sacralità del palcoscenico. Corre voce che un “teatrante” stia facendo scomparire tutte le copie del suo libro dalle librerie; ragione di più per acquistarlo subito.

Franco Chiarenza

Saro Freni: Che figure! (Rubbettino – Soveria Mannelli 2022) – pag. 152

Il destino dell’Ucraina di Simone Attilio Bellezza (ed Scholé) – denso e circostanziato – è una descrizione dell’evoluzione dell’Ucraina verso la democrazia. La società post sovietica è la stessa descritta nella “La Russia di Putin” di Anna Politkovskaja: ex dirigenti sovietici ed ex componenti dell’organizzazione giovanile comunista che appropriandosi dei settori produttivi del Paese si trasformano in ricchi oligarchi. Violenza, clientele e corruzione ovunque, e persone da un passato dubbio fanno ricche carriere politiche, come il futuro presidente Victor Janukovic, da adolescente “criminale di quartiere con a carico rapine a mano armata e violenza privata”. “La massima camera di compensazione e direzione di questo sistema di clientele politico-economiche era il Parlamento dove sedevano gli oligarchi che si spartivano le parti più importanti del potere economico e politico”.

Il distacco dalla Russia inizia con la disgregazione dell’URSS, con le dichiarazioni di sovranità nel 1990 e poi di indipendenza da Mosca nel ‘91 e si sviluppa nei travagliati anni successivi: l’Ucraina tende verso l’Unione Europea allontanandosi da una Russia che non accetta accanto a sé modelli di evoluzioni diversi e concorrenti. Qui l’autore fa notare che “sia in russo che in ucraino l’aggettivo ‘europeo’ aveva il significato secondario di “bello, prestigioso, ricco”.

Lo sviluppo verso democrazia e libertà non è indolore: lotte politiche, manifestazioni di protesta di centinaia di migliaia di persone, brutali repressioni della polizia che nel febbraio 2014 spara sui manifestanti provocando 77 morti in soli 2 giorni con successiva fuga in Russia del presidente Janukovic e con Putin che fa subito approvare dal Parlamento l’autorizzazione a utilizzare truppe russe in Ucraina. Segue l’occupazione della Crimea da soldati russi ”anonimi” non contrastati dai soldati ucraini a cui era stato ordinato di non agire per evitare una guerra con Mosca. Successivamente un referendum in “un clima di terrore” con affluenza e opzione per la Russia ufficialmente dell’83 e del 96% mentre i dati reali, pubblicati per errore, risultavano rispettivamente del 30 e del 15 %. Successive operazioni di Mosca che facendo leva sulle popolazioni più russofone provoca/favorisce la nascita di repubbliche autonome nel sud dell’Ucraina.

La restante parte del libro arriva alla elezione di Zelenski ma non ancora all’attuale guerra, prevista ma non ancora iniziata.

Il libro è la cronografia della non facile evoluzione dell’Ucraina verso uno stile istituzionale europeo costata cara nel suo sviluppo e molto di più nella sua attuale tragica situazione non ancora conclusa ma che sta dando all’Ucraina una identità che forse non ha mai avuto, creando eroi e leggende quasi fondative dello stato; e provocando negli altri paesi europei ammirazione e solidarietà. Situazione che sta anche creando con la Russia solchi che potranno essere superati solo dopo la scomparsa delle generazioni che stanno vivendo l’attuale gratuita tragedia provocata e diretta in prima persona dall’ex KGB Putin.

È leggendo “La Russia di Putin” (Adelphi) scritto da Anna Politkovskaja nel 2004 che si capisce perché Anna Politkovskaja sia stata uccisa e quanto sia plausibile il sospetto che sia stata uccisa il 7 ottobre 2006, come regalo a Vladimir Putin, che nato il 7 ottobre 1952, quel giorno compiva il suo 54esimo compleanno.

È un libro di un coraggio estremo, il quadro di una Russia che “è il prodotto dell’Unione Sovietica”, dove la corruzione, generalizzata e gerarchizzata con in testa il suo presidente, costituisce l’organizzazione stessa dello stato; dove le ricchezze degli oligarchi sono i risultati della privatizzazione di pezzi di stato di cui si sono impossessati coloro che al momento dello sfaldamento dell’Unione Sovietica erano all’interno dello stato nelle posizioni e condizioni di farlo, persone cioè della “nomenclatura” del partito comunista. Una società dove tutto ha un prezzo, dove ogni ricchezza nasce e si mantiene pagando burocrati, polizia e tribunali. Dove le aziende che funzionano vengono spolpate, chi alza la testa viene fisicamente eliminato e gli ex soldati e ufficiali che hanno combattuto anni e anni in Cecenia, non più adatti alla vita civile e non sapendo fare altro che combattere e uccidere, si sono riciclati in killer e guardie del corpo.

