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Le affermazioni di Davide Casaleggio sulla futura inevitabile inutilità dei parlamenti mette in chiaro per chi ancora non l’avesse capito l’ideologia di fondo che è alla base del movimento Cinque Stelle, in particolare nella visione che egli ha ereditato dal padre Gianroberto. I “vaffa” di Grillo non rappresentano un’ideologia: sono serviti a raccogliere quel po’ di dissenso cialtronesco che nel nostro Paese non manca mai, e sono andati incontro a un sentimento generale di indignazione che ha attraversato ampi settori della società quando la vecchia classe dirigente invece di affrontare le ragioni profonde della crisi si è concentrata nella conservazione dei privilegi e nella tolleranza di prassi corruttive che non erano più compatibili con la situazione del Paese. La faccia rubiconda di Grillo rappresenta quindi la protesta, ammantata da vaghe utopie ambientaliste e da un giustizialismo a senso unico, ma è con la ditta Casaleggio che dobbiamo fare i conti se vogliamo capire qual è il modello di società che i Cinque Stelle hanno in mente. Da quel che ho intuito si tratta di un’ideologia che ha molte sfaccettature e origini lontane (come la “decrescita felice” di Latouche) ma, per quanto attiene il funzionamento delle istituzioni, si chiama “democrazia diretta”. Cerchiamo di comprendere in termini semplici di cosa si tratta e perché, pur potendo apparire a prima vista attraente, essa rischia di compromettere l’essenza stessa della democrazia che non è quella di esercitare direttamente le funzioni di governo ma di controllarne l’uso.

A che servono i parlamenti?
Ce lo eravamo già chiesti durante la prima repubblica quando le decisioni politiche venivano prese dai partiti e il parlamento sembrava una semplice camera di registrazione della volontà delle maggioranze, costituzionalmente obbligata ma politicamente irrilevante.
Lo ripetono oggi i Cinque Stelle con una variante importante. In passato i partiti “espropriavano” la funzione legislativa del parlamento senza averne la legittimità – essi dicono – mentre oggi, consentendo i nuovi mezzi di comunicazione di conoscere puntualmente, in tempo reale, la volontà popolare, il potere legislativo può essere svolto senza l’intermediazione del parlamento, e lo stesso potere esecutivo – cioè il governo – dovrebbe agire sotto il controllo continuo e verificabile dei sentimenti popolari. Ipotesi suggestiva che consente al movimento di dare un senso politico ai “vaffa” di Grillo e al tempo stesso di mandare a quel paese – in nome della democrazia diretta – tutta la classe dirigente coi suoi riti dove si esercita il potere di intermediazione; quella che, non a caso, essi definiscono “casta” e che non è costituita soltanto dai politici professionisti ma anche dai sindacalisti, dalle rappresentazioni di interessi, dai corpi intermedi, fino forse a raggiungere la magistratura e i diritti individuali (processi in piazza?).
In realtà la risposta ce l’avevano già data i grandi teorici del liberalismo: la funzione di governo viene esercitata negli stati moderni in nome del popolo, il quale ha assunto quel potere di legittimazione che in passato era appartenuto alla religione. Ma il potere di legittimazione non coincide con la funzione di governo, e proprio in questo le democrazie moderne si distinguono da quelle antiche (come la tanto celebrata “agorà” ateniese). Nelle democrazie liberali la volontà popolare si esprime normalmente attraverso la scelta dei propri rappresentanti rinnovandoli periodicamente attraverso libere consultazioni elettorali. Nel periodo che intercorre tra un’elezione e l’altra la maggioranza esprime un governo che deve mettere in atto quegli indirizzi generali che sono stati espressi dall’elettorato rispondendone al parlamento e, in ultima istanza, al popolo stesso che attraverso l’esercizio del voto resta sempre giudice ultimo dell’operato della classe politica.
Di più. Le democrazie liberali come si sono sviluppate negli ultimi due secoli, a partire dall’esperienza inglese, comportano alcuni limiti invalicabili alla stessa volontà popolare quando essa si arroga la pretesa di restringere o addirittura di annullare quelle libertà fondamentali che le carte costituzionali francese e americana per prime hanno fissato già due secoli fa. Si tratta dei diritti individuali, della libertà di pensiero e di espressione, della libertà di religione, della libertà di associazione e, nella versione liberista, anche della libertà di produrre e scambiare beni e servizi.
Per questo esistono i parlamenti (che devono varare le leggi), le corti supreme (che devono controllare il rispetto dei vincoli costituzionali), le diverse autorità indipendenti (cui spetta assicurare tramite opportune regolamentazioni la libera concorrenza e contrastare la formazione di monopoli), ecc. In tale complessa realtà, che caratterizza tutti gli stati moderni, la democrazia si esercita quindi normalmente in forme indirette, anche per evitare che ogni confronto si trasformi in scontro e che le emozioni del momento prevalgano su ragionamenti che tengano conto dei diversi punti di vista. In questo senso possiamo affermare che i compromessi sono il sale della democrazia. “Inciuci”? Sì se gli accordi sono in realtà soltanto scambi di favori, no se servono ad eliminare asprezze demagogiche e trovare soluzioni funzionali.
E cos’è se non un compromesso il “contratto” tra Cinque Stelle e Lega che è alla base dell’intesa che ha prodotto il governo Conte? Lui stesso – Giuseppe Conte – è frutto di un compromesso.
In una democrazia liberale si ricorre agli scontri frontali e alle contrapposizioni nette soltanto su questioni fondamentali, quando nessuna possibilità d’intesa è possibile, come è avvenuto in passato in alcune occasioni: monarchia o repubblica, adesione al patto atlantico, entrata nella Comunità Europea, diritto di famiglia (divorzio, parità femminile, aborto) e altre – poche – questioni su cui le opzioni erano nette e coinvolgevano punti essenziali che le diverse culture politiche ritenevano inconciliabili. In tutti gli altri casi il parlamento è ottimamente servito durante la prima repubblica a svolgere un ruolo di mediazione, tanto più efficace quanto più discreto, quando maggioranza e opposizione, divisi per ragioni di politica internazionale e per differenze incolmabili sul modo di concepire la democrazia, riuscivano però spesso ad accordarsi su provvedimenti che apparivano oggettivamente necessari a garantire un’ordinata attività di governo.

