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Del risultato delle elezioni in Catalogna – tanto atteso dopo le vicissitudini del tentativo di indipendenza unilaterale – si può dire quel che si vuole ma una cosa è certa: la Catalogna è spaccata in due sull’ipotesi di staccarsi dalla Spagna, e con una risicata maggioranza di poco più del 50% non è possibile sostenere che quasi tutti i catalani siano favorevoli all’indipendenza.
Al di là di un orgoglio campanilistico che affonda le sue radici in motivazioni culturali e storiche di tutto rispetto appare sempre più evidente – soprattutto agli abitanti di Barcellona – quanto sia sproporzionato il costo da pagare sia in termini economici che dal punto di vista politico rispetto a una secessione che comporterebbe molti più problemi di quanti ne dovrebbe risolvere e che, oltretutto, non aggiungerebbe granché ai poteri assai ampi di cui già gode la regione autonoma. La strada dell’indipendenza dunque, anche considerando l’atteggiamento duro della magistratura che riflette lo stato d’animo dell’opinione pubblica spagnola assai ostile nei confronti degli indipendentisti catalani, pare non più percorribile.
Ciò però non significa che una trattativa non possa aprirsi – soprattutto se al governo catalano parteciperanno gli unionisti – e che da essa possa scaturire un’ulteriore estensione dell’autonomia che potrebbe essere oggetto di un referendum condiviso che metta la parola fine a una controversia che danneggia la Spagna, ma anche l’Europa e la stessa Catalogna.
Il monito che ne deriva all’Europa – dove convivono da sempre tante “piccole patrie” – è evidente: i confini nazionali sono intangibili così come ce li ha consegnati la seconda guerra mondiale. I problemi delle diversità culturali o linguistiche – anche dove sono più che fondati, come in Catalogna, nei Paesi Baschi, in Corsica, in Alto Adige, in Istria, in Kossovo, in Bosnia – si risolvono con la concessione di ampie autonomie che l’Unione Europea dovrebbe promuovere e proteggere.
Non è un caso che anche i secessionisti di queste regioni non abbiano mai messo in discussione la partecipazione alla costruzione europea; una ragione di più per rafforzare l’unione politica dell’Europa appena le vicende elettorali tedesche e italiane lo consentiranno.

 

Franco Chiarenza
22 dicembre 2017

La questione di Gerusalemme ha sempre rappresentato – più ancora di quella del rientro dei profughi – l’impedimento maggiore a un accordo tra israeliani e palestinesi per mettere fine a un conflitto che si protrae ormai da settant’anni. Problema difficile da risolvere perché in esso, avvolti in una miscela inestricabile, si riproducono questioni religiose e di identità nazionale che vengono da lontano, da una storia millenaria che ha fatto della “città santa” il simbolo irrinunciabile di religioni che, pur avendo una comune origine, si sono combattute fino allo sterminio.
Quando l’ONU nel 1948 riconobbe, in base a un piano di spartizione elaborato l’anno precedente, l’esistenza dello Stato d’Israele, la risoluzione prevedeva per Gerusalemme uno statuto speciale garantito dalle stesse Nazioni Unite che tenesse conto dell’importanza fondamentale che la città aveva per le diverse tradizioni religiose, in modo che ebrei, cristiani e musulmani potessero convivervi senza sentirsi stranieri.
Dopo la guerra che seguì la mancata accettazione della risoluzione da parte dei paesi arabi Gerusalemme restò, al termine del conflitto, divisa a metà tra Israele e la Giordania; la situazione si aggravò nel 1967 quando nella seconda guerra tra arabi e israeliani i giordani furono sconfitti e l’intera città cadde nel regime di occupazione israeliano. Nel 1980 Gerusalemme fu proclamata da Israele capitale dello Stato, ma quasi tutti i paesi (compresi quelli occidentali più vicini alle ragioni di Israele) non riconobbero tale dichiarazione unilaterale per il suo evidente carattere destabilizzante in vista delle trattative che avrebbero dovuto suggellare la pace, e pertanto mantennero le loro ambasciate a Tel Aviv che aveva egregiamente svolto le funzioni di capitale fino a quel momento. Nel frattempo tuttavia Israele, proseguendo nella politica dei fatti compiuti, come nel caso degli insediamenti illegali nei territori occupati, costruiva a Gerusalemme nuovi quartieri interamente abitati da ebrei modificando strutturalmente la composizione etnica della città. Ciò nonostante gli occidentali – Stati Uniti in testa – avevano sempre mantenuto fino ad oggi una posizione molto netta perché lo status definitivo di Gerusalemme facesse parte integrante degli accordi di pace, anche se gli opposti estremismi delle parti in conflitto li rendevano sempre più lontani. In tale delicato contesto la decisione di Trump di infrangere questo precario equilibrio assomiglia all’irruzione di un elefante in un negozio di cristalleria e non poteva che suscitare le reazioni che conosciamo e che sembrano isolare, una volta di più, l’America di Trump dagli altri paesi non soltanto arabi, ma anche da quelli ad essa alleati.

Ma c’è un’altra tesi che prende le mosse dal fatto che la dichiarazione di Trump non accenna a una modifica dei confini e non esclude una soluzione del problema palestinese basata sul principio dei “due stati”. Secondo i suoi sostenitori Trump avrebbe semplicemente “rovesciato il tavolo” per uscire dalle sabbie mobili in cui si erano impantanate le trattative di pace; una manovra spericolata che potrebbe consentire agli Stati Uniti – una volta pagato il prezzo di Gerusalemme agli israeliani – di riprendere l’iniziativa per imporre il ritiro degli insediamenti ebraici illegali nei territori occupati e dar vita finalmente a uno stato indipendente palestinese. Ma tanta astuzia diplomatica è difficilmente attribuibile a un personaggio come il presidente americano, molto più interessato a dimostrare al suo elettorato la coerenza delle sue azioni con le promesse preelettorali piuttosto che a valutare gli effetti internazionali del suo operato.
Oltretutto, giunta in un momento in cui la Russia si propone come il solo interlocutore valido per risolvere i problemi medio-orientali, la decisione di Trump mette in discussione equilibri che vanno ben oltre la questione di Gerusalemme, anche considerando i cambiamenti che si stanno producendo nei paesi arabi dopo la sconfitta dell’ISIS, a cominciare dal Kurdistan e dall’Arabia Saudita. Come sempre Trump sacrifica qualsiasi considerazione di ruolo internazionale alla preoccupazione di recuperare consenso all’interno del Paese e credo che anche questa improvvisa decisione unilaterale su Gerusalemme sia stata ispirata soprattutto all’esigenza di consolidare i rapporti con la potente comunità ebraica americana.