Qua e là c’è un certo rimpianto per le speranze sorte con Gorbaciov e Elsin e subito cessate con l’arrivo di Putin che ha portato con sé i suoi sodali del KGB e questi a loro volta i loro colleghi e così via invadendo ogni punto nevralgico dello stato che è tornato a ritroso verso il mondo di Stalin. E in questo revanscismo Anna Politkovskaja cita anche l’aiuto avuto da Putin dal “coro di osanna” di molti dei leader politici dell’occidente. Un Putin che va avanti finché non incontra resistenza, che “tasta il terreno e sonda le reazioni e che se non ce ne sono o sono amorfe e gelatinose procede”. L’autrice però non incolpa gli altri per lo stato della Russia ma fa l’autocritica: “le nostre reazioni a quel che ha detto e fatto sono state non solo fiacche ma impaurite” mentre “il KGB rispetta solo i forti, i deboli li sbrana”.

Si parla delle guerre cecene, dei crimini di guerra, dei bombardamenti su città e villaggi, delle vendette e degli stupri lì commessi, del cinismo e della disumanità verso i civile così come vediamo ora nella guerra contro L’Ucraina. E l’esercito è un corpo assolutamente chiuso su se stesso, dove si ruba di tutto e dove ognuno esercita il proprio potere su chi è di grado inferiore anche picchiandolo. Si descrive il razzismo verso i ceceni che vivevano in Russia, perseguitati e arrestati con false prove da una polizia senza scrupoli.

Si parla in modo dettagliato anche degli attentati nel teatro Dubrovka del 2003 e nella scuola di Beslan del 2004 con il cinismo e la rozzezza degli interventi, l’uso di gas e i conseguenti massacri poi da ignorare e nascondere anche togliendo voce a sopravvissuti e parenti.

Al termine del suo libro Anna Politkovskaja si domanda perché ce l’ha tanto con Putin. La risposta – evidente – sta nel mondo che descrive e che spiega anche perché Putin ce l’ha avuta così tanto con lei che qualcuno ha ritenuto opportuno festeggiare il suo 54esimo compleanno regalandogli la vita di questa esemplare coraggiosa giornalista della Novaia Gazeta di Mosca.