La crisi della democrazia liberale
La democrazia rappresentativa come si è consolidata nell’Occidente è entrata in crisi quando si è interrotto il circuito di mediazione tra sentimenti popolari e rappresentanza politica, il che avviene puntualmente quando fenomeni globali che sfuggono alla comprensione della media degli elettori determinano cambiamenti nella vita quotidiana che appaiono intollerabili. E’ accaduto, per esempio, tra le due guerre mondiali in Europa e in Russia, allorché gli squilibri politici, economici e sociali che sconvolsero l’Europa dopo il 1918 alimentarono movimenti popolari di protesta (divenuti poi “populisti” quando si sono identificati con la dittatura di un uomo solo al comando) che hanno portato al potere il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, il falangismo in Spagna, il comunismo in Russia. Mai la democrazia liberale aveva corso pericoli tanto estesi da parere irreversibili. Dobbiamo alla capacità di resistenza della Gran Bretagna e alle forti convinzioni democratiche del popolo americano (che ha sostenuto uno sforzo bellico senza precedenti nella storia) se il totalitarismo non ha prevalso. Una resistenza liberale che, anche dopo la fine del conflitto armato, è continuata fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989.
Oggi sta accadendo qualcosa di simile a ciò che avvenne un secolo fa. La globalizzazione dei mercati, la diffusione dell’automazione nella produzione industriale, la spinta di chi sta peggio verso luoghi dove si sta meglio, i nuovi mezzi di comunicazione che hanno diffuso informazioni incontrollabili seminando paura e preoccupazioni, hanno contribuito a creare una percezione di insicurezza su cui i partiti di destra e il movimento di Grillo sono facilmente riusciti a delegittimare i tradizionali processi di mediazione (e gli uomini che li gestivano) facendo credere legittima la perentoria richiesta di tornare indietro. Come se fosse possibile, anche volendolo.
Si tratta di una clamorosa illusione. La soluzione del problema consiste nell’andare avanti, anche dal punto di vista istituzionale, creando nuove forme di raccordo e di corretta informazione in grado di penetrare pure in quei settori della popolazione che sembrano sensibili soltanto ai twitter di Salvini. Non si tratta di negare paure che – vere o esagerate che siano – sono comunque largamente diffuse, ma di analizzarle proponendo rimedi credibili e ragionevoli. Bisogna spiegare, per esempio, che cambiare la dimensione degli stati aggregandoli in grandi federazioni è un modo efficace di contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, se non altro perché consente di essere attivamente presenti ai tavoli ristretti dove le grandi potenze mondiali stabiliscono le regole del gioco. E che per questa ragione – se non se ne vogliono accettare altre, pur importanti, di carattere culturale – l’unità europea è un bene irrinunciabile da completare con l’unione politica, e non un nemico su cui scaricare le nostre frustrazioni e i danni prodotti da scelte sbagliate che sono nostre, e soltanto nostre. D’altronde l’abbiamo visto anche in questi giorni: è con l’Europa che i grandi giganti della comunicazione e del commercio (Amazon, Google, ecc.) devono fare i conti sia per quanto riguarda l’aspetto fiscale che le garanzie sui contenuti. Nulla in proposito avrebbero potuto fare le singole nazioni, compresa la Germania. E’ con Juncker, presidente della Commissione dell’Unione Europea, che Trump ha finito per accordarsi dopo tentativi espliciti di dividere i paesi europei e incoraggiarne le spinte secessionistiche. La Brexit sta avvolgendosi in se stessa tra contraddizioni e pentimenti anche perché il governo inglese non è riuscito a dividere i paesi europei ed è costretto a trattare con la Commissione dell’Unione. E’ stata la richiesta dell’Ucraina di entrare nell’Unione che ha scatenato l’ira della Russia la quale, utilizzando strumentalmente le minoranze russofone, ha violato ogni principio di diritto internazionale sottraendo brutalmente la Crimea al governo legittimo di Kiev. Insomma è l’Europa che fa paura, anche debole com’è; figurarsi se si trasformasse in un blocco comune di stati che – come è avvenuto in America con gli Stati Uniti – mettesse in comune la politica estera, la difesa militare e il coordinamento delle politiche finanziarie. Per queste ragioni la partita che si giocherà nelle elezioni europee del 2019 sarà cruciale, anche per noi, anzi soprattutto per noi. Con buona pace di Salvini che vorrebbe rinunciare alla nostra posizione di partner importante dell’Unione per vendere qualche mobile della Brianza in più in Russia.
“Sovranismo” non significa nulla. Nessuno minaccia la sovranità delle nazioni nelle materie che più direttamente riguardano la vita quotidiana dei cittadini; si tratta soltanto di mettere insieme quelle funzioni di governo che, esercitate in nome di un’entità più grande, tornano a vantaggio di tutti. Negli Stati Uniti ogni stato ha la sua legislazione, la sua politica fiscale, scolastica e via dicendo. Ma mettere insieme la politica estera, le forze armate, accettare principi comuni di diritto garantiti da una Corte Suprema, affidare a un potere federale alcuni compiti per consentirne una maggiore efficienza è una convenienza di tutti. Quello che dobbiamo fare in Europa è l’ultimo passo: costituire gli Stati Uniti d’Europa con chi ci sta. Chi non ci sta ne resti fuori, si accorgerà presto quanto poco gli convenga.
Ma anche a casa nostra qualcosa bisogna fare per riformare le istituzioni e renderle più adeguate al protagonismo che – giusto o sbagliato che sia – comunque emerge da masse crescenti di elettori. Non una riforma costituzionale pasticciata e incoerente come quella che Renzi ha tentato di imporre due anni fa, e nemmeno il plebiscitarismo pericoloso di Salvini che porterebbe a forme autoritarie di governo le quali, anche se approvate dalla maggioranza degli elettori, metterebbero comunque a rischio lo stato di diritto liberale. Si potrebbero però introdurre forme più stringenti di controllo dell’elettorato sugli eletti (e per questo basterebbe tornare ai collegi uninominali senza rinunciare alla libera responsabilità dei deputati), affrontare con ammortizzatori sociali più efficaci gli effetti dell’automazione e della liberalizzazione degli scambi, e studiare altre misure in grado di rafforzare la sicurezza dei cittadini senza compromettere le garanzie dello stato di diritto.

La democrazia diretta di Casaleggio
Torniamo a Casaleggio. Vale la pena parlarne perché mentre il futuro che ci prospetta Salvini è ben noto e ricalca forme di autoritarismo già sperimentate (e purtroppo largamente praticate anche oggi), la “democrazia diretta” di Casaleggio rappresenta una relativa novità che, presentandosi come la forma più aggiornata e perfetta di democrazia, fonda la sua legittimità su presupposti molto diversi da quelli para-fascisti che caratterizzano in Europa movimenti come quello francese della Le Pen e altri consimili. L’idea di Casaleggio si basa – come abbiamo visto – sul presupposto che i nuovi mezzi di comunicazione interattivi siano in grado di realizzare su vasta scala un modello di democrazia partecipata non soltanto perché consentono di compiere scelte in tempo reale ma anche per la possibilità di raccogliere informazioni sufficienti per rendere i cittadini pienamente consapevoli delle loro decisioni. Una tesi suggestiva che tuttavia ignora l’importanza dei corpi intermedi per la tenuta della democrazia; andrebbero rilette le considerazioni di Edmund Burke sulla rivoluzione francese – primo esempio di “democrazia diretta” – dove l’autore ne prevedeva le inevitabili degenerazioni in senso autoritario, come poi puntualmente avvenne con il “Terrore” di Robespierre.
Val la pena ricordare ancora una volta che le decisioni politiche devono confrontarsi con realtà sempre più complesse che sfuggono alla comprensione anche di persone di media cultura; è davvero sufficiente l’aiuto che può provenire dalla divulgazione mediatica, sia che essa passi attraverso gli strumenti tradizionali (stampa, televisione, radio, letteratura popolare) oppure tramite i social network (you tube, twitter, facebook, instagram, ecc.)? E’ difficile crederlo, e infatti nessuno seriamente lo pensa. Tutti sanno che la competenza è necessaria in qualsiasi attività, nessuno si sognerebbe di operare suo figlio sulla base di un prontuario pubblicato su internet, nessuno pretende di essere più bravo di Messi nel calciare in porta; le competenze sono sempre e comunque necessarie. Ma – qualcuno potrebbe obiettare – il caso della politica è diverso. In un apologo attribuito a Protagora (e riportato da Platone) si racconta che Mercurio , incaricato di portare agli uomini l’arte politica, abbia domandato a Giove come essa dovesse essere distribuita: se, come le altre arti, solo ai competenti o invece a tutti. A tutti, rispose Giove, perché diversamente dalle altre arti a questa tutti devono partecipare “altrimenti non potrebbe esistere alcuna comunità”. Ma poiché è impossibile mantenere continuamente attivi milioni di potenziali elettori sui tanti problemi che quasi quotidianamente richiedono l’intervento della politica, ecco che bisogna ammettere che “fare politica” significa avere un obiettivo, pensare un modello di società in cui riconoscersi, non necessariamente possedere le competenze per realizzarlo. A questo devono provvedere i “tecnici”, coloro cioè che conoscono i mezzi e gli strumenti attraverso i quali la pubblica amministrazione può realizzare il progetto politico che incontra il favore della maggioranza della popolazione; e la loro scelta non può avvenire che in quei “corpi intermedi” i quali di fatto esercitano la funzione di mediazione tra volontà popolare e compatibilità politiche e che una facile demagogia vorrebbe eliminare. Che poi tale realtà sia rappresentata da un portale interattivo – come il Rousseau dei Cinque Stelle costituito da alcune migliaia di aderenti rigorosamente selezionati – o dai vecchi partiti politici, poco cambia. In ogni caso c’è un procedimento selettivo che in qualche modo promuove una minoranza al compito di rappresentare la volontà politica di quote più o meno rilevanti dell’elettorato. La “democrazia diretta” diventa così fatalmente indiretta anche nelle soluzioni proposte dai Cinque Stelle, con, in più, una totale mancanza di trasparenza sugli obiettivi ideologici che si vogliono realizzare e sulle effettive possibilità dei gestori della piattaforma di manipolare le scelte dei suoi partecipanti; non a caso vengono proposti (e di fatto imposti) dall’alto i vertici del movimento e si affida a “garanti” carismatici un ruolo opaco ma la cui presenza è chiaramente avvertibile; l’antica funzione carismatica dei partiti è semplicemente trasferita al proprietario del portale, come avviene infatti con la “Casaleggio e Associati” cui di fatto spetta l’ultima parola sulle vicende interne del movimento Cinque Stelle.
Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola suggestiva delle soluzioni facili. Dietro il paravento dell’onestà personale e della lotta alla corruzione e ai privilegi della classe politica, che costituiscono il presupposto di qualsiasi progetto politico non un obiettivo strategico o ideologico, si possono compiere le scelte più diverse e contraddittorie pur di esercitare un potere che rischia di diventare arbitrario e incongruente. Significativa in proposito mi è sembrata – durante le trattative che seguirono le elezioni del 4 marzo – la riesumazione della prassi politica (teorizzata da Giulio Andreotti negli anni ’60) dei “due forni”, cioè della possibilità per il movimento Cinque Stelle di allearsi indifferentemente con la destra (Salvini) o con la sinistra (PD) pur di raggiungere alcuni obiettivi (prevalentemente di carattere sociale e di tutela ambientale) su cui esso ritiene di fondare la propria identità. Ma la politica – quella vera – richiede analisi e prospettive di più ampio respiro e scelte che non sono riconducibili alla logica NIMBY (per chi non ne conosce il significato vedere su wikipedia).