Da un punto di vista liberale – che è quello che a noi interessa – la questione di Gerusalemme, come quella palestinese in generale, al di là della simpatia per uno stato che rispetta le forme della democrazia e garantisce i diritti politici fondamentali al suo interno, non può trovare soluzione fondandosi sulle pretese del soggetto più forte e la negazione delle ragioni altrui. Gerusalemme è effettivamente una città simbolo non soltanto per gli ebrei ma anche per i cristiani e per i musulmani; oltre alle vestigia del tempio giudaico distrutto dai romani (il cosiddetto “muro del pianto”) vi si trovano il sepolcro di Gesù Cristo e le più antiche moschee musulmane. Essa è passata di mano innumerevoli volte dai romani ai bizantini, dai crociati agli arabi, fino alla lunga dominazione turca, ma in effetti bisogna risalire al primo secolo dell’era cristiana – prima della sua distruzione da parte dell’imperatore Tito – per considerarla capitale riconosciuta del popolo ebraico. Certamente essa è rimasta centrale nella tradizione giudaica ma anche in quella cristiana (basti pensare alle sette crociate per strapparla agli arabi) e in quella maomettana per essere stata per secoli considerata la terza città santa dell’Islam dalla quale Maometto ascese al Cielo.
La soluzione più equilibrata e rispettosa dei diritti umani sarebbe quindi quella già delineata dall’ONU nel 1948: uno statuto internazionale e interreligioso almeno per il centro storico e l’attribuzione di Gerusalemme Ovest allo Stato di Israele e di Gerusalemme Est allo stato palestinese. Creare un fatto compiuto fondato sulla prepotenza, come vorrebbero Trump e Netanyahu, non soltanto non risolve il problema ma complica la ricerca di una soluzione condivisa.

 

Franco Chiarenza
12 dicembre 2017

Al di là della comprensibile preoccupazione per i giochi missilistici del padre padrone della Corea del Nord condivisa da ogni persona ragionevole ho l’impressione che l’immagine prevalente in Occidente di un bambino incosciente che gioca con i fiammiferi e che basti un intervento un po’ rude del papà cinese per rimettere le cose a posto (che sembra anche la convinzione di Trump) sia poco convincente.

Alcune domande
Alcune domande si pongono ineluttabilmente: 1) come ha fatto un piccolo paese poverissimo alle prese pochi anni fa con carestie catastrofiche a cui hanno dovuto far fronte aiuti internazionali (anche occidentali) a mettere in piedi non la fabbricazione di una bomba atomica (ormai alla portata di qualunque paese che abbia voglia di investirvi le risorse necessarie) ma la costruzione e il lancio di missili balistici intercontinentali tecnologicamente avanzati e tali da minacciare addirittura lo stesso territorio nord-americano? 2) quali sono le reali finalità di questa ostentata provocazione? Affermare lo “status” di potenza nucleare? E a quale scopo? Difendersi da un’invasione americana è una risposta propagandistica che non ha alcun fondamento perché la sopravvivenza della Corea del nord dipende esclusivamente dalla garanzia cinese (così come quella della Corea del sud non potrebbe rinunciare alla protezione americana).
Cui prodest, a chi giova in realtà tutto questo?

Guardare lontano
La risposta a queste domande non è facile. In apparenza tutto sembra confermare che si tratti dei giochi pericolosi di un dittatore megalomane: la Cina, almeno a parole, prende le debite distanze e accetta le sanzioni decretate dall’ONU contro la Corea del nord, la Russia non sembra particolarmente interessata (almeno per ora), non si vede chi altro voglia aiutare un regime ormai contestato anche dai fratelli e cugini ancora formalmente comunisti, né si comprende quali reali vantaggi verrebbero a Kim Jong-un dal far parte del cosiddetto “club nucleare” (nel quale vi sono paesi come il Pakistan senza che ciò incida significativamente sul loro ruolo internazionale).
Proviamo però a guardare lontano cercando di indovinare le mosse della grande partita a scacchi che si gioca sul futuro in Estremo Oriente (e da lì nel mondo intero). L’obiettivo della Cina, una volta accettato il sistema capitalistico fino a farsene paladina contro il neo-protezionismo di Trump, come è avvenuto al recente vertice dei paesi del Pacifico a Da Nang, è quello di eliminare l’influenza americana e di assumere la leadership dell’intero scacchiere. Per far questo occorre indebolire il Giappone e minarne la stretta alleanza con gli Stati Uniti, impedire la riunificazione della Corea sul modello filo-americano di Seul, riannettersi Taiwan secondo le regole imposte a Hong Kong. A quel punto il gigante cinese potrebbe giocare la partita ad armi pari con i paesi del Sud Est asiatico (india, Pakistan, Indonesia) isolando sostanzialmente le nazioni eredi della tradizione britannica (Australia e Nuova Zelanda) difficilmente assimilabili ma ridotte in termini geo-politici all’impotenza.
La politica non si fa con la fantapolitica, potrebbe obiettare qualcuno. Anche perché se c’è davvero un burattinaio che tira i fili senza esporsi non può ignorare i rischi di una recita così provocatoria. Ma in realtà gli americani, al di là di un probabile riarmo del Giappone e della Corea del sud (su cui qualche apprensione sarebbe giustificata), poco possono fare: non certo una reazione nucleare sproporzionata e con pesanti coinvolgimenti della popolazione civile, e nemmeno un intervento militare di tipo tradizionale perché la Cina non potrebbe mai consentirlo. Dimostrare che gli Stati Uniti sono soltanto una “tigre di carta” (come già ebbe ad affermare Mao Ze Dong tanti anni fa) avrebbe un significato da non sottovalutare soprattutto in Oriente dove l’immagine conta talvolta più della sostanza. Le reazioni scomposte di Trump servono soltanto ad amplificarne il senso di impotenza (“se stanno mettendotelo nel didietro – recita un proverbio esplicito nella sua volgarità – meglio stare fermi; agitarsi non risolve il problema e aumenta il dolore”). Chiedere aiuto alla Cina, se è vera la mia ipotesi, è solo un’ingenuità. E’ certo invece che un indebolimento americano, anche soltanto di immagine, non può che giovare alla Cina. D’altronde la presidenza di Trump, confusa, velleitaria, ma orientata in maniera ormai evidente ad abbandonare le ragioni morali e di principio su cui gli Stati Uniti dopo la guerra avevano fondato la loro egemonia – culturale prima che politica, militare ed economica – sembra avere accettato una riduzione anche drastica del suo ruolo in Estremo Oriente, e ciò non può che avere incoraggiato il dittatore nord-coreano e i suoi eventuali occulti protettori.