Per un liberale sognare di mettere all’indice un libro è assurdo. Eppure è questa l’insana voglia che mi è venuta leggendo questo libro. Forse perché un contrasto razionale a quello che afferma non è facile. Non ho mai letto un libro più radicalmente e assolutamente materialista di questo.
Me lo consigliò anni fa uno psicologo italo-argentino con il quale ebbi una interessante conversazione, una di quelle conversazioni in treno che rimangono in genere senza seguito. Tra le altre cose si parlò della libertà dell’uomo e lui affermava che non esisteva. Ero d’accordo sul forte condizionamento che ha l’uomo, ma ovviamente non ero d’accordo sulla radicalità della sua posizione, ma prima di lasciarci gli chiesi un libro che parlasse delle sue tesi. Me lo consigliò e lo lessi anni fa; forse non come l’ho riletto ultimamente.
È sconcertante.
L’autore considera che se nel campo della scienza l’evoluzione dai tempi della Grecia è stata enorme al punto che nessuno ora ricorrerebbe alle conoscenze di allora se non per curiosità storica, nel campo della conoscenza umana siamo ancora dove eravamo. Uno scienziato di allora non capirebbe nulla della scienza moderna mentre un filosofo di quei tempi si troverebbe perfettamente a suo agio anche in questi tempi. E la ragione sta nel fatto che nei tempi antichi dietro o dentro ogni cosa, essere o fenomeno si vedeva un dio o un demone o uno spirito che la muoveva o animava, e la scienza cominciò a progredire quando si cominciò a studiarla rinunciando a vedere e cercare nelle cose demoni o dei. Ma questo non è avvenuto per l’uomo: nell’uomo esterno si va ancora in cerca di un uomo interno, di un ego o un super ego o in id che lo muove ed anima. E finché si va a caccia di quest’uomo interno non si approderà mai nulla. Per capire e conoscere l’uomo è necessario considerarne il comportamento in relazione all’ambiente naturale e sociale nel quale si è evoluto e che lo ha quindi formato dotandolo di tutto ciò che ha ed è. Darwin non vale solo per gli organismi ma anche per quello che noi erroneamente chiamiamo mente e che non esiste come entità a sé stante. È l’ambiente che punisce e premia, e quindi educa e forma: la natura punisce chi fa un salto senza guardare prima dove andrà a mettere i piedi, così come punisce chi mette le mani nei rovi spinosi senza cautela.
Finora il comportamento dell’uomo è stato visto come segno e conseguenza dei suoi sentimenti, “il mondo della mente ha rubato la scena, il comportamento non viene studiato come fatto a se stante” e le variabili che lo determinano sono state trascurate. Questo perché è difficile individuare l’influenza dell’ambiente esterno sull’uomo: questa influenza è continua e incessante ma lenta e invisibile. Diciamo che l’uomo è autonomo e indipendente solo perché non sapremmo spiegare altrimenti i suoi comportamenti. L’esistenza di questo tipo di uomo dipende dalla nostra ignoranza, ma egli perde via via il suo status di uomo autonomo e indipendente man mano che si conoscono le cause del suo comportamento. E man mano che la scienza progredisce si ha un trasferimento dei “meriti” e delle “colpe” dall’uomo all’ambiente nel quale si è sviluppato e vive. Scopo dell’analisi scientifica è di capire come la condotta di una persona sia legata alle condizioni sotto cui la specie umana si è evoluta e le condizioni sotto cui si è sviluppata la sua vita individuale.
L’ambiente esterno è stato sempre visto come oggetto di modifica da parte dell’uomo ma non come influente sul suo comportamento. E se il comportamento dell’uomo dipende dall’ambiente esterno, se vogliamo modificare l’uomo dobbiamo modificare l’ambiente nel quale si sviluppa e vive. E a questo punto sorge il problema del chi dovrebbe cambiare l’uomo, del perché e a quale fine. E quindi il problema dei valori. Cosa sono e come nascono? Come dovrebbe essere modificato “l’uomo”? Che dovrebbe però essere modificato non per avere un uomo “buono” ma per avere un uomo che si comporti bene.
E cosa sono i valori? Il bene e il male, e i loro corrispondenti, il giusto e l’ingiusto, il corretto e l’errato, il leale e l’illegale, il peccaminoso e il virtuoso sono così caratterizzati dalle conseguenze della cosa o del fatto; dal se essi nel tempo hanno corroborato (rinforzato) o danneggiato l’uomo.
E chi cerca e combatte per la libertà semplicemente combatte i limiti e i controlli intenzionali della libertà degli uomini, ma l’uomo è sempre controllato da qualcosa che gli è esterno. Eliminare un tipo di controllo significa semplicemente lasciare spazio a un altro.
Sembra che la conclusione di queste tesi sia la morte dell’uomo così come noi lo intendiamo. Dal “conosci te stesso” rivolto al singolo uomo si è passati al conosci l’uomo come specie evoluta dalla notte dei tempi, al conoscerlo senza più misteri, al sezionarlo e trattarlo come i bambini trattano i giocattoli che si muovono per vedere cosa c’è dentro distruggendoli.
La conclusione sembra sia il determinismo assoluto. Ma è un libro da leggere e dal quale c’è molto da imparare e molto su cui riflettere. Anche rifiutandolo e sognando di metterlo all’indice.

Guido Di Massimo
02/03/2021

 

Beyond Freedom & Dignity di B. F. Skinner (Hackett Publishing Company – € 24)