Le vere alternative
La verità è che i modi per rispettare la volontà popolare sono soltanto due: il primo è quello di affidare a un uomo o a un partito il compito di realizzare il modello preferito rinunciando ad ogni possibilità di controllarne l’esecuzione lasciandolo indisturbato al potere, e, come sappiamo ciò porta inevitabilmente alla dittatura. Dittatura che può essere esercitata oggi in modi più indiretti e meno esibiti di un tempo semplicemente effettuando forti pressioni sulla libertà di informazione, sull’indipendenza della magistratura, sulla pubblica amministrazione, anche lasciando formalmente aperto il confronto elettorale con un’opposizione ridotta all’impotenza (come avviene con la “democrazia illiberale” di Orban in Ungheria, con il regime instaurato da Putin in Russia e con il rafforzamento dell’autocrazia di Erdogan in Turchia).
L’altro modo di rispettare la volontà popolare è quello liberale in cui i cittadini eleggono i loro rappresentanti, rinnovandoli periodicamente, affidando ad essi la scelta di un governo che operi nella direzione indicata dalla maggioranza. La proposta di Casaleggio di sostituire al parlamento la registrazione immediata e continua della volontà popolare attribuisce ai sentimenti, alle emozioni (spesso passeggere), all’influenza di un’informazione non sempre corretta, un potere di indirizzo e di veto in cui prevarrebbe facilmente chi meglio sa suscitare commozione, apprensione, passioni, a scapito di ragionamenti più lungimiranti. Non solo; essa impedirebbe di fatto qualsiasi compromesso, inteso nel senso migliore, per trovare soluzioni più condivise possibili nella soluzione dei problemi quotidiani.
Insomma questa retorica della volontà popolare lasciamola da parte: l’hanno adoperata tutti. Cominciò Mussolini col fascismo, vennero poi i partiti viziati da una democrazia interna molto discutibile, dopo di loro Berlusconi “uomo solo al comando”, poi ci ha provato Renzi, infine la “democrazia diretta” di Casaleggio che ha tutta l’aria di essere in effetti “diretta da Casaleggio”.

La trasparenza
Quando i Cinque Stelle hanno trattato per finta, già intenzionati a non raggiungere alcun accordo (come avvenne con Bersani nel 2013) hanno preteso che l’incontro avvenisse in streaming sotto gli occhi di tutti, trasformando la trasparenza in uno strumento di propaganda; quando, cinque anni dopo, hanno trattato con la Lega il contratto di governo, streaming è stato accantonato perché avrebbe rappresentato un impedimento all’intesa che ha consentito la nascita del governo Conte. La diplomazia è uno strumento indispensabile della politica, da sempre; essa serve appunto a smussare gli angoli, cercare soluzioni accettabili (anche se non ideali) per le parti che si confrontano, e può comportare contropartite non sempre confessabili pubblicamente. Ciò che conta è che i risultati siano tali da costituire un vantaggio per il conseguimento degli obiettivi che le maggioranze politiche si danno. Cavour ce lo ha insegnato: se per realizzare l’unità d’Italia bisognava pagare un prezzo alla Francia cedendole Nizza e la Savoia (culla della dinastia regnante) il gioco valeva la candela; ma se a Plombières ci fosse stato streaming l’unità d’Italia avrebbe dovuto ancora attendere a lungo. (Per chi non sa cosa avvenne a Plombières è sempre possibile consultare wikipedia).
La trasparenza è certamente un valore positivo. Ma, come altri, se portato all’eccesso diventa un difetto. La vita umana non è fatta di bianco e nero ma di molte tonalità grigie senza le quali si va incontro a conflitti, guerre, fondamentalismi, settarismi, fanatismi, voglia di distruzione dell’avversario; trasformare le scelte politiche in un comizio permanente può produrre – anche senza volerlo – questi risultati.
Ciò non toglie che domani – un domani molto lontano – il perfezionamento dei media interattivi, la possibilità di introdurvi il principio di responsabilità, l’aumento dei livelli medi di conoscenza di crescenti parti della popolazione, il riconoscimento generalizzato del principio di tolleranza, potranno forse consentire a una democrazia elettronica di svolgere una funzione decisiva nelle grandi scelte e di raccordare meglio i sentimenti e le priorità dell’elettorato con i suoi rappresentanti. Ma pure in tal caso il ruolo dei corpi intermedi, anche quando rappresentano interessi particolari, resta fondamentale in uno stato che voglia mantenere i suoi presupposti democratici e liberali.

 

Franco Chiarenza
3 agosto 2018

Cominciano ad essere chiari gli orientamenti distintivi del nuovo governo. Mentre in politica estera prevale una linea di continuità, quanto meno attenta a non creare spaccature troppo profonde rispetto alle scelte tradizionali dei governi precedenti, è sulla politica interna e su quella economica che si concentra l’azione della nuova maggioranza. E si tratta di iniziative che, al di là di ogni giudizio sul merito, si caratterizzano per una evidente ispirazione illiberale.

Immigrazione
Sul tema dei migranti per esempio non sono tanto in discussione le azioni poste in essere rozzamente da Salvini, chiaramente finalizzate a catturare un facile consenso da parte di un’opinione pubblica da tempo irritata per le porte sbattute in faccia all’Italia dai suoi partner dell’Unione Europea. C’è voluta la chiusura dei porti alle ONG perché finalmente l’Unione si rendesse conto che il suo miope comportamento stava producendo una profonda lacerazione nei principi di solidarietà che rappresentano il fondamento etico e morale dei trattati istitutivi.
Al di là dei numeri il problema è certamente di tale rilievo, anche in una prospettiva futura, da non prestarsi più a un incosciente scarica barile giocato sulla pelle dei disperati che cercano di approdare in Europa, senza che tutti – ma proprio tutti – se ne assumano la responsabilità.
Le azioni di Salvini dunque non colpiscono la nostra coscienza di liberali per se stesse ma per le modalità che le hanno accompagnate, per l’esaltazione generalizzata del principio di identità nazionale, per quel sottinteso “sacro egoismo” che già conoscemmo un secolo fa (con esiti disastrosi), per l’emergere di un razzismo para-fascista neanche troppo occultato. A cui si accompagna il fanatismo religioso sventolato come dimostrazione di identità; i comizi col rosario in mano, francamente, appaiono nell’esibizione salviniana ridicoli prima ancora che pericolosi ma tuttavia indicano una rivendicazione dell’intolleranza come cifra culturale della nuova maggioranza che potrebbe comportare seri attentati allo stato di diritto.
Una cosa è dunque richiamare, anche con misure estreme (purché transitorie), l’Europa ai suoi doveri di solidarietà, altro è utilizzare una protesta rancorosa che non appartiene alla nostra cultura prevalente per riesumare un nazionalismo razzista e aggressivo che riporta indietro l’orologio della storia.
La soluzione del problema va cercata in una strategia da mettere in atto non tanto per arginare i flussi migratori quanto per trarne i vantaggi che in prospettiva è possibile conseguire, limitando gli inevitabili inconvenienti che ogni assimilazione può comportare. So che davanti al termine “assimilazione” molti storcono la bocca, ma invece proprio di questo si tratta se si vogliono evitare quegli scontri frontali tra culture diverse che non accettano di dialogare tra loro e che alimentano pregiudizi e speculazioni politiche estremiste. Chi viene da noi deve accettare almeno gli elementi fondanti della nostra cultura, non perché sono superiori ma perché sono i nostri e chi entra in casa altrui deve adeguarsi alle regole degli ospitanti. Su questo punto bisogna essere chiari, soprattutto con i musulmani fondamentalisti che pretendono non soltanto di mantenere i loro usi e costumi (il che è legittimo) ma anche di prescindere dalle leggi e dai principi che caratterizzano le società laiche euro-atlantiche. Con buona pace dei rosari di Salvini il cristianesimo non c’entra; nel suo passato (anche relativamente recente) ci sono manifestazioni di settarismo e di intolleranza che possono servire ad alimentare un clima di scontro che non fa parte della cultura liberale. I valori a cui ci riferiamo sono quelli dell’illuminismo, dei diritti individuali di Locke, dei doveri comunitari di Mazzini, della democrazia pluralista fondata sull’equilibrio dei poteri di Montesquieu, del manifesto liberale di Stuart Mill, ecc.
L’altro aspetto di una visione strategica riguarda ciò che si può (e si deve) fare in Africa. Non tanto, o per lo meno non soltanto, bloccando i flussi migratori attraverso accordi sempre incerti con i governi africani (quando sono in grado di controllare i loro territori; il che spesso – come in Libia – non avviene) quanto invece costruendo un progetto lungimirante, con la partecipazione di forze economiche, soggetti sociali, organizzazioni non governative, in grado di coordinare le politiche dei diversi stati europei e di offrire garanzie giuridiche, finanziarie, di sicurezza, tali da consentire l’afflusso di investimenti infrastrutturali e produttivi senza i quali non si crea lavoro, in Africa come ovunque. Se l’Europa non lo fa altri lo faranno, come dimostra la crescente penetrazione della Cina che potrebbe rappresentare per gli europei un problema in più. Questo è il tema che l’Italia dovrebbe porre al centro dei dibattiti sull’immigrazione proponendo la stesura di un vero e proprio trattato che regoli tempi e modalità di intervento nella consapevolezza che – piaccia o no – il futuro dell’Europa si gioca in Africa.

Sicurezza
Una nuova legislazione sulla legittima difesa pare imminente; si tratta in effetti di un altro cavallo di battaglia su cui la Lega raccoglie molti consensi. In realtà, come risulta da tutti i dati ufficiali, la sicurezza delle famiglie (furti, rapine, aggressioni, ecc.) non è diminuita in maniera sensibile, ma, complici anche i mass-media, è molto aumentata la percezione del pericolo. La vecchia legislazione, fondata su principi garantisti che fanno parte della cultura liberale, si è dimostrata in effetti nell’applicazione della magistratura non soltanto tollerante ma spesso addirittura penalizzante per chi si difende. O per lo meno così è stata percepita. Che bisognasse cambiarla, senza rinunciare a quei principi di garanzia che sono irrinunciabili in uno stato di diritto, era già evidente da anni; non averlo fatto quando aveva la maggioranza è stato uno dei tanti errori della sinistra. Il rischio è che questa nuova maggioranza voglia introdurre un diritto all’autodifesa senza limiti che comporta una diffusione delle armi con tutte le conseguenze che possono derivarne, come dimostra l’esempio americano.