Fantasie? Come diceva l’ineffabile Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.

Franco Chiarenza
30 novembre 2017

L’opinione pubblica italiana (me compreso) che aveva accolto con soddisfazione le esplicite aperture europeiste del nuovo presidente francese è rimasta senza parole. La tanto temuta Marine Le Pen non avrebbe potuto fare peggio: prima l’inutile sgambetto all’Italia convocando a Parigi i duellanti libici che si sono lasciati con un accordo sulla carta da attuarsi in primavera dell’anno prossimo e di difficilissima realizzazione, poi la nazionalizzazione dei cantieri navali di Saint Nazaire dopo che la Fincantieri ne aveva acquisito l’anno scorso il 67% delle azioni dal fallimento della sudcoreana STX (la quale le aveva comprate molti anni prima senza alcuna opposizione da parte del governo francese). Una nazionalizzazione che sarebbe stata più comprensibile se l’acquirente non fosse stato un partner europeo, ma che si tinge in questo caso di un protezionismo nazionalista in antitesi non soltanto alle dichiarazioni d’intenti di Macron ma anche alla politica di apertura ai capitali europei (e soprattutto francesi) che l’Italia ha perseguito nell’ultimo decennio.
Anche il brutale respingimento di poche decine di immigrati che avevano varcato il confine a Ventimiglia rientra in questo quadro di malcelata ostilità verso l’Italia di cui non si comprendono le ragioni rappresentando esso una vera e propria retromarcia rispetto alla carta d’identità che il presidente francese aveva esibito prima di essere eletto e che oltretutto rischia di provocare effetti collaterali di lunga durata anche per le future strategie europee. Se infatti tra la fine dell’anno e l’inizio del 2018 dovesse davvero avviarsi un processo di unificazione tra i paesi del “nocciolo duro” dell’Europa con cessioni di sovranità in campo militare e di coordinamento finanziario, attizzare un clima nazionalistico d’antan appare controproducente e porta acqua al mulino degli oppositori del progetto.

En attendant
E’ ancora presto per trarre da queste prime mosse maldestre conclusioni definitive sulla capacità di Macron di rappresentare una leadership di dimensioni europee; non sempre è vero (almeno in politica) che la giornata si vede dal mattino.
Il governo Gentiloni ha reagito bene: mentre i rispettivi ministri si scambiavano battute al vetriolo, il presidente del consiglio e il ministro dell’Economia, pur non nascondendo il fastidio e la delusione, si sono mantenuti su una prudente posizione di attesa; a loro spetterà in sostanza l’ultima parola se si cercherà un’intesa al massimo livello. La Commissione Europea, che pure in materia avrebbe qualcosa da dire, per ora tace; il segretario del partito democratico invece purtroppo parla cercando di mettersi in competizione nazional-demagogica con il governo francese minacciando la nazionalizzazione di Telecom (di cui virtualmente la francese Vivendi ha ormai assunto il controllo). Ancora una volta invadendo le competenze del governo e mettendo in difficoltà Gentiloni. Ma la politica non è una partita di “monopoli”; qualcuno dovrebbe spiegarlo al “segretario fiorentino” il quale potrebbe forse utilmente rileggere gli insegnamenti del suo lontano predecessore che si chiamava Machiavelli.

Intanto però la vecchia Unione burocratizzata e accusata di inefficienza e incapacità di rappresentare gli autentici valori europei si muove mettendo in discussione l’evoluzione giuridica e costituzionale della Polonia e dell’Ungheria, sempre più tentate ad avvicinarsi al modello di “democrazia autoritaria” di Putin, e insistendo per la ricollocazione dei profughi che affollano l’Italia e la Grecia. Anche con la Gran Bretagna le trattative continuano e la Commissione di Bruxelles non sembra voler lasciare spazio a iniziative bilaterali. La Corte di giustizia, da parte sua, nel respingere interpretazioni forzate della convenzione di Dublino ribadisce tuttavia che i cambiamenti, quando si rendono necessari, si fanno modificando i trattati non cercando di aggirarli; una conclusione che, se in apparenza mette in difficoltà l’Italia, in prospettiva potrebbe rafforzarne la posizione negoziale all’interno dell’Europa.

 

Franco Chiarenza
31 luglio 2017

La cosiddetta “roulette russa” è, come è noto, un tragico gioco che consiste nello spararsi alla tempia con una pistola a tamburo a sei colpi e un solo proiettile; se si è sfortunati e parte il colpo è la fine. L’elezione di Trump presentava per i repubblicani rischi analoghi; bisognava solo capire delle tante vulnerabilità del nuovo presidente quale sarebbe esplosa prima: l’imprevedibilità del personaggio, il suo “entourage” (anche familiare), le posizioni ambigue e contraddittorie che avevano caratterizzato la sua campagna elettorale, l’ostilità dei mezzi di informazione in un paese dove la stampa indipendente ha sempre esercitato un forte controllo sul potere esecutivo non lasciavano molti margini. Ma il colpo è partito dove meno era prevedibile, il cosiddetto “Russiagate”.