Una buona informazione è fondamentale per una buona democrazia: senza l’una, l’altra non può prosperare. In questo recente volumetto – I diritti dei lettori. Una proposta liberale per l’informazione in catene (Biblion Edizioni, 2020) – Enzo Marzo affronta questo inscindibile legame, riprendendo e aggiornando alcune sue precedenti riflessioni. Leggendo il libro – così come il più vecchio Le voci del padrone. Saggio sul liberalismo applicato alla servitù dei media – si capisce che padroni e catene esistono anche perché molti giornalisti trovano utile mettersi al servizio e farsi incatenare. A giudizio dell’autore, un serio rinnovamento della nostra vita nazionale “non potrà realizzarsi senza una vera resa dei conti, senza una riflessione critica di quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni, quando la gran parte della classe dirigente (non solo quella politica) ha immiserito il Paese, ha violato, addirittura irriso, le regole dello Stato di diritto, ha svuotato le istituzioni e ha fatto dilagare corruzione, evasione fiscale, egoismi. Ha inoltre depenalizzato ogni mascalzonata ed eliminato ogni sanzione effettiva, non solo in termini giuridici, ma, ciò che è più grave, nel giudizio morale e politico degli individui.” Enzo Marzo non sposa l’idea di un giornalismo notarile, fintamente neutrale. Pensa piuttosto ad un giornalismo indipendente, animato da forti idealità e da una rigorosa etica professionale. Propone uno statuto dei lettori, che ne metta al centro i legittimi interessi ad un’informazione non manipolata.
Il libro aiuta a ragionare su alcune significative questioni generali che riguardano il rapporto fra il cittadino e il potere. Vi sono infatti numerosi problemi strutturali che ostacolano la nascita di un sistema informativo valido e credibile: la vicinanza con il potere politico e talvolta la vera e propria identificazione di alcuni mezzi d’informazione con interessi di partito o di fazione; il ruolo giocato dal monopolio della Rai e poi dal duopolio tra questa e Mediaset, quella spartizione del mercato televisivo che ha consolidato gli equilibri creatisi negli anni ottanta a dispetto delle regole della concorrenza e del mercato; l’anomalia costituita dal conflitto d’interessi berlusconiano, che ha inquinato per anni la vita pubblica senza mai giungere ad una soluzione accettabile; il lungo e pervasivo condizionamento dei principali gruppi industriali italiani – pubblici e privati – su giornali che si rivolgono a una platea di lettori sempre più striminzita. A questi elementi di fondo bisogna aggiungere i problemi legati al costume civile del nostro Paese, su cui si è sedimentato un antico retaggio di servilismo e cortigianeria, conformismo di massa e ossequio verso quelli che Ernesto Rossi chiamava i padroni del vapore. Su questi tratti del nostro carattere nazionale hanno pesato e pesano anche i limiti delle nostre élite, incapaci di assumere la direzione politica del Paese fungendo da esempio e da guida, e propense invece ad assecondare gli umori peggiori e le facili demagogie mescolando cinico paternalismo, populismo plebiscitario, massimalismi di ogni sorta e astuzie curiali, nel quadro del vecchio e collaudato sovversivismo delle classi dirigenti.
Questi fattori hanno impedito – o comunque reso molto difficile – la nascita di un’opinione pubblica attenta ed esigente. “Se le masse non hanno strumenti corretti e plurimi” – scrive Marzo – “per farsi un’idea appropriata dell’agenda politica, sarà sempre più illusoria la loro trasformazione in ‘società civile’ in grado di svolgere costantemente una verifica e una valutazione dell’operato del governo e delle forze politiche che si candidano alla sua sostituzione.” Non è stato sufficiente il lavoro encomiabile di quei giornalisti che – spesso pagandone grossi prezzi – hanno dato e danno ripetute prove di autonomia e coraggio. E tuttavia le trasformazioni tecnologiche – che consentono oggi la proliferazione di nuove voci attraverso internet – aprono uno scenario molto interessante, che va guardato con grande attenzione. Esiste il rischio della cacofonia, della dispersione, dell’improvvisazione; ma anche una notevole opportunità di arricchimento culturale, fondato sulla più ampia pluralità di idee e punti di vista.
Hegel diceva che la lettura del giornale è la preghiera mattutina dell’uomo moderno. Di questa preghiera oggi molti fanno a meno, rivolgendosi altrove per ottenere notizie e commenti. Fanno bene, se questa scelta nasce dalla considerazione dei limiti dell’informazione tradizionale; fanno male, se pensano di poter trovare di meglio nella cosiddetta informazione televisiva, fatta molto spesso – al netto delle ovvie eccezioni – di urla, liti, risse da comari, slogan, propaganda, sensazionalismo, superficialità, servi sciocchi, conduttori compiacenti e fenomeni da baraccone. È molto più istruttivo – per comprendere il mondo che ci circonda – leggere un libro come quello di Enzo Marzo. Non prenderà il posto della preghiera del mattino, come la lettura del quotidiano; ma potrà costituire un ottimo e laicissimo breviario per sostituire quella della sera.

 

Saro Freni
15 febbraio 2021

Pierluigi Ciocca è un economista troppo noto perchè si debba qui ricordarne i meriti; il suo curriculum all’interno della Banca d’Italia rende sempre le sue tesi credibili e meritevoli di rispetto.
Il libro di cui parliamo è utile per diverse ragioni: la prima è di carattere storico perché l’autore ci ricorda con dati e cifre inoppugnabili le vere ragioni della nostra crisi, al di là dei tanti miti che hanno accompagnato la crescita del nostro Paese (a cominciare da quello del “piccolo è bello”, dimostrando che il piccolo che non cresce rischia di morire precocemente).
Ma la ragione più importante per la quale il “liberale qualunque”, notoriamente incompetente in materia, raccomanda la lettura di questo libro è un’altra: in esso traspare (e non è la prima volta nell’ampia produzione di Ciocca) non soltanto una riabilitazione del ruolo svolto dall’IRI – la grande conglomerata pubblica ereditata dal fascismo che dominò l’economia italiana nel dopoguerra – nella ricostruzione del Paese e nel rilancio della crescita, ma anche l’intenzione di riproporre, in forme e modalità diverse, la necessità di un intervento pubblico coordinato finalizzato alla creazione delle grandi infrastrutture (non solo sul territorio ma anche nelle articolazioni del credito e nella distribuzione delle risorse disponibili) sottraendolo alle spinte elettorali contingenti: pubblico sì ma autonomo nelle scelte, come fu appunto – almeno in parte – il sistema che si andò formando nel dopoguerra (IRI, ENI, EFIM e poi anche ENEL).
Per un liberale come me “innamorato” dell’economia di mercato e delle privatizzazioni, che in passato ha sempre deprecato l’esistenza di questi “mostri” incontrollabili attraverso i quali il potere politico esercitava un innegabile condizionamento clientelare, queste nostalgie suscitano qualche perplessità, ma inducono a riflettere senza pregiudizi.