Politica economica
Sull’economia il cambiamento è evidente, culturale prima ancora che sui singoli provvedimenti.
Di Maio e il suo movimento sembrano definitivamente convinti anche in questo campo della validità delle tesi “sovraniste” degli alleati. La linea di tendenza è quella di difesa ad oltranza delle produzioni nazionali (e quindi la denuncia dei trattati multilaterali aperti alle dinamiche del mercato) anche con l’introduzione di dazi punitivi, senza alcuna considerazione dei vantaggi macro-economici che sul medio e lungo periodo la liberalizzazione consente. La necessità di mantenere un consenso che – per il modo in cui si è formato – appare molto fragile fa prevalere le misure protezionistiche immediatamente percepibili piuttosto che valutazioni più comprensive dei costi e benefici che tale politica può comportare per l’Italia. Anche perché – portata fino in fondo – questa politica andrebbe a scontrarsi con il mercato comune europeo, creando di fatto le condizioni per un’uscita del nostro Paese dall’Eurozona e dalla stessa Unione che, smentita a parole, è il vero obiettivo della Lega. Per chi, come noi, ritiene l’abbattimento delle frontiere europee una grande conquista che ha consentito al Vecchio Continente settant’anni di pace e all’Italia di passare dal rango di paese sottosviluppato a quello di settima potenza industriale del mondo (con qualche vantaggio – mi pare – per le condizioni di vita della sua popolazione), si tratterebbe di un arretramento suicida.
Purtroppo la memoria storica non esiste, soprattutto in un paese come il nostro che ignora la storia e si vanta di non insegnarla; tanto c’è wikipedia.

Contraddizioni
Se le linee di tendenza appaiono abbastanza chiare, dettate dal nazionalismo posticcio di Salvini, non mancano però le contraddizioni e i contrasti. I Cinque Stelle hanno fondato il loro consenso su un’utopia ambientalista da realizzare mediante strumenti di democrazia diretta molto distante dalle posizioni di difesa e di rilancio dell’idea autarchica di “nazione” che è alla base dell’ideologia neo-nazionalista della Lega. Si tratta di differenze importanti che imporranno, prima o poi, un chiarimento su alcune questioni non secondarie come il rilancio delle infrastrutture, i salvataggi industriali, gli squilibri territoriali.
I compromessi al ribasso hanno finora premiato il dinamismo strafottente di Salvini ma è lecito chiedersi cosa accadrà quando il malumore che serpeggia nella base grillina comincerà a farsi sentire. Ancora una volta sarà l’economia a imporre le sue esigenze di compatibilità. Per realizzare seriamente le promesse di Di Maio in materie sensibili come il reddito di cittadinanza, lo smantellamento dell’ILVA di Taranto, la riforma delle pensioni con l’adozione della cosiddetta “quota 100”, occorrono risorse che certamente non possono essere ricavate dall’abolizione dei vitalizi degli ex-deputati o da altre misure (come la riduzione retroattiva delle cosiddette “pensioni d’oro” ) che comportano contenziosi infiniti e un recupero di risorse nettamente inferiore all’occorrente. Senza parlare della flat tax che, anche secondo i suoi sostenitori, produrrà comunque nel primo biennio una contrazione degli introiti fiscali. Tutte cose che certamente il ministro Giovanni Tria ha spiegato a Di Maio e Salvini. Se prevarranno le esigenze propagandistiche ed elettorali dei due partiti di maggioranza salterà il ministro, e con lui il contenimento del bilancio nell’ambito delle compatibilità europee e delle attese dei mercati (che detengono – non va dimenticato – circa la metà del debito pubblico italiano); se invece Di Maio uscirà dal suo nirvana e si deciderà a fare i conti con la realtà c’è il rischio che la maggioranza non regga perché a Salvini potrebbe convenire andare alle elezioni europee del prossimo maggio su posizioni di rottura. Lo capiremo meglio alla fine di settembre quando conosceremo i risultati delle elezioni regionali in Baviera, cruciali per la sopravvivenza del governo tedesco e quindi per il futuro dell’Europa. Se un dio esiste, qualunque sia il suo nome, che ce la mandi buona.

 

Franco Chiarenza
26 luglio 2018

Il governo Conte continua nel suo incerto cammino dove la vera sorpresa sembra essere proprio il presidente del Consiglio – classico vaso di coccio tra vasi di ferro – il quale sta mostrando capacità di mediazione e di movimento understatement del tutto imprevedibili, in sintonia col ministro degli esteri Moavero Milanesi e con il probabile appoggio di Mattarella che punta su di lui per stemperare le asprezze dei due principali partner della maggioranza, sempre protesi in una gara demagogica che non sembra avere mai fine.
Il movimento Cinque Stelle è certamente quello in maggiori difficoltà, ma non sembra che ciò abbia determinato una diminuzione significativa del consenso di cui godono (sempre al di sopra del 30%).

Di Maio, Raggi, Fico, Appendino
Il vice-presidente del Consiglio si è imbarcato in un progetto (“decreto Dignità”) che voleva essere ambizioso e contrastare l’evidente maggiore visibilità del collega Salvini, ma il percorso sta mostrando grandi difficoltà ancor prima di approdare in Parlamento dove l’attende la sorda ostilità della Lega che tende ad annacquarne i contenuti fino a renderli irrilevanti. In effetti il vero punto debole del progetto è la copertura finanziaria, come sempre sottovalutata dal movimento Cinque Stelle. Nel frattempo Di Maio rinvia ogni decisione sull’ILVA di Taranto e sull’alta velocità in Val di Susa dove non sa che pesci pigliare senza perderci la faccia.
Il fallimento della sindacatura Raggi a Roma è ormai sotto gli occhi di tutti (e infatti in alcune circoscrizioni il movimento ha subito sconfitte significative); al di là della spazzatura che continua a ingombrare le strade della Capitale, delle buche che le hanno trasformate in percorsi di guerra, del deficit fallimentare dell’ATAC, c’è uno sfilacciamento nel funzionamento di tutti i servizi mentre la Giunta si muove inseguendo le emergenze giorno per giorno senza un progetto, un’ idea per il futuro. Anche all’interno del movimento il malumore è palpabile.
Roberto Fico ha portato a casa un duplice successo di immagine: l’abolizione dei vitalizi dei deputati e la presa di distanza da alcuni eccessi di Salvini. Nel primo caso si tratta di una misura molto attesa dalla base grillina che si compatta soprattutto nell’avversione irriducibile nei confronti della cosiddetta “casta” cioè contro i privilegi – veri o presunti – di chi ha mal governato fino a ieri; ma ci sono molti dubbi che una delibera che opera retroattivamente su diritti acquisiti possa superare il probabile vaglio di costituzionalità. Nel distinguersi invece da Di Maio sul problema dell’immigrazione Fico si candida a rappresentare una possibile alternativa all’alleanza con la Lega da realizzarsi quando dovesse verificarsi una seria crisi in grado di infrangere il patto con Salvini, per il momento ancora molto saldo.
Il sindaco di Torino è inciampato sulle Olimpiadi; richieste a gran voce dalla maggioranza dei cittadini, avversate decisamente dalla base dei Cinque Stelle, hanno costretto Chiara Appendino a tortuosi compromessi. Ma perché le Olimpiadi vadano bene per Torino mentre sono state sprezzantemente rifiutate per Roma pone qualche domanda.

Grillo
E poi c’è Grillo. Il quale si muove disinvoltamente non come il punto di riferimento di un movimento che ha conquistato (anche per merito suo) il governo del Paese, ma rivendicando un ruolo di libero battitore più consono al suo passato di attore comico che non di un leader consapevole. Difende la Raggi anche dove è indifendibile (la pagliacciata sulle buche gli ha valso anche le critiche di esponenti importanti del suo movimento), vaneggia utopie di vago sapore pannelliano (come l’abolizione delle carceri), rampogna Di Maio per il suo approccio di governo troppo istituzionale. Ma non era stato lui, con la ditta Casaleggio, a scegliere Di Maio come capo politico del movimento proprio per le sue presunte capacità di interlocuzione con i partiti e le istituzioni? Nessuno capisce quanto conti ancora Grillo; ma mi sembra difficile immaginare che un suo intervento, nel caso si approfondisca il contrasto tra l’ala movimentista e quella governativa, non sarebbe decisivo.