La guerriglia fredda
Il fatto che il governo russo avesse influito sulle elezioni presidenziali sviluppando un sistema di fakenews in grado di delegittimare la candidata democratica era stato inizialmente percepito come possibile, anche fastidioso, ma non determinante. Ma gli sviluppi delle inchieste che si sono susseguite sugli stretti rapporti tra alcuni collaboratori di Trump e personaggi dell’amministrazione russa sono andate a toccare un nervo sempre scoperto dell’opinione pubblica americana, quello di contenere le pretese egemoniche del Cremlino in Europa e in Oriente; una “guerriglia fredda” che ha continuato a trascinarsi dopo la fine del sistema sovietico e che ha trovato nuovo alimento nell’arbitraria annessione della Crimea e nei tentativi di limitare la sovranità dell’Ucraina. Se davvero la Russia ha aiutato Trump (anche finanziando alcuni suoi collaboratori) quale sarebbe stato il prezzo da pagare?
Trump aveva ingenuamente pensato, mal consigliato forse da Bannon, che gli Stati Uniti avrebbero potuto facilmente ritirarsi dal ruolo di “gendarme della democrazia” nel mondo praticando una politica di spartizione delle rispettive egemonie con la Russia. Ciò avrebbe permesso a Trump di realizzare quel sogno isolazionistico che dovrebbe consentire all’America di “fare da sé” risolvendo tutti i problemi economici attraverso politiche protezionistiche variamente calibrate. A Putin, che dalla globalizzazione ha tutto da temere, una linea politica siffatta sarebbe andata benissimo, anche perché lasciando scoperta un’Europa debole e divisa riapriva le possibilità di creare un’egemonia sul Vecchio Continente o almeno su una parte di esso.
Ma questa strategia, al di là di ogni valutazione ideologica, presentava due incognite che non hanno tardato a manifestarsi: l’ostilità di una larga parte dei repubblicani eredi dell’antica politica kissingeriana del contenimento della potenza russa, e la nuova realtà della Cina la quale, forte di uno sviluppo capitalistico senza precedenti, al contrario della Russia ha puntato tutte le sue carte sulla globalizzazione. C’erano poi, nella strategia di Trump, altri effetti collaterali che non avrebbero mancato di fare sentire la loro influenza: i rapporti col Giappone, le reazioni europee, le divergenze col Canadà (oltrechè naturalmente col Messico).

Il birillo
E’ cominciata allora la continua oscillazione del presidente dilettante. Il rapporto preferenziale con Putin si è rotto e il Congresso lo ha obbligato a firmare l’inasprimento delle sanzioni alla Russia, la tanto disprezzata Europa è stata improvvisamente richiamata alla sua funzione di partnership all’interno dell’alleanza atlantica, la politica prudente di Obama in Medio Oriente è stata sostituita da un interventismo che ricorda i precedenti di Bush in Iraq, i componenti del suo staff salgono e scendono senza una chiara direttiva strategica, il segretario di Stato Tillerson sembra muoversi in totale autonomia, e perfino sulla revoca della contestata riforma sanitaria promossa dai democratici non si è trovato un accordo e l’Obamacare potrebbe restare in funzione ancora a lungo.
Quanto Trump riuscirà a resistere in queste condizioni è difficile prevedere; ma potrebbe arrivare prima del previsto il giorno in cui, ripetendo la celebre frase di Cicerone, qualcuno si leverà nel Campidoglio americano domandando: quousque tandem abutere, Donald, patientia nostra?

 

Franco Chiarenza
25 luglio 2017

Le elezioni politiche in Gran Bretagna hanno prodotto un risultato opposto a quanto aveva previsto e sperato il primo ministro May al momento di sciogliere la Camera dei Comuni. I giovani hanno votato in massa per il partito laburista consentendo al suo discusso leader Jeremy Corbyn di riemergere proprio quando la sua leadership pareva a rischio dopo le incertezze che avevano accompagnato il referendum sulla Brexit. Theresa May dal canto suo si ritrova senza una chiara maggioranza in parlamento e di fronte a una probabile resa dei conti all’interno del partito conservatore. Tutto ciò alla vigilia dell’apertura ufficiale delle trattative con l’Unione Europea per negoziare tempi e modi dell’uscita della Gran Bretagna.

Perché May ha voluto le elezioni
Contrariamente a quel che molti pensano la sconfitta della May non rappresenta una vittoria degli europeisti e men che meno un compito facile per i negoziatori dell’Unione. Vero è che probabilmente molti di coloro che hanno votato contro i conservatori lo hanno fatto anche per un tardivo pentimento nei confronti di un’uscita che si prospetta sempre più traumatica. Ma è anche cosa nota che la debolezza induce a comportamenti intransigenti proprio per far fronte agli inevitabili contraccolpi che potrebbero derivarne nell’opinione pubblica del proprio paese.
Se è vero – come pare – che la May sperava in un’ampia maggioranza per consentirle di gestire la trattativa con una sorta di mandato in bianco, ciò non serviva a strappare concessioni all’Unione ma piuttosto a far digerire i bocconi amari che vasti settori dell’economia, della finanza, e delle protezioni sociali inglesi dovranno trangugiare. La posizione forte era necessaria per ragioni di politica interna non per modificare i termini di un accordo che comunque si prospetta difficile soprattutto per la Gran Bretagna.

Cosa succederà adesso
La situazione si presenta adesso molto ingarbugliata. Se Theresa May formerà una maggioranza con gli estremisti protestanti dell’Ulster, le reazioni in Irlanda saranno durissime. Dopo la lunga guerra civile tra cattolici e protestanti l’Irlanda aveva vissuto negli ultimi anni un periodo di pace e di prosperità anche grazie all’Unione Europea che aveva consentito l’abbattimento delle barriere tra l’Eire e l’Irlanda del Nord; non a caso gli irlandesi del nord avevano votato a grande maggioranza per la permanenza nell’Unione Europea). Ricreare ostacoli alla libera circolazione delle persone e delle merci ricondurrebbe il processo di pacificazione (e di potenziale unificazione) al punto di partenza e complicherebbe ulteriormente la trattativa tra Bruxelles e Londra.
A questo punto un cambiamento alla testa del governo britannico non è improbabile. Senza il fardello degli errori (anche di comunicazione) compiuti dalla May e con una maggioranza transitoria che preluda a nuove elezioni, sarebbe possibile forse per la Gran Bretagna presentarsi al tavolo con le mani più libere di quanto non siano quelle dell’attuale premier.

Franco Chiarenza
15 giugno 2017

Taormina potrebbe passare alla storia per avere ospitato un vertice delle sette maggiori potenze industriali dell’Occidente che ha segnato l’inizio della fine dell’alleanza euro-americana, almeno nei modi in cui essa si è realizzata a partire dalla seconda guerra mondiale. Naturalmente tutto si svolgerà in tempi e modalità ancora da definire e non senza difficoltà per le resistenze che comunque la nuova politica produrrà anche all’interno degli Stati Uniti e dello stesso partito del presidente Trump. Ma che comunque qualcosa si sia spezzato per sempre non è soltanto una sensazione.