Lo spazio di una recensione – necessariamente breve – non consente di argomentare le diverse sollecitazioni contenute nel saggio di Ciocca; ma certamente va detto, anche in considerazione della attuale situazione italiana, che l’idea di utilizzare alcune disponibilità patrimoniali dello Stato (per esempio le partecipazioni in IRI e ENEL che non hanno altra funzione al di là degli utili che distribuiscono) e la stessa Cassa depositi e prestiti, per costituire un meccanismo pubblico di sostegno, partecipato anche da capitali privati, garantito nella sua autonomia, in grado di contribuire allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, di dare impulso alla ricerca finalizzata all’innovazione (di cui il nostro sistema produttivo ha tanto bisogno), merita di essere seriamente considerata. Se davvero potesse essere realizzato nei termini proposti nel libro un meccanismo di sostegno pubblico coordinato e trasparente potrebbe svolgere un’utilissima funzione per il rilancio dell’economia italiana, oggi soffocata dalle urgenze dettate dall’emergenza o dagli appuntamenti elettorali. Non vedo in ciò nulla che non sia compatibile con le più moderne esperienze di economie di mercato (e anche di quelle antiche, come fu l’IRI ai suoi inizi). Meglio sicuramente degli interventi pubblici di rappezzo, disorganici, costosi, spesso inopportuni perché spinti da proteste sindacali che si prestano ad essere coperture di inefficienze imprenditoriali, impedendo quella necessaria funzione di “distruzione creativa” che per Schumpeter costituisce un momento essenziale della rigenerazione capitalistica (e quindi della sua vitalità). Certo, i fallimenti non devono ricadere sui lavoratori (i quali, in questi casi, vanno tutelati con adeguati e transitori strumenti assistenziali) ma non si deve consentire il ricatto sociale per mantenere in vita realtà produttive incapaci di affrontare il mercato.
Da un punto di vista liberale l’intervento pubblico si giustifica come sostegno alle imprese in crisi soltanto quando per le loro dimensioni, per l’importanza che hanno sull’intera filiera produttiva (come nel caso di Taranto) o per i riflessi di una crisi globale (come sono state quella “classica” del 1929 ma anche le altre che si sono succedute dopo il 2008) le conseguenze di un loro fallimento avrebbero comportato effetti disastrosi per l’intera economia del Paese. E poiché partecipiamo a un mercato comune con gli altri paesi europei spetta naturalmente agli organismi competenti (in particolare alla Commissione dell’Unione Europea) sincerarsi che l’eventuale “aiuto di Stato”, vietato dai trattati, abbia quei caratteri transitori ed emergenziali che lo giustificano.

Una proposta come quella abbozzata nel libro (peraltro come mera ipotesi) non poteva che venire da un economista come Ciocca, sempre controcorrente (o meglio contro alcune correnti), uno che non cerca negli eventi esterni le responsabilità della nostra difficile situazione economica, ma le attribuisce, con cifre e constatazioni difficilmente contestabili, alle nostre classi dirigenti e alle loro scelte; non soltanto alla classe politica ma anche agli imprenditori, ai sindacati, alle variegate e variopinte corporazioni che perpetuano i loro privilegi dai tempi del fascismo. Se è vero che molti nemici rappresentano una ragione d’onore (come hanno sostenuto – pare – condottieri antichi, dittatori moderni e ministri contemporanei) Ciocca sta a posto.
Tutto ciò premesso, il “liberale qualunque” (che nemico di Ciocca non è, anzi ritiene di esserne amico) si chiede: ma con la classe politica che ci ritroviamo (compresa l’opposizione), chi è in grado di garantire che un tale “meccanismo” (come tiene a definirlo Ciocca) non degeneri in qualcosa di molto diverso?

Prima di concludere voglio segnalare, tra le tante cose interessanti di cui parla il libro, due in particolare, su cui non mi soffermo ma che ritengo imperdibili per i lettori: il capitolo che analizza la centralità della Germania e la sua formula dell’economia sociale di mercato, nei suoi pregi e nei suoi (tanti) difetti, e l’altro che analizza le possibili drammatiche conseguenze di una nostra uscita dall’euro. Può darsi che nei dintorni di palazzo Chigi qualcuno si sia spinto fino alla fatica di leggerlo perché di “Italexit” non sento parlare più.