 

Franco Chiarenza
15 luglio 2018

Tutta l’Europa è scossa dal problema dell’immigrazione. Il successo della destra nazionalista (impropriamente definita dai media come “populisti”) in tutti i paesi europei è stato in larga misura determinato dalle paure crescenti che il fenomeno immigratorio ha suscitato, spesso molto al di là della sua effettiva dimensione. Un allarme sociale legato a una percezione diffusa che si tratti di una “invasione” da parte di popoli che per cultura, religione, comportamenti sono considerati irriducibilmente “diversi”. Una sensazione ampliata dal rilievo che gli riservano i media (tradizionali e non) e dalle strumentalizzazioni politiche che l’hanno accompagnata. Il fatto poi che l’immigrazione (soprattutto africana) si sia sovrapposta a un disagio economico e sociale che deriva da cause del tutto diverse ha creato in ampi settori della classe media europea (e non soltanto) una fatale semplificazione che ha consentito alla destra di presentarsi come difensore degli interessi nazionali in contrapposizione al supposto “buonismo” della sinistra. Non solo: ogni forma di multilateralismo e di cooperazione internazionale (su cui peraltro si è fondato il successo della globalizzazione) è stato visto come un veicolo di confusione e di insicurezza a cui si poteva porre rimedio soltanto tornando alla dimensione nazionale.
Le sinistre e i conservatori moderati non sono riusciti a comprendere tempestivamente l’estensione del fenomeno condannandosi quindi all’isolamento e al ridimensionamento, mentre la destra si è rapidamente trasformata in un nazionalismo estremista (in qualche caso con evidenti caratteri razzisti). Anche dove il centro-sinistra è riuscito faticosamente a mantenersi al governo, come è avvenuto in Germania, Francia e Spagna, non è stato tuttavia in grado di proporre soluzioni convincenti.

Il problema globale
L’immigrazione che tanto preoccupa l’Europa va inquadrata in un fenomeno che riguarda il mondo intero e che si è accelerato con la globalizzazione e la diffusione capillare di informazioni consentita dai nuovi mezzi di comunicazione. Dalle regioni più povere masse crescenti di persone cercano di raggiungere stati e paesi dove il tenore di vita è più elevato e vi sono maggiori possibilità di miglioramento sociale, favorite anche dal fatto che la decrescita della natalità apre in effetti spazi di occupazione di rilevanti dimensioni. Non soltanto quindi dall’Africa verso l’Europa ma anche dai Balcani verso l’Europa occidentale, dai paesi dell’Estremo Oriente verso l’Australia e il Giappone, dal Medio Oriente verso l’Europa, dal Messico verso gli Stati Uniti.
Si tratta di un fenomeno che si ripete da quando l’uomo ha abitato la Terra e che – come la storia dimostra – è irreversibile. Si può ostacolare, governare, ritardare, programmare ma non impedire. Questa è la ragione per la quale la distinzione tra “profughi” che fuggono da guerre di sterminio (Siria, Iraq, Sudan, Yemen, guerre civili di varia natura) e “emigranti economici” ha un valore relativo; se la spinta a fuggire è tale da mettere in gioco la propria vita quali che siano le motivazioni le conseguenze saranno identiche.

Il problema europeo
Per governare al meglio il fenomeno e ridurne gli effetti negativi i paesi europei possono percorrere due strade: quella “nazionale” e l’altra “europea”. Tertium non datur.
La prima consiste nel rinchiudersi nei confini nazionali ma richiede innanzi tutto una collocazione geografica poco permeabile; l’Ungheria e la Repubblica Ceca possono farlo facilmente, la Grecia, l’Italia e la Spagna hanno ovviamente maggiori difficoltà. Ma anche laddove è più facile, la via “nazionale” comporta diversi svantaggi: chiusura delle frontiere, ostacoli alla libera circolazione di uomini e cose, rafforzamento dei poteri di polizia, ritorno alla logica pre-bellica dei rapporti di forza, e soprattutto un quasi automatico scivolamento verso forme di democrazia plebiscitaria assai lontane dallo stato di diritto (come infatti sta avvenendo in Polonia e Ungheria). Senza la protezione europea d’altronde paesi di piccole dimensioni, come per esempio quelli balcanici, avrebbero solo la scelta di sopravvivere all’ombra dell’egemonia tedesca o di quella russa.
L’alternativa è l’Unione Europea. Meglio se tale nella realtà oltre che nel nome. Ciò significa cedere un pezzo della propria sovranità all’Unione assegnandogli competenze in materia di gestione dell’immigrazione che oggi non ha, superando trattati concepiti in ben altri momenti e circostanze, come quello di Dublino, (la cui rigida applicazione ha oggettivamente danneggiato i paesi mediterranei di più facile sbarco come Italia, Grecia, Malta, Spagna), e creando strutture di contrasto dotate di mezzi sufficienti a cominciare dalla creazione di centri di raccolta e smistamento in Africa.

Il problema italiano
Nel nostro Paese dati e cifre indicano che il fenomeno immigratorio, malgrado le recenti “invasioni” dall’Africa, è meno rilevante che altrove; i confronti con Germania, Francia e Gran Bretagna lo dimostrano. Inoltre il deficit demografico è in Italia talmente significativo da prevedere entro il 2025 una forte immissione di immigrati se non si vuole penalizzare l’economia nazionale. Perché allora tanto allarme?
Perché la questione è stata male gestita (soprattutto nella prima fase) e l’opinione pubblica non è stata adeguatamente preparata. Si è sottovalutato, per esempio, il problema della compatibilità culturale; l’ostilità maggiore investe infatti gli immigrati musulmani per la convinzione che la loro dimensione religiosa sia contrapposta alle nostre radici cristiane e i loro comportamenti sociali incompatibili con i nostri. Nei confronti degli immigrati romeni, ucraini, serbo-croati, albanesi si riscontra meno avversione perché, a torto o ragione, considerati più assimilabili. E in effetti se ci sono maestre – come è avvenuto – che in nome di un malinteso multiculturalismo eliminano il Natale, si possono comprendere certe reazioni della pubblica opinione. Anche la questione dello jus soli è stata giocata su una contrapposizione strumentale per fare passare gli oppositori come razzisti, mentre di fatto per come era stata proposta essa finiva per svilire il principio di nazionalità il quale, in quanto processo di assimilazione culturale, quando non deriva dalla famiglia di appartenenza, va verificato e riconosciuto soltanto con la maggiore età. Pretendere dagli immigrati l’accettazione dei nostri principi giuridici, delle nostre convinzioni morali, è il solo modo di farli partecipare alla comunità civile e di non ghettizzarli nella loro diversità.
Nonostante questi errori la questione sarebbe stata ancora governabile se l’Unione Europea avesse fatto la sua parte. L’opinione pubblica (anche quella moderata) ha avuto invece l’impressione che tutti i partner europei giocassero a scarica-barile rovesciando sul nostro Paese le loro difficoltà. Dublino o no, qualche gesto più risoluto avrebbe potuto forse evitare alla sinistra l’impressione di impotenza che ha dato; Minniti è stato l’unico a rendersene conto e si è mosso nella giusta direzione ma è stato duramente contestato all’interno del suo partito e comunque è arrivato tardi e non ha saputo utilizzare adeguatamente i canali di comunicazione occupati in permanenza dalla destra nazionalista. La paura di perdere qualche consenso a sinistra ne ha fatti perdere molti di più al centro.
L’esito elettorale del 5 marzo peraltro non era risolutivo. Se il partito democratico avesse consentito al movimento Cinque Stelle di governare, ponendo pochi ma chiari paletti (soprattutto in politica estera), sul problema immigrazione le posizioni avrebbero potuto avvicinarsi molto e si sarebbe evitato che Salvini, saltando a qualunque costo in groppa al nuovo governo, potesse dare quei segnali di “fermezza” che – bisogna ammetterlo – ampi settori dell’opinione pubblica hanno sostanzialmente condiviso. E occorre aggiungere che Macron con le sue contraddizioni, con la sua arroganza, sollecitando le corde della dignità nazionale offesa, è stato (spero inconsapevolmente) il miglior alleato di Salvini.

Oggi il leader della Lega domina la scena, Di Maio, impelagato nelle promesse elettorali impossibili da realizzare, sembra una contro-figura di Salvini, il PD appare lacerato e incapace di rappresentare un’alternativa credibile.
Forse ha ragione Calenda: occorre voltare pagina. Come? Il bello delle pagine nuove è che sono bianche, si può evitare di tenere conto di quel che era scritto nelle precedenti per ricominciare daccapo.

 

Franco Chiarenza
27 giugno 2018

Era un libro per ragazzi che circolava tanti anni fa. La sua trama era incentrata su una piccola città in cui i genitori per punire i figli discoli decidono di fingere un abbandono che tuttavia si trasforma per circostanze imprevedibili in una lunga assenza. I ragazzi svegliatisi l’indomani si trovano a dovere fare i conti con una realtà che non conoscevano: distinguere i buoni (che si preoccupavano del benessere comune soprattutto dei più piccoli e deboli) dai cattivi (che approfittavano dell’assenza dei genitori per instaurare la legge brutale della violenza), fare funzionare i servizi essenziali, darsi delle regole, ecc. Il ritorno dei genitori interromperà un’esperienza che stava diventando drammatica perché, nel bene e nel male, le regole e chi le fa rispettare anche quando non piacciono sono necessarie.
Guardando i penosi balbettii del premier Conte nella conferenza stampa con Macron, i lavori parlamentari affidati all’imperizia di presidenti improvvisati (amorevolmente assistiti dai funzionari), gli annunci razzisti di Salvini immediatamente smentiti da Conte, i 500 profughi dell’Aquarius sballottati nel Mediterraneo mentre altre centinaia sbarcano tranquillamente a Pozzallo, il ministro dell’Economia presentare al Parlamento un DEF in cui dopo avere affermato che il “reddito di cittadinanza” sponsorizzato da Di Maio e la riforma pensionistica che sta tanto a cuore alla Lega sono in cima ai pensieri del governo, ribadisce tuttavia che il deficit non può essere aumentato e che gli odiati parametri europei vanno rigorosamente rispettati (come appunto sosteneva il suo predecessore Padoan), il ministro Di Maio ricevere i nuovi proprietari dell’Ilva per cercare soluzioni ragionevoli (come appunto già stava facendo Calenda prima di lui), mi è venuto in mente il ricordo di Timpetil.
Dilettanti allo sbaraglio i Cinque Stelle, professionisti della peggiore demagogia populista i seguaci di Salvini, assenti “genitori” sconsiderati e irresponsabili che hanno determinato questo caos. E siamo soltanto alle prime battute, non sappiamo cosa ci riserverà il futuro, anche perché di un ritorno dei “genitori” nel nostro caso non c’è traccia.