L’alleanza atlantica
Prima di Taormina il presidente americano ha compiuto due visite significative: a Roma in Vaticano per incontrare papa Francesco, a Bruxelles per partecipare al vertice dell’Alleanza Atlantica. Le due tappe servivano a chiudere (almeno nelle intenzioni di Trump) due fronti che rischiavano di creargli problemi in America, dove le difficoltà che sta incontrando sono già fortissime; il primo col mondo cattolico che, dopo essere rimasto sostanzialmente neutrale nella campagna elettorale, sembrava non avere gradito alcune arroganti contrapposizioni della nuova amministrazione. Il secondo per rassicurare l’opinione pubblica del suo Paese sulla vigilanza anti-russa in un momento in cui proprio su tale questione il suo staff è sotto tiro; le riserve sulla NATO si sono quindi ridotte a una richiesta di maggiore partecipazione finanziaria agli oneri che il suo apparato militare comporta.
Ma in realtà anche l’alleanza atlantica potrebbe restare compromessa dalla nuova politica americana non tanto per le intenzioni riduttive di Trump quanto perché, a fronte della Brexit e del neo-isolazionismo USA, la Germania sarà certamente tentata di rilanciare un riarmo europeo continentale su cui troverebbe orecchie attente nella Francia di Macron.

Il commercio internazionale
Il terreno su cui Trump troverà le maggiori difficoltà è la contestazione di ogni forma di multilateralismo commerciale che mette in crisi un aspetto fondamentale della globalizzazione. Negli Stati Uniti il mondo della finanza e l’industria tecnologica d’avanguardia non nascondono le loro perplessità le quali non mancano di riflettersi sul partito repubblicano e quindi sul governo.
A Taormina infatti qualche segnale di ripensamento è emerso, anche se la linea di tendenza isolazionista su cui Trump ha fondato la sua popolarità non potrà essere facilmente ribaltata. Questo è il punto più dolente su cui tutte le potenze dentro il G7 e fuori di esso (Cina e India soprattutto) sono in stand by in attesa di riorientare le proprie politiche economiche; anche se gli Stati Uniti costituiscono il mercato di consumo più grande del mondo il rifiuto di regolamentazioni internazionali potrebbe comportare una moltiplicazioni di guerre commerciali che si ripercuoterebbe sugli investimenti e sugli assetti finanziari fino ad oggi controllati in gran parte dagli Stati Uniti.

Il clima
I media europei hanno insistito molto nel rilevare l’isolamento in cui si è trovato Trump sul problema degli accordi di riduzione delle emissioni inquinanti. Ma il problema è in realtà più apparente che reale: si tratta di un debito elettorale che il presidente americano ha voluto onorare nei confronti dei minatori. Ma tutti sanno che le miniere di carbone sono in crisi per ragioni che prescindono dall’inquinamento, a cominciare dalla concorrenza delle scisti bituminose che lo stesso Trump intende favorire, e per terminare coi progressi dell’automazione nell’attività di estrazione che – a dire degli stessi imprenditori – ridurranno ulteriormente i posti di lavoro nelle miniere. Quando anche Trump si renderà conto del grande business rappresentato dalle energie alternative la marcia indietro, sia pure al di fuori di quei vincoli multilaterali che gli sono culturalmente indigesti, sarà inevitabile.

La reazione tedesca
Sulla strada del ritorno da Taormina la cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto tappa a Monaco di Baviera per intervenire a una manifestazione dell’Unione Cristiano Sociale, storico partito bavarese federato con la CDU, dove ha tenuto un discorso dai toni molto duri nei confronti di Trump. Una reazione attesa ma non nei tempi e nei modi in cui si è realizzata.
Non nei tempi perché si pensava che in piena campagna elettorale la Merkel avrebbe aspettato di misurare sul suo successo elettorale la risposta alla duplice sfida che arriva all’Europa dalla Brexit e da Trump. Non nei modi perché l’UCS rappresenta l’ala più conservatrice dell’alleanza di governo, quella, per intenderci, più aperta a suggestioni di tipo nazionalistico; la combattiva cancelliera ha preferito lanciare la sua provocazione proprio dove la sua proposta poteva trovare maggiori perplessità.
Adesso nessuno in Europa ha più alibi: Taormina ha significato anche questo, dalle parole e dalle generiche intenzioni si dovrà passare ai fatti. L’Europa – ha detto la Merkel – dovrà imparare a fare da sé, rinunciando alla protezione americana; a cominciare dalla copertura militare finora assicurata da una NATO a guida americana.

Theresa May, toccata e fuga
Infine la grande assente: la Gran Bretagna. L’orribile strage di Manchester ha consentito al primo ministro britannico di fare a Taormina soltanto una rapida apparizione. Il vertice infatti si è svolto nel pieno di una campagna elettorale da lei stessa voluta che sta mostrando inattese difficoltà per l’emergere di preoccupazioni diffuse (non soltanto in Scozia e in Irlanda del nord) sulle conseguenze di una uscita dall’Europa brusca e conflittuale. I laburisti cavalcano con decisione tali preoccupazioni sul versante dei diritti sociali, i liberali sulla convenienza economica, i sondaggi vanno riducendo i margini della maggioranza della May.

L’impressione che si ricava da queste convulse settimane è che la decisione di cambiare gioco da parte di chi fino ad oggi dava le carte sta producendo un momento di confusione in cui nessuno sa bene come comportarsi. Noi, come sempre, abbiamo offerto uno splendido palcoscenico per recitare la commedia (o la tragedia?), ma gli attori protagonisti sono altri.

 

Franco Chiarenza
31 maggio 2017

L’esito del referendum in Turchia pone alcuni interrogativi che vanno ben oltre la questione delle modifiche costituzionali imposte da Erdogan attraverso una consultazione assai dubbia per le circostanze che l’hanno accompagnata. Di per sé la trasformazione di una repubblica da parlamentare in presidenziale non è un’operazione autoritaria; esistono paesi come gli Stati Uniti, la Francia ed altri dove sono in vigore esplicitamente o di fatto regimi presidenziali e di cui nessuno mette in discussione l’identità democratica. Non è la forma istituzionale che caratterizza un sistema liberal-democratico ma la presenza di altre condizioni tra cui – fondamentali – la libertà di informazione e l’indipendenza almeno della magistratura giudicante; a cui si deve aggiungere per un corretto equilibrio dei poteri un parlamento regolarmente eletto e legittimato a svolgere la funzione legislativa senza impedimenti. Ha la Turchia di Erdogan questi requisiti ? E li ha mai avuti prima di lui ?