Franco Chiarenza
7 Maggio 2019

 

Pierluigi Ciocca, Tornare alla crescita, Donzelli editore (Roma 2018), pp. 209, euro 19

Il libro è un fascio di luce sul dramma, la confusione, le contraddizioni, incertezze, inconsapevolezze e comportamento dei protagonisti dei dieci giorni che vanno dal 16 luglio 1943 – quando si ebbero i primi contatti per la riunione del Gran Consiglio – al 25 luglio quando la riunione, andando oltre le finalità dei partecipanti, determinò la fine del regime fascista sigillata dall’arresto di Mussolini alle 17.30 dello stesso 25, ordinato dal re “per proteggerlo”.

Già negli ultimi anni del 1942, con le sconfitte in Africa e in Russia, si cominciò a pensare che la guerra sarebbe stata perduta. Poi, il 10 luglio 1943 c’era stato lo sbarco degli alleati in Sicilia e il 19 il bombardamento di Roma, preceduto il 17 da un lancio di manifestini firmati da Roosvelt e Churcill che incitavano gli italiani a scegliere se “morire per Mussolini e Hitler o vivere per l’Italia e la civiltà”. Per salvare l’Italia dalla catastrofe occorreva sganciarsi dalla Germania, esautorare Mussolini, restituire il comando del Paese al re e cercare una pace separata. Fin dal 1942 i militari avevano pensato di porre fine al regime eventualmente anche eliminando Mussolini, ma l’iniziativa era condizionata all’assenso del re che esitava. I rapporti sull’umore della popolazione che il capo della polizia inviava a Mussolini non lasciavano dubbi: “non hanno paura di parlare apertamente contro il regime … dicono che il DUCE non può farsi vedere in pubblico perché la gente lo lincerebbe … dappertutto si sente parlar male del DUCE …”). Era questa la situazione che Emilio Gentile presenta come premessa e sfondo alla riunione del Gran Consiglio.

La riunione del 25 luglio fu originata dalla decisione del regime di indire per il 18, in ogni capoluogo di regione, adunate di incitamento alla resistenza contro l’invasore sbarcato in Sicilia. Avrebbero dovuto parlare i principali esponenti del regime molti dei quali membri del Gran Consiglio. Da parte dei designati ci furono perplessità e resistenze per cui il segretario del partito Scorza indisse una riunione per il 16. Fu l’occasione per un conciliabolo tra gerarchi che si risolse in una richiesta della convocazione del Gran consiglio che poi ebbe inizio il 24.

La mancanza di un verbale della riunione del Gran Consiglio ha comportato la necessità di ricostruire quei giorni in base a diari, memorie, dichiarazioni, articoli, appunti e ricordi dei protagonisti; documentazioni per lo più parziali, postume, ripensate e scritte col senno di poi, inconsapevolmente inesatte o apologetiche o tendenti a giustificare la propria condotta, spesso discordanti. Emilio Gentile definisce “apocrifi d’autore” molti degli scritti dai quali, con una sorta di “calcolo combinatorio”, di accettazione delle concordanze e di eliminazione delle discordanze e di ciò che risultava implausibile, ha potuto ricostruire i dieci giorni che vanno dal 16 al 25 luglio.
Il quadro che si ricava da questo lavoro di cernita ci fa anche conoscere i protagonisti della riunione e le loro precedenti generali posizioni e atteggiamenti di obbedienza assoluta con successiva pretesa di un’indipendenza mai esistita; con qualche eccezione come quella di Bottai che da tempo era critico sull’eccessivo accentramento dei poteri su Mussolini.

L’ arresto di Mussolini fu solo anticipato rispetto a quello già deciso dal re e dai militari per qualche giorno dopo. La riunione del Gran Consiglio semplicemente lo anticipò e dette al re un “motivo legittimo” per agire.

Le tragedie del dopo il 25 luglio sono note. Dal 25 luglio si arrivò presto a quell’otto settembre che Galli della Loggia chiamò “Morte della Patria” e di cui scrisse nell’omonimo libro, e per il quale Silvio Bertoldi descrisse nei suoi libri la pochezza, inettitudine, irresponsabilità – e diremmo anche viltà – da parte di chi aveva la possibilità e il dovere di guidare l’Italia. Solo negli ultimi anni la data dell’otto settembre ha stemperato quel triste alone emotivo che la circondava: è l’effetto della progressiva scomparsa di coloro che quei giorni li vissero o “sentirono”. Ma i meno giovani quella triste data non la dimenticano. Rimane la domanda se quel che avvenne dopo il 25 luglio si poteva evitare, se si poteva uscire dalla guerra in modo dignitoso e meno tragico, se si poteva evitare lo sfascio e la disgregazione dell’esercito, se si poteva evitare Cefalonia, …

E del libro colpiscono le considerazioni e le domande che si pongono e si suggeriscono e sul se Mussolini poteva essere indotto a trattar lui un distacco dalla Germania favorendo una fine meno tragica della guerra.