Franco Chiarenza
20 giugno 2018

C’è un po’ di comprensibile sconcerto tra quelli che non hanno votato e comunque non si riconoscono nelle posizioni dei Cinque Stelle e della Lega. Mi ricorda un po’ un analogo sgomento che accompagnò la vittoria di Berlusconi nel 1994. Ma con una aggravante: che Salvini e Di Maio appaiono come protagonisti di una “rivoluzione” anti-sistema assai più di quanto potesse essere Berlusconi (che peraltro era alleato con due partiti come la Lega di Bossi e Alleanza Nazionale di Fini ancora percepiti, per le loro origini, anch’esse come forze anti-sistema). E più Di Maio e Salvini pongono enfaticamente l’accento sul governo di “cambiamento” più la preoccupazione cresce. Fin dove si intende portare il “cambiamento”? Fino a mettere in discussione le alleanze tradizionali dell’Italia? Fino a uscire dall’Unione Europea? Fino a trasformare la democrazia repubblicana disegnata dalla Costituzione in una “democrazia illiberale” come quella propugnata dal leader ungherese Orban? Lega e Cinque Stelle dicono di no, ma se davvero sono sinceri sanno che all’interno di quei paletti i margini di manovra sono strettissimi e del tutto insufficienti non soltanto a realizzare cambiamenti epocali ma anche a mantenere tutte le promesse fatte in campagna elettorale.

Che fare?
Non resta che aspettare. Tutto ruota intorno a Salvini, sia dal punto di vista tattico che per quanto riguarda l’azione di governo. Se infatti il leader della Lega, con i favorevoli risultati delle elezioni amministrative e con l’esibizione muscolare della chiusura dei porti alle navi cariche di immigrati, ritiene di avere raggiunto il massimo livello di consenso oltre il quale gli inevitabili compromessi di governo potrebbero invece logorarlo, non c’è dubbio che alla prima occasione – probabilmente in autunno – provocherà una crisi di governo; col rischio però che Mattarella, pur di evitare lo scioglimento delle Camere, rimetta in campo l’ipotesi di un accordo tra Cinque Stelle e partito democratico reso possibile da una comprensibile riluttanza del movimento di Grillo ad affrontare nuove elezioni che difficilmente potrebbero ripetere il successo del 4 marzo.
Ma per riesumare la teoria dei due forni (magari sostituendo Fico a Di Maio) occorre che il secondo forno (cioè il PD) sia disponibile, il che al momento attuale non è affatto scontato.
Se invece Salvini ritiene di potere giocare la partita in tempi lunghi riducendo le pretese dei Cinque Stelle (soprattutto per quanto riguarda il “reddito di cittadinanza” assai poco popolare nell’elettorato leghista settentrionale) e spingendo invece l’acceleratore sugli immigrati e su altre riforme (come quella pensionistica) che porterebbero il Paese in rotta di collisione con Bruxelles, il governo, magari con qualche rimpasto, potrebbe durare almeno fino alle elezioni europee del 2019 quando, incassato un forte dividendo elettorale, una sua candidatura alla presidenza del Consiglio diventerebbe possibile. Soprattutto se, nel frattempo, riuscisse anche a fare approvare dal Parlamento una legge elettorale più maggioritaria di quella attuale.

PD?
Nel frattempo il partito democratico deve urgentemente fare i conti con sé stesso, anche a costo di una scissione che sarebbe comunque preferibile alla confusione strategica che lo contraddistingue. Il problema non è quello di una virata a sinistra alla ricerca di un elettorato che non c’è (altrimenti si sarebbe riversato sulla LeU di Grasso) ma invece di rappresentare quell’elettorato di centro che è diviso tra astensione e movimento Cinque Stelle e che potrebbe non condividere l’azione di governo di Salvini e Di Maio man mano che verranno al pettine le conseguenze della loro linea politica nelle grandi scelte economiche e finanziarie (Eurozona, banche e risparmio, fisco, investimenti, occupazione, ecc.). Uno spazio elettorale che potrà essere colmato indifferentemente da un nuovo partito democratico (se cambia nome è meglio), da Forza Italia (se emargina Berlusconi è meglio) o da una nuova formazione sul modello di “En Marche” di Macron o di “Ciudadanos” di Albert Rivera.

Al momento non resta che aspettare. I tanti “liberali qualunque” valuteranno gli atti del governo “consolare” di Di Maio e Salvini senza pregiudizi nella speranza che alcuni di essi contribuiscano a rimuovere incrostazioni corporative e ideologiche che da parte liberale sono sempre state inutilmente denunciate.
Non è tempo di mobilitazioni improvvisate. Finché i capisaldi della democrazia liberale (libertà di comunicazione, indipendenza della magistratura, rispetto della Costituzione e dei trattati che ci consentono di far parte a pieno titolo dell’Unione Europea e dell’ Alleanza Atlantica) non saranno messi in discussione ciò che è avvenuto potrebbe anche rivelarsi come uno strappo utile a fare uscire il Paese dall’immobilismo.

Franco Chiarenza
12 giugno 2018

A crisi conclusa il dibattito sull’operato del Capo dello Stato in questa difficile contingenza può svolgersi più serenamente di quando – nei giorni scorsi – era sostanzialmente inquinato dalle simpatie partigiane per questo o quello schieramento. In esso occorre distinguere due aspetti diversi tra loro ma evidentemente contigui: quello giuridico-costituzionale e l’altro più propriamente politico.

L’articolo 92
Al centro della polemica sui poteri che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica c’è l’ormai celeberrimo articolo 92, mai tanto citato come in questi giorni. Esso, come è noto, attribuisce al Capo dello Stato il potere di nominare il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. Non è questa la sede per addentrarsi nelle molteplici e fin troppo elaborate disquisizioni che hanno accompagnato (non da oggi) l’interpretazione da dare al dettato costituzionale; il problema non è tecnico-giuridico ma politico-giuridico. I limiti entro i quali il presidente della Repubblica può esercitare il potere di nomina sono chiaramente espressi dall’insieme delle norme che regolano l’assetto costituzionale italiano, le quali – piaccia o no – disegnano uno stato parlamentare in cui le maggioranze di Camera e Senato hanno il compito di indicare le scelte politiche e quindi di esprimere il governo. Il presidente della Repubblica può intervenire soltanto in casi limite che riguardano l’idoneità delle personalità prescelte oppure il costituirsi di una situazione di stallo tra le forze politiche, o infine per fronteggiare un’emergenza politica e economica che minaccia la sicurezza del Paese. Per il primo caso ricordiamo il veto opposto dal presidente Scalfaro alla nomina di Previti al ministero della Giustizia nel 1994, per il secondo la decisione del presidente Einaudi nel 1953 di affidare la presidenza del Consiglio a Giuseppe Pella, e infine il caso più recente, quando nel 2011 il presidente Napolitano promosse la costituzione del governo Monti.
La presenza di un economista – della cui competenza nessuno dubita – come ministro dell’Economia nella lista proposta dal presidente incaricato poteva rappresentare un casus belli che autorizzava il presidente a porre il veto, sol perché in passato Paolo Savona aveva pubblicamente espresso la sua avversione alla moneta unica e la convinzione che, in caso estremo, se ne potesse anche uscire? Non essendocene per di più traccia nel programma minuziosamente concordato tra Cinque Stelle e Lega? Francamente non credo; da “liberale qualunque” ho il dubbio che Sergio Mattarella sia andato oltre i limiti dei suoi poteri. Fatta salva naturalmente la sua buona fede che nessuno può mettere in dubbio.
Nelle discussioni che si sono accese un po’ ovunque tutti hanno fatto a gara nel ricordare, oltre quelli già citati, altri interventi del Quirinale nella formazione dei governi; ma si è dimenticato di aggiungere che essi sono sempre rimasti inquadrati nella moral suasion che i presidenti della Repubblica possono legittimamente esercitare, e si sono infatti sempre conclusi con un’intesa – più o meno amichevole – col presidente del Consiglio incaricato. Uno scontro frontale come quello che si è consumato tra Mattarella e Conte e che ha portato alla rinuncia a formare il governo malgrado esistesse in Parlamento una maggioranza che lo sosteneva, a quanto ricordo non si era mai verificato.