Il modello turco
Il modello di stato imposto dal “padre della patria” Kemal Ataturk alla Turchia negli anni ’20 del secolo scorso non era certamente democratico; anzi, erano note le simpatie del leader turco per i regimi dittatoriali esistenti o nascenti in Italia e in Germania. Si trattava piuttosto di un regime autoritario che piaceva agli occidentali – anche nei paesi liberal-democratici – soprattutto per i suoi caratteri laici e modernizzanti. Alla base della strategia politica di Ataturk c’era la convinzione (assai simile a quella dell’imperatore giapponese Meiji agli inizi del secolo XX) che la civiltà moderna diffusa in tutto il mondo dall’imperialismo europeo fosse non soltanto vincente rispetto alle culture preesistenti (come quella islamica) ma anche fondata su una indiscutibile superiorità derivata dagli sviluppi scientifici e dalle loro applicazioni tecniche. Uno stato in grado di competere nel mondo moderno doveva quindi adottare il modello occidentale. La trasformazione imposta da Ataturk fu impressionante: cambiò lingua, scrittura, calendario, tradizioni, modelli esistenziali, relegando la religione a un fatto residuale legato alle culture povere dei ceti sociali più emarginati.

L’esercito
Per ottenere tutto ciò e renderlo duraturo Ataturk identificò nelle forze armate la struttura che doveva garantire la laicità dello Stato e la continuazione del processo di modernizzazione. Ne derivò la costituzione di un esercito potente e autoreferenziale che, dopo Ataturk, si rese in qualche misura indipendente dal potere politico. Quando gli equilibri internazionali dopo la fine della seconda guerra mondiale resero necessaria l’attivazione di forme democratiche ne scaturì un sistema parlamentare bipolare caratterizzato dalla presenza pressoché esclusiva di due partiti, quello repubblicano, radicato soprattutto nelle grandi città e nella parte più occidentale del paese, che si considerava erede della rivoluzione kemalista, e quello democratico (variamente denominato) il quale raccoglieva i voti della parte di popolazione ancora legata alla tradizione islamica che il regime di Ataturk aveva ridimensionato ma non eliminato. Quando i democratici, vincendo regolarmente le elezioni, superavano i limiti ferrei della costituzione laica di Ataturk, l’esercito interveniva e rimetteva le cose a posto. Inutile ricordare che questa combinazione “laicità dello Stato – tutela militare – borghesia emergente”, fu sostanzialmente rilanciata dal movimento Baath nella seconda metà del secolo scorso con l’aggiunta di un richiamo alle concezioni socialiste, dando luogo ai regimi autoritari che si affermarono in Egitto, Siria, Iraq, Libia; anche i processi di laicizzazione e di modernizzazione avviati in Iran dallo scià Pahlevi II prima della sua deposizione si ispiravano sostanzialmente al modello turco.

Erdogan
Con la vittoria elettorale di Erdogan nel 2002 l’altalena tra progressisti kemalisti e reazionari musulmani sembrò avere raggiunto la sua conclusione. Non certo per le origini politiche del nuovo leader che era stato un fedele collaboratore di Erbokan, l’ultimo primo ministro di tendenza islamica fatto dimettere dai militari nel 1998, ma per alcune novità di cui egli si fece portatore. Soprattutto due: il definitivo superamento del “revanscismo islamico” con l’accettazione piena del modello laico di Ataturk e la promozione di un processo di adesione all’Unione Europea. Finalmente compariva all’orizzonte un leader islamico compatibile con i principi delle democrazie liberali occidentali; il nuovo “modello turco” fu entusiasticamente salutato in Europa e in America come valido esempio per gli instabili regimi del Medio Oriente.
Erdogan ha continuato per dieci anni a oscillare tra la fedeltà all’Occidente (in particolare accentuando un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti tramite la NATO) e ricorrenti tentazioni di intervenire nella complicata matassa della questione medio-orientale, ma, nel complesso ha rispettato le “regole del gioco” così come il fondatore della patria le aveva stabilite. La sua involuzione verso un modello sostanzialmente autoritario è cominciata negli ultimi anni con alcune misure filo-islamiche e soprattutto con una pressione crescente sui mezzi di informazione e sulla libertà di associazione; il pretesto era fornito dal problema curdo, per la preoccupazione che gli sviluppi militari della questione mediorientale potessero sfociare nella costituzione di uno stato curdo nei territori settentrionali dell’Iraq e della Siria il quale, diventando confinante con la Turchia, avrebbe esercitato un’attrazione fatale per le minoranze curde ampiamente presenti della parte orientale del paese.

Il colpo di stato
Il tentato colpo di stato dello scorso anno presenta tuttora lati oscuri. Non solo per le motivazioni ma anche per le modalità che lo hanno accompagnato. In apparenza sembrava il ritorno ai tradizionali golpe militari del passato per riportare la Turchia all’ortodossia kemalista; ma si vide subito che così non era, sia perché sin dall’inizio gli alti comandi non furono coinvolti (il che contrasta con le finalità politiche dei precedenti colpi di stato e con una tradizione militare rigidamente gerarchica) ma anche perché il riferimento a Gulen, leader politico religioso esiliato in America, appare fuorviante. Gulen è un ideologo musulmano non fondamentalista a cui fa capo un movimento molto diffuso e influente in Turchia. E’ stato un deciso sostenitore di Erdogan e probabilmente l’ispiratore della sua politica filo-europea. La rottura tra i due è avvenuta soltanto nel 2013 non per ragioni “ideologiche” ma soltanto per il potere eccessivo che Gulen stava assicurandosi in strutture portanti dei ceti medi islamici (soprattutto nelle scuole, nella magistratura, nell’università) e che Erdogan considerava potenzialmente alternativo al suo.
Il modo maldestro con cui è stato tentato il colpo di stato fa escludere complicità estere (del genere CIA o FSB russo) mentre ha consentito al presidente turco di mettere a segno una repressione di dimensioni sproporzionate rispetto alla reale pericolosità dell’evento. Da ciò l’impressione – ampiamente diffusa in Occidente – che in effetti esso sia stato utilizzato da Erdogan per eliminare tutti i quadri intermedi che gli erano avversi nella magistratura, nelle università, nei mezzi di informazione, nelle scuole, negli enti locali. L’annuncio di un referendum su una riforma costituzionale che avrebbe ulteriormente rafforzato i suoi poteri è stato inevitabilmente letto come un passaggio alla dittatura personale.