Ma le cose andarono come andarono. Ormai è tutto storia, una storia amara.

 

Guido Di Massimo
17 Aprile 2019

 

Emilio Gentile, 25 Luglio 1943, Laterza (Roma-Bari 2018), pp.320, euro 18

L’ultima opera letteraria di Ernesto Paolozzi segna un ulteriore momento di allontanamento dell’autore dal liberismo – inteso come concezione liberale dell’economia – attraverso un percorso che lo studioso crociano aveva intrapreso da tempo; non a caso il libro è stato scritto a quattro mani con Luigi Vicinanza, giornalista di formazione comunista poi passato a incarichi prestigiosi nel gruppo editoriale di Repubblica.
Il saggio contiene molte annotazioni di buon senso, alcune denunce condivisibili, ripete preoccupazioni che tutta la cultura liberale (anche nella sua versione social-democratica) analizza da tempo; per andare a parare dove?
La democrazia liberale è sempre stata – sin da quando è divenuta “moderna” con Benjamin Constant – una procedura che regola i conflitti politici attraverso la mediazione di una èlite che elabora i progetti di governo su cui chiede la “fiducia” popolare. La partecipazione si esprime, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, attraverso corpi intermedi diversamente organizzati che, pur non identificandosi mai con l’intero corpo sociale, sono in grado di operare un processo di sintesi che trova nella rappresentanza il suo momento decisionale. Dare alla democrazia altri significati è sempre stato un modo di avvilire e comprimere le procedure che della democrazia sono l’indispensabile motore; quando è in buona fede è un’illusione se non illiberale quanto meno “a-liberale”. Tali procedure sono in crisi? Certamente, perché l’avvento dell’era digitale, a cominciare dai nuovi mezzi di comunicazione, impone cambiamenti profondi, perché la globalizzazione moltiplica i soggetti attivi sui mercati (facendo venir meno le posizioni di rendita dei paesi più sviluppati), perché le nuove tecnologie modificano profondamente il lavoro manifatturiero (e non soltanto); un fenomeno complesso che investe ogni aspetto della vita umana (economia, comunicazione, appartenenze religiose, idee ed ideologie, ambiente, sicurezza) nei cui confronti la politica non è stata ancora in grado di dare risposte convincenti. Anche perché a fenomeni globali non si possono dare risposte parziali.
Da qui nascono e prosperano i nuovi populismi che – come quelli vecchi che li hanno preceduti – suggeriscono soluzioni semplicistiche a problemi complessi (salvo poi non sapere come affrontarli quando giungono al potere). Il loro successo è direttamente proporzionale all’incapacità delle sinistre europee di proporre soluzioni accettabili ai loro stessi elettorati tradizionali, traditi da illusioni troppo a lungo coltivate, e impauriti da cambiamenti che, in quanto ineluttabili, vanno governati e non esorcizzati.

La domanda è: le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro sono tali da mettere in pericolo la stessa democrazia, come sembrano suggerire gli autori del saggio? Non ne sono convinto, anche se mentre è certamente condivisibile il traguardo finale (lavorare meno, lavorare tutti) non sono affatto chiare le strade da percorrere per raggiungere l’obiettivo pagando costi sociali sopportabili.
La retorica del “dover essere” non rappresenta mai una soluzione, serve tutt’al più a ricordarci le difficoltà che i sistemi liberal-democratici stanno attraversando nel contenere e indirizzare un’opinione pubblica innervosita e preoccupata, ma non assente. Non esistono scorciatoie: è all’interno della democrazia (liberale) che va cercata la soluzione; ogni altra strada conduce a derive autoritarie che senza risolvere il problema si limiterebbero ad occultarlo.
Le procedure democratiche funzionano anche quando vengono utilizzate per un rovesciamento radicale delle nostre convinzioni culturali e politiche, almeno finchè resta inalterato il patto regolativo che garantisce ogni possibile ricambio. Stiamo vivendo un momento in cui nuovi soggetti politici premiati elettoralmente da sensibilità popolari diverse dalle nostre stanno cercando di sostituire le precedenti classi dirigenti. Non ne condivido né i presupposti culturali né le modalità di governo, e men che meno le prospettive fondamentaliste a cui una parte almeno di essi sembra ispirarsi, ma in ogni caso non si può dire che la democrazia non abbia funzionato.
Essa, intesa come procedura di verifica e di sintesi della volontà popolare, non ha alternative in Occidente; può perfezionarsi, cambiare le classi dirigenti, ma la possibilità che il disagio sociale possa innescare processi autoritari simili a quelli che generarono i regimi totalitari tra le due guerre mondiale mi pare per fortuna remoto.
Prima o poi la maggioranza dei cittadini elettori si renderà conto che la strada da percorrere non è quella che conduce a chiudersi dentro la fortezza in cui molti cercano salvezza dalle proprie paure, all’interno dei propri confini (non soltanto territoriali ma anche culturali e sociali), ma piuttosto la capacità di riprendere quel filo dei rapporti multilaterali che l’Occidente a guida americana aveva faticosamente dipanato dopo la seconda guerra mondiale e che la vittoria di Trump ha spezzato spingendo gli egoismi nazionali a una guerra di tutti contro tutti. Non si possono contrastare gli effetti della globalizzazione più di tanto; ma è possibile immaginare interventi coordinati che senza comprimere i vantaggi dei processi spontanei indotti dalla rete interattiva e intermodale degli scambi (economici, sociali e culturali) riescano a contrastarne gli effetti negativi che essa produce (per esempio – per restare al tema di fondo del libro – sulle distorsioni del mercato del lavoro che producono il dumping sociale).
C’è un passaggio del libro in cui si afferma che della democrazia il mercato globalizzato può fare a meno. Non ne sono affatto convinto: senza il “rule of law”, senza la certezza del diritto, il mercato non funziona e genera mostri incontrollabili destinati a trasformarsi o ad implodere, ed è proprio questo il punto debole della crescita cinese (di cui peraltro parleremo magari in un’altra occasione).