L’opportunità politica
Ma al di là della diatriba giuridico-costituzionale dobbiamo chiederci: era politicamente opportuna (o addirittura necessaria, come alcuni sostengono) la rigidità sul nome di Savona? Non credo, e ne spiego le ragioni:

  1. Savona è un esperto economista che sa benissimo (come lui stesso ha dichiarato) che l’uscita dall’euro è un’eventualità da giocare naturalmente in tempi lunghi e con tutta la prudenza del caso e da realizzare soltanto se non si riesce a piegare la Germania a consentire quelle modifiche che l’Italia (ma non soltanto) richiede per contrastare i danni che provengono dalla partecipazione all’Eurozona. Non condivido le tesi di Savona ma so bene che molti autorevoli economisti (compreso il neo-ministro Tria che ne ha preso il posto) sono sostanzialmente sulle sue posizioni. E comunque ci sarà tempo e modo di intervenire quando il problema si porrà concretamente.
  2. Il veto sul nome di Savona alimenta il populismo demagogico anti-tedesco che sta crescendo nell’elettorato. Dare la colpa delle nostre insufficienze al desiderio perverso di distruggerci da parte di nemici immaginari è una strategia ben nota da sempre: si chiama “capro espiatorio”. Domando a Mattarella (e a quei tedeschi che a diverso titolo sono entrati nelle nostre vicende con la stessa leggerezza di un elefante in un negozio di cristalleria): cui prodest?
  3. La resistenza di Mattarella è facilmente vendibile a un’opinione pubblica smarrita e disinformata come il colpo di coda di un establishment duramente colpito dalla volontà popolare e che non vuole abbandonare il potere. Cosa che Di Maio e Salvini si sono affrettati a fare un’ora dopo che Conte aveva rinunciato al mandato. Col risultato che le quotazioni di Salvini hanno guadagnato almeno sette punti in percentuale.
  4. Mattarella ha esercitato le sue funzioni fino ad ora con grande equilibrio guadagnandosi un giusto prestigio. Ma non è un personaggio politicamente neutrale; è stato eletto da una maggioranza parlamentare di centro-sinistra senza alcuna condivisione con quella che allora era l’opposizione, e proviene da una militanza politica che risale alla Democrazia cristiana e in particolare alla sua componente di sinistra (come d’altronde suo fratello Piersanti barbaramente assassinato dalla mafia). L’attuale maggioranza non mancherà di ricordare le sue origini politiche in ogni occasione utile per tenerlo sotto scacco.
  5. Esiste una regola della democrazia, discutibile ma inevitabile se non si vuole cadere in un paternalismo politico che non è di casa in un sistema liberale: lasciare governare chi vince le elezioni. Demagogia, disinformazione, populismo velleitario si infrangono soltanto di fronte alle realtà incontrovertibili che dimostrano che vincoli e sacrifici non sono espressioni di poteri occulti che agiscono contro i nostri interessi ma il risultato di errori compiuti da noi e che vanno corretti da noi nel nostro interesse. Dentro o fuori dall’euro non cambia nulla; l’illusione che qualche manovra finanziaria fondata sulla flessibilità dei cambi monetari possa risparmiarci i sacrifici necessari è molto diffusa e alimentata da apprendisti stregoni che non tarderebbero a scomparire quando l’acqua alta cominciasse a salire producendo inflazione, bruciando il risparmio, diminuendo ulteriormente la credibilità del sistema Italia sui mercati internazionali.

 

Franco Chiarenza
1 giugno 2018

Dalle bozze del “contratto” di governo, cioè del programma che dovrebbe caratterizzare il nuovo Esecutivo, fatte circolare e poi prontamente smentite al fine evidente di sondare le reazioni in Italia e all’estero, poco si capisce: c’è molta indeterminatezza anche sui punti chiave proclamati in campagna elettorale come inderogabili, e fa la sua comparsa un “comitato di conciliazione” al quale sono rimesse le eventuali controversie che dovessero prodursi nell’esercizio concreto del governo. E da chi sarebbe composto tale comitato? Forse da figure arbitrali “terze”? No. Da Di Maio e Salvini con il ministro responsabile della materia di cui si tratta. E il presidente del Consiglio? E’ come se non ci fosse e infatti ancora non si sa chi potrebbe essere.

Consolato?
La storia ha già conosciuto forme di governo fondate su un binomio anziché su una sola persona: la più nota è il consolato nella Roma repubblicana che però durava soltanto un anno e condivideva di fatto l’esercizio del potere con altre magistrature elettive (il tribunato della plebe, i questori, i pretori) e soprattutto con il Senato che rappresentava la tradizione e quelli che oggi definiremmo “poteri forti”. Un equilibrato sistema di contrappesi che prefigurava in qualche misura il check and balance dei moderni stati liberali ma che era caratterizzato anche da una grande fragilità che ha dato luogo a sanguinose guerre civili sfociate infine nella trasformazione della repubblica in un sistema imperiale.
Quello che si profila oggi è un approdo istituzionale che in qualche modo ricorda la lontana esperienza romana: avremo di fatto, secondo le bozze circolanti, due “consoli”, Di Maio e Salvini, che si riservano l’ultima parola su tutto, un governo che si limita a funzioni puramente amministrative, un parlamento ancora potenzialmente infido (perché protetto dall’art. 67 della Costituzione) ma che si vuole disciplinare in futuro attraverso l’adozione del mandato imperativo.
Un disegno di ampio respiro, funzionale alle radici populiste di entrambi i partiti, che va a sfociare inevitabilmente in un sistema di democrazia plebiscitaria molto diverso dai modelli di democrazia liberale in cui ci riconosciamo.

Programmi
Se questo sarà il contesto fondativo del nuovo governo si capisce perché sui punti programmatici più controversi si sia preferito glissare o rendendoli vaghi oppure rinviandone la realizzazione nei tempi e nei modi che i “consoli” concorderanno; l’importante è creare una cornice istituzionale diversa da quella attuale, sul resto ci si confronterà.
Così la legge Fornero dovrà essere “superata” ma non soppressa, sulle grandi opere pubbliche (TAV compresa) si deciderà tenendo conto delle diverse sensibilità, il reddito di cittadinanza diventa una sorta di indennità di disoccupazione allargata, l’immigrazione dovrà essere regolamentata (come, quando, da chi?), i trattati europei vanno cambiati, soprattutto laddove impongono limiti all’indebitamento, ma la sua cornice istituzionale va salvaguardata e potenziata (in particolare per quanto riguarda i poteri del parlamento), dall’eurozona si deve potere uscire ma non è detto né se lo si farà né come eventualmente farlo (del referendum proposto da Grillo nessuna traccia). Sulla flat tax il richiamo alla progressività sancita dalla Costituzione e la mancata fissazione delle aliquote rende molto indeterminata la reale portata della diminuzione degli oneri fiscali e previdenziali. Anche sull’immigrazione irregolare, e soprattutto sulle modalità concrete per arginarla, si nota una formulazione molto meno aggressiva dei toni usati da Salvini in campagna elettorale. Le altre cose sono in gran parte banalità che si trovano nei programmi di tutti i partiti e che dipendono dalla volontà politica e dalla capacità di chi governa.

La volontà popolare
Definiamo populisti quei movimenti che antepongono la volontà popolare ai processi di mediazione previsti dalle moderne democrazie liberali. Ma “il popolo” in realtà non esiste: esistono invece tanti “popoli” che riflettono identità e interessi diversi e spesso contrapposti; per questo trovare una strategia di governo comune tra movimenti populisti è difficile.
Nel nostro caso la Lega trae la sua forza da radici separatiste ancora presenti nelle regioni padane che si traducono nella speranza di trattenere sui propri territori la maggior parte delle risorse che producono: in sostanza l’elettorato leghista del nord vuole maggiore autonomia fiscale e meno burocrazia, ma sa benissimo che l’economia settentrionale si fonda in larga misura sulle esportazioni. L’idea quindi di protezioni doganali (che comporterebbero inevitabili ritorsioni) trova pochi consensi e la svolta nazionalistica della Lega suscita molte perplessità per le implicazioni che potrebbe avere nella distribuzione delle risorse e nei rapporti con l’ Europa. La fiducia in Salvini e sulla sua scommessa “romana” è quindi accordata con riserva.
Il movimento Cinque Stelle non ha radici chiaramente definite e men che meno è in grado di esprimere un gruppo dirigente politicamente formato (come invece ha la Lega). Portando la demagogia populista alle estreme conseguenze esso teorizza la possibilità di governare senza specifiche competenze, limitandosi a registrare la “volontà popolare” (peraltro filtrata attraverso il portale Rousseau mediante il quale i fondatori mantengono un potere di ultima istanza nei confronti della base). Peraltro l’origine “ideologica” dei Cinque Stelle va ricercata in una sensibilità ambientale enfatizzata anche a costo di ridurre i modelli esistenziali oggi prevalenti – il cosiddetto “sviluppo sostenibile” – che in molti casi appare molto lontana dagli interessi imprenditoriali del nord, ma popolare tra quanti si sentono esclusi da una crescita fondata sulla competizione e sulle inevitabili diseguaglianze. Le questioni relative all’economia, alla finanza, alla politica internazionale sono sempre restate ai margini del loro dibattito interno o comunque trattate con molta superficialità. Man mano però che il movimento è cresciuto raccogliendo istanze di protesta e di disagio che spesso avevano poco a che fare con l’ispirazione originaria, e si è avvicinato all’esercizio concreto del potere, le contraddizioni hanno cominciato a esplodere sin dagli inizi con il caso Pizzarotti a Parma, e soltanto l’intervento autoritario dei fondatori ha impedito che le crepe si allargassero. Non è quindi tanto paradossale che Il plenum elettorale dei Cinque Stelle, sostanzialmente indifferenti alle compatibilità finanziarie, si sia prodotto nel Mezzogiorno dove il disagio e la protesta sono stati incanalati (col contributo determinante della disinformazione dei socialnetwork) in un movimento che esibiva un moralismo accattivante e prometteva interventi assistenziali a fondo perduto ai quali molti (troppi) meridionali non vogliono rinunciare.
Si tratta, come si vede, di storie, interessi, speranze, molto diversi tra loro e difficilmente componibili in uno stesso programma di governo. Per questo le trattative sono state estenuanti e probabilmente si concluderanno col peggiore dei compromessi: un governo debole sostenuto da una maggioranza fragile e – nella prospettiva di tornare presto alle urne – il rinvio della soluzione dei maggiori problemi a data da destinarsi.