Il referendum
In tali condizioni l’esito del referendum era dato per scontato. Il fatto che sia stato vinto con un margine così esiguo rappresenta dunque una sconfitta per Erdogan, tenuto anche conto delle denunce per irregolarità (che coinvolgerebbero centinaia di migliaia di schede), del peso determinante degli elettori residenti all’estero (che sono circa tre milioni), della completa mancanza di par condicio nella campagna elettorale. Se Erdogan voleva dimostrare di avere il consenso della grande maggioranza dei turchi non ci è riuscito; al contrario ha mostrato al mondo un paese profondamento diviso. Un esito elettorale risicato e contestato rischia adesso di provocare un ulteriore irrigidimento dell’Europa (che peraltro egli non teme, sicuro com’è di poterla ricattare fermando il flusso degli emigranti dalle zone di guerra del Medio Oriente), ma anche la diffidenza degli investitori internazionali preoccupati dalla possibilità di un rigurgito fondamentalista islamico. Ma soprattutto viene meno l’immagine cui erano rimasti appesi quanti vedevano nel modello turco un esempio di compatibilità tra i valori occidentali e la tradizione musulmana. Gli resta l’appoggio di Trump; ma non è molto affidabile.

 

Franco Chiarenza
19 aprile 2017

Che ci sarebbero state delle correzioni di rotta rispetto agli annunci elettorali era immaginabile; meno prevedibile che i cambiamenti sarebbero stati così rapidi e drastici. Vediamo i diversi fronti aperti dal nuovo presidente americano.

Rapporti con la Russia
E’ il terreno su cui Trump si è trovato in maggiore difficoltà. Le sue aperture verso Putin in campagna elettorale hanno dovuto subito misurarsi con i sentimenti anti-russi prevalenti nelle forze armate e nello stesso establishment del partito repubblicano; le rivelazioni sulle interferenze russe nella campagna elettorale attraverso fake news orchestrate da Mosca, vere o false che siano, hanno profondamente colpito l’opinione pubblica. Non manca chi pensa che Trump sia ricattabile per qualche trascorso durante i suoi soggiorni moscoviti. In ogni caso il presidente ha immediatamente compreso che il problema dei rapporti con la Russia rappresenta un terreno minato e conseguentemente da un lato ha allontanato i consiglieri più sospetti di connivenze filo-russe (e in particolare Michael Flynn e Steve Bannon) e dall’altra ha alzato i livelli di scontro con Putin. In quest’ottica vanno lette l’azione militare contro Assad in Siria e il sostanziale fallimento della missione di Tillerson a Mosca. Putin lo sa e mostra pazienza; si limita a blindare la posizione di Assad rinsaldando sulla politica siriana i rapporti con l’Iran.
Nella conferenza stampa congiunta di Tillerson e Lavrov il ministro degli esteri russo ha ripetutamente richiamato i precedenti dell’Iraq e della Libia quali esempi da non imitare; come dire che prima di rovesciare Assad bisogna essere d’accordo con chi e cosa sostituirlo.

Rapporti con l’Europa
Anche Trump – come tutti – attende l’esito delle elezioni francesi e tedesche; sicuramente “tifa” per Marina Le Pen all’Eliseo e spera in una sconfitta della Merkel a Berlino. Nel frattempo i rapporti con l’Europa (Gran Bretagna esclusa, ma fino a un certo punto) restano in sostanza gelidi. Al centro del contenzioso le misure protezionistiche contro alcuni prodotti europei come ritorsione per analoghi comportamenti europei nei confronti della carne americana. Un atto dovuto nei confronti degli allevatori statunitensi (che della candidatura Trump sono stati sostenitori) e che, in toni più morbidi, era già stato sollevato da Obama.

Rapporti con la Cina
La visita di Xi Jinping a Washington è andata meglio del previsto, anche per l’atteggiamento pragmatico di entrambi gli interlocutori. Le bellicose intenzioni preannunciate da Trump sono rimaste nel cassetto anche probabilmente per le perplessità espresse da Wall Street e dalle multinazionali ormai strettamente integrate nell’economia cinese. I problemi esistono e sono gli stessi che Obama voleva regolare con un accordo multilaterale in grado di contenere l’egemonia cinese; l’avversione di Trump per ogni forma di multilateralismo ha congelato il progetto ma le pressioni giapponesi, australiane e di altri importanti paesi del Pacifico (a cominciare dall’India) non mancheranno di farsi sentire.

La politica interna
La fretta è sempre cattiva consigliera. L’ossessione di annullare subito l’Obamacare sull’assistenza sanitaria ha prima generato un topolino (modifiche molto parziali) poi una sconfitta. Ricordando le resistenze di alcuni settori del partito democratico Trump era convinto di neutralizzare gli estremisti del suo partito; invece le opposizioni si sono coalizzate e Trump è stato costretto a ritirare il suo progetto. Una sconfitta soprattutto di immagine.
Restano intatti i problemi di fondo: come conciliare la diminuzione delle tasse promessa in campagna elettorale con la politica di investimenti infrastrutturali e di potenziamento militare che si vorrebbe mettere in atto. Una contraddizione risolvibile soltanto con un ulteriore
indebitamento, con tutti i problemi che ciò potrebbe comportare nel medio e lungo termine.