 

Franco Chiarenza
9 marzo 2019

 

Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza – Diseguali: il lato oscuro del lavoro – Guida editori (Napoli 2018) – pag. 133, euro 12.

E’ il sottotitolo di un libro di Piero Tony, magistrato in pensione, pubblicato nel 2015 da un “editore di sinistra” (Giulio Einaudi). Ed è un impietoso atto d’accusa contro le distorsioni del sistema giudiziario di cui la sinistra italiana porta una rilevante quota di responsabilità.
Quando dico “sinistra” non intendo soltanto quella politica, ormai spesso tale più per tradizione storica che per un’effettiva visione sociale alternativa, ma piuttosto quella sinistra pedagogica e moralista che è maggioranza negli ambienti intellettuali che contano lungo l’asse che da Milano si spinge fino a Roma e a Napoli ma che è invece minoranza quasi sempre nel Paese.
Essa ha utilizzato la magistratura, in larga parte condizionata dagli stessi presupposti culturali e politici, per “raddrizzare” il Paese attribuendole una funzione sostanziale di governo che in Parlamento non riusciva a svolgere; il pensiero corre naturalmente a “mani pulite” ma non soltanto di questo si tratta, ma di una lunga e ininterrotta serie di interventi che gradualmente hanno trasformato l’Italia in una repubblica giudiziaria (come molti osservatori stranieri – a cominciare dall’Economist – non hanno mancato di rilevare).
I liberali – se sono davvero tali – non sono moralisti, non utilizzano la questione morale come strumento demagogico per conseguire obiettivi di potere. Se quindi le finalità di miglioramento della società fossero raggiunte attraverso mezzi istituzionalmente non ortodossi Machiavelli ci ricorda che sono i risultati che contano; anche se – come invece ci ha insegnato Erasmo – bisogna fare attenzione perché i mezzi utilizzati non sono indifferenti rispetto agli obiettivi che si intendono conseguire e finiscono per assumere una funzione che trascende le finalità di chi li ha utilizzati.
Per restare al nostro libro, se davvero una giustizia di parte avesse ottenuto il risultato di rendere migliore il Paese, al di là di ogni formalità istituzionale, si potrebbe anche convenire sulla sua necessità; ma è stato davvero così? E’ quel che si domanda Piero Tony in questo pamphlet forse troppo leggero per la quantità di problemi che solleva, ma molto utile come atto di denuncia e come testimonianza di una coscienza che ha il coraggio di interrogarsi pubblicamente.

Il libro contiene pagine da ricordare come quelle sulla responsabilità civile dei giudici (sancita da un referendum ma sempre boicottata dai magistrati), sull’abuso delle intercettazioni telefoniche, sui rischi di una interpretazione estensiva della discrezionalità, sui dubbi che solleva certa legislazione ambigua come quella che riguarda il concorso associativo, e infine sulle modalità scandalose che caratterizzano in Italia il funzionamento del sistema penitenziario.
Il libro di Tony ha il pregio di concludersi con alcune proposte concrete che andrebbero prese molto sul serio; sarebbe forse il momento che magistrati preparati e consapevoli che hanno ormai lasciato la carriera, per limiti di età o per scelte diverse, costituiscano un’associazione che proprio per essere al di fuori di qualsivoglia gioco di potere sia in grado di rappresentare un organo di consulenza utile al governo, al parlamento e soprattutto a una pubblica opinione sempre più sconcertata.

 

Franco Chiarenza
17 dicembre 2017

 

Piero Tony – Io non posso tacere – (Giulio Einaudi, Torino 2015) – pag. 125, euro 16