Conclusioni (per ora)
I primi cento giorni di Trump appaiono caratterizzati dalla preoccupazione di mostrare una sostanziale discontinuità dalla politica dell’amministrazione precedente; consapevole della debolezza derivata dalla modalità della sua elezione, dall’ostilità dei media che riflette la sfiducia di una parte dell’opinione pubblica che ha un peso rilevante nell’establishment, cerca di consolidare i rapporti con alcuni poteri forti a cominciare da quello militare. La realtà delle cose tuttavia lo spinge inesorabilmente a una sostanziale continuità con la politica estera di Obama: contenimento delle aspirazioni egemoniche della Russia, ridefinizione dei rapporti economici con la Cina, rinuncia al paventato isolazionismo.
Dove si registra una differenza non è nelle prove muscolari, destinate probabilmente a restare manifestazioni di immagine, ma piuttosto nel volere sostituire alla politica multilaterale di Obama, fondata su alleanze e trattati vincolanti, una totale autonomia limitata tutt’al più da intese bilaterali in cui fare valere il peso specifico degli Stati Uniti. In questo quadro si comprende l’ostilità verso la NATO, il ridimensionamento delle Nazioni Unite, la diffidenza nei confronti del WTO (proprio nel momento in cui la Cina, dopo una lunga attesa, sta entrando a farne parte), e così via. Se tale prospettiva sarà mantenuta e non dovrà anch’essa fare i conti con i problemi complessi della globalizzazione e con la stessa convenienza degli Stati Uniti al rispetto di regole condivise, potrebbero verificarsi cambiamenti importanti su due versanti: quello dei rapporti con l’Europa e ancor di più la politica ambientale. Ma anche su questi punti Trump dovrà affrontare il dissenso di parti importanti dell’opinione pubblica presenti anche nel suo partito.
Insomma malgrado le contorsioni dovute all’immersione improvvisa di un personaggio impreparato e mal consigliato nel mare della complessità di una potenza globale, il terremoto provocato dall’imprevisto esito elettorale americano continuerà a registrare scosse di assestamento per un periodo ancora lungo. Non tali però da provocare cambiamenti epocali. Almeno speriamo.

 

Franco Chiarenza
14 aprile 2017

Perché siamo contenti
Un liberale non può che essere contento se i liberali (seppure divisi in due partiti come si conviene a liberali che si rispettino) vincono le elezioni in Olanda respingendo l’offensiva populistica anti-europeista e razzista del partito di Wilders. Si tratta di un secondo segnale (dopo quello delle elezioni presidenziali austriache) di una controffensiva dei movimenti che nell’Europa vedono un’opportunità e non un ostacolo.

La partecipazione
Ma in entrambi i casi il voto ha presentato alcune caratteristiche comuni che devono farci riflettere. La prima è la partecipazione al voto. L’ondata xenofoba e nazionalista si sconfigge andando a votare in massa, non importa per chi; l’astensione è come un voto regalato agli estremisti. Una constatazione che riguarda anche il referendum che ha sancito la Brexit e l’elezione di Trump negli Stati Uniti dove il populismo ha potuto prevalere anche per la bassa partecipazione al voto soprattutto dei giovani e dei “disincantati” (quelli che dicono: è inutile andare a votare tanto chiunque vinca non cambia nulla; se ne accorgeranno i giovani libertari londinesi e le minoranze etniche americane).

Il sistema elettorale
La seconda riflessione riguarda il sistema elettorale. L’esempio olandese dimostra che un sistema proporzionale o uninominale senza ballottaggio (all’inglese) rappresenta certamente un freno al prevalere di ondate di protesta irrazionali e comunque minoritarie strumentalizzate da leader populisti. I sistemi maggioritari infatti se per un verso favoriscono la governabilità d’altra parte rischiano, soprattutto se caratterizzati dal ballottaggio, di consegnare il potere ai movimenti che meglio sono in grado di intercettare le paure e le reazioni dei settori più disorientati della pubblica opinione. Questa è la ragione per cui l’esito delle elezioni francesi preoccupa di più di quelle olandesi (a prescindere dal diverso peso politico ed economico dei due paesi). Perché in Olanda anche se Wilders fosse arrivato in testa non avrebbe mai potuto disporre di una maggioranza parlamentare e ne sarebbe conseguito un governo di coalizione tra forze anti-populiste che comunque avrebbe potuto ottenere la fiducia del parlamento. In Francia invece – a parità di consensi con Wilders in Olanda – Marina Le Pen arrivando in testa costringerà quote rilevanti di elettori a scegliere tra due candidati ugualmente sgraditi; non tutti cercheranno razionalmente il male minore, molti sceglieranno l’astensione e ciò potrebbe consentire al Front National di approdare all’Eliseo col suo seguito razzista e populista. Vero è che i conti potrebbero non tornare in Assemblea Nazionale costringendo la Le Pen a costituire un governo più possibilista ma comunque la presenza al vertice dello Stato francese di un’estremista anti-europea, considerati i poteri di cui disporrebbe soprattutto in politica estera, rappresenterebbe un rischio davvero mortale per le istituzioni comunitarie.

E in Italia? Pensiamoci
Tutto ciò dimostra l’importanza dei sistemi elettorali che molti tendono a sottovalutare. Quando esiste nel Paese una maggioranza che si riconosce in valori condivisi che vanno oltre la maggioranza di governo (come in Gran Bretagna e – prima di Trump – negli Stati Uniti) un sistema maggioritario è preferibile perché consente esecutivi stabili e una più facile alternanza di governo. Quando invece lo scontro avviene su valori fondanti della democrazia liberale (come accadde in Italia dopo la guerra) il sistema proporzionale impedisce comunque alle forze antagoniste di prevalere. Se i comunisti fossero anche arrivati primi alle elezioni nella prima repubblica, non potendo in ogni caso raggiungere la maggioranza assoluta, cosa sarebbe cambiato ? Cosa avrebbe impedito ai partiti anti-comunisti, comunque prevalenti, di formare una maggioranza di governo escludendo il partito comunista ?
Ci avviamo alle elezioni tra un anno anche in Italia. Anche per noi si pone una riflessione: forse, a conti fatti, un sistema proporzionale come quello che in sostanza ci ha consegnato la corte costituzionale, potrebbe rappresentare nella situazione attuale la soluzione migliore, consentendo anche, come dimostra l’esempio olandese, una affluenza alle urne più consistente. Pensiamoci. Ci pensa anche il liberale qualunque la cui cultura politica ha sempre diffidato dei sistemi proporzionali preferendogli sistemi uninominali che accrescono il collegamento tra rappresentati e rappresentanti. Ma uninominale (senza ballottaggio) o proporzionale, quel che bisogna davvero evitare sono i “premi di maggioranza”; potrebbero premiare i nemici della democrazia liberale e dell’integrazione europea.

 

Franco Chiarenza
17 marzo 2017