 

Franco Chiarenza
17 maggio 2018

Pensare che nulla di nuovo stia accadendo e che questa sia, tutto sommato, una crisi come le altre, sarebbe da sciocchi. In realtà molte cose stanno cambiando nel metodo e nei contenuti e bisogna prenderne atto, anche per capire se davvero quello che i Cinque Stelle stanno imponendo è un modo nuovo di declinare la democrazia e quanto ciò possa modificare la dialettica politica.
Il sistema ideato da Grillo e Casaleggio in effetti scardina quella che definiscono “la casta”, cioè la classe politica, creando un continuo ricambio nelle strutture di governo ad ogni livello che impedisce il consolidamento di qualsiasi alternativa; gli unici che non cambiano mai sono loro, Grillo e Casaleggio, i quali controllano attraverso un’attenta gestione del mito del “fondatore” e una ristretta minoranza accuratamente selezionata mediante gli strumenti mediatici a loro disposizione la scelta dei candidati e gli umori popolari che si manifestano nel Paese. L’esperienza politica (quel “cursus” praticato sin dai tempi lontani delle democrazie greco-romane) viene rottamata e messa in soffitta, la competenza è considerata un supporto tecnico da usare senza esserne condizionati. In pratica un passaggio dalla democrazia guidata dai partiti (partitocrazia) a un regime sostanzialmente plebiscitario regolato attraverso la rete internet, molto lontano dai principi liberali del check and balance che sono alla base delle democrazie occidentali.
Il rifiuto di qualsiasi ideologia di riferimento e l’attenzione esclusiva ai problemi contingenti che ne conseguono consentono al movimento di muoversi a tutto campo con la sola eccezione dell’”onestà” che costituisce il collante retorico delle diverse pulsioni che contribuiscono al successo elettorale del movimento; anche se tutti sanno – a cominciare dai “fondatori” – che un progetto basato su un’idea di Paese è pur sempre necessario. E infatti leggendo gli scritti di Gianroberto Casaleggio appare abbastanza evidente che il modello a cui si guarda è quello della “decrescita felice” mutuato da Serge Latouche. Ma poiché qualsiasi ideologia rappresenta per sé stessa un momento divisivo, la strategia del movimento – almeno al momento – è quella di tenerla celata per raccogliere un facile consenso sulle inefficienze dei governi precedenti, sulla corruzione e i privilegi che hanno segnato l’esercizio del potere della classe politica, su un generico ambientalismo e sulle domande di equità sociale che salgono da settori sempre più ampi del Paese. Quanto basta a fare convergere realtà di base molto eterogenee.

Il contratto di governo
In tale contesto la strategia del movimento di Grillo appare sempre più chiara: coerenti con la loro filosofia che la politica debba consistere in una fedele rappresentazione della domanda popolare e che le necessarie competenze costituiscano una funzione di servizio complementare, i pentastellati hanno impostato la gestione della crisi sui contenuti piuttosto che su progetti ideologici. L’immagine che vogliono dare di sé nell’avviarsi a gestire un potere non più locale è quella di privilegiare i contenuti del programma di governo – quello che chiamano il contratto di governo per sottolinearne il carattere vincolante – piuttosto che le persone che devono realizzarlo. In questo modo restano coerenti col principio “uno vale uno” che trova oggi in ampi settori della società civile vasti consensi e, al tempo stesso, si sentono legittimati, se obbligati a una coalizione, a giocare indifferentemente su più tavoli, dato che ciò che conta sono i contenuti dell’accordo. Non solo: essi impongono in tal modo le nuove regole del gioco a tutti gli interlocutori costringendoli in una camicia di forza programmatica di cui loro soltanto restano gli ultimi giudici. Naturalmente l’ingenuità programmatica ha dei limiti (che probabilmente chi tira i fili dietro la maschera del “Rousseau” conosce bene) costituiti dall’imprevedibilità delle priorità di governo, soprattutto in una società globale e interconnessa come quella del nostro tempo; il “contratto di governo” finisce quindi per essere come tutti i documenti programmatici un elenco di buone intenzioni la cui realizzazione resta condizionata da fattori non sempre prevedibili. Ma resta uno strumento utile per dare un’immagine di cambiamento rispetto alla visione caricaturale delle precedenti stagioni politiche diffusa nell’immaginario collettivo di chi non conosce la storia. Il gioco in realtà è molto antico: se le cose andranno bene (a prescindere dai meriti o demeriti di chi governa) consolideranno consenso e quindi potere, se dovessero andare male potranno sempre scaricarne la responsabilità sugli alleati.
Il gioco però funziona finché si tratta di lotta alla corruzione, eliminazione dei privilegi “di casta”, rigore negli appalti, giustizialismo strumentale per eliminare dalla partita gli oppositori; diventa più difficile quando bisogna decidere sui grandi problemi posti dalla globalizzazione, dalle politiche europee, dalle compatibilità di bilancio con i mercati finanziari che di fatto sostengono il nostro debito pubblico, dai conflitti sempre più frequenti tra sensibilità ambientale e produzione industriale, da un sistema di welfare insostenibile per l’invecchiamento crescente della popolazione. Su questi problemi finora i Cinque Stelle hanno sempre risolto le contraddizioni per sommatoria, cioè promettendo tutto e il contrario di tutto.
L’accordo con la Lega si presenta difficile perché il partito di Salvini – al contrario dei Cinque Stelle – ha un profilo ideologico abbastanza definito: nazionalista, anti-europeo, con forti connotati repressivi nei confronti dell’immigrazione irregolare e della sicurezza pubblica. Salvini sa che, al di là della conclamata soppressione della legge Fornero, i punti reali di contatto con il movimento di Grillo sono pochi. Egli punta sul fatto che le alleanze tra un soggetto politico “forte” come il suo e un concorrente più flessibile vanno a vantaggio del primo, non può però ignorare che il gruppo parlamentare su cui – almeno in teoria – può puntare Di Maio è quasi il doppio, per di più concentrato in gran parte nel voto meridionale raccolto su presupposti e promesse assai diversi da quelli su cui al nord la Lega fonda il suo consenso. Quando dalle parole si passerà ai numeri, cioè alle risorse da destinare concretamente ai capitoli di bilancio, le contraddizioni esploderanno.
Se infatti il “contratto di governo” è serio – come quello tedesco evocato da Di Maio – esso non prescinde mai da un contesto di compatibilità finanziaria; soprattutto in Italia dove il problema fondamentale resta quello di non aumentare il debito pubblico e possibilmente ridurlo.

Berlusconi
La marcia indietro di Berlusconi si è resa necessaria, al di là dei comprensibili veti dei Cinque Stelle, per consentire la formazione di un governo anche a costo di rinviare la resa dei conti sui nodi fondamentali, ed è motivata da una sola ragione: evitare il ritorno alle urne. Non soltanto per le ovvie resistenze dei parlamentari appena eletti ma anche perché esso rappresenta un rischio che nessuno vuole correre: se infatti – come è possibile – i risultati non fossero molto diversi dal 4 marzo (almeno nella conferma di un tripolarismo di fatto) la situazione resterebbe identica, ma se si verificassero possibili contraccolpi (soprattutto in un elettorato strutturalmente volubile come quello che ha votato Cinque Stelle) si aprirebbero scenari imprevedibili senza contare un probabile aumento di astenuti che delegittimerebbe l’intero futuro parlamento.
C’è però dell’altro. Se le distanze tra Forza Italia e Salvini aumentassero si offrirebbe a Berlusconi l’opportunità di rappresentare quella parte di elettorato di centro-destra che non si riconosce nelle posizioni estremistiche della Lega; scegliendo con cura il momento della rottura e proponendo una nuova leadership in grado di trovare validi interlocutori nel mondo imprenditoriale il vecchio leader potrebbe contendere alla Lega la parte più moderata dei suoi elettori, spingendo Salvini verso l’estrema destra. Nel contempo bloccherebbe il tentativo di Renzi di espandersi al centro, costringendolo a ricompattarsi con la sinistra del PD. Ma per fare questo bisognerebbe non essere Berlusconi.

Renzi
Invece di fare un passo indietro Matteo Renzi ha fatto uno sgambetto, facendo cadere prima ancora di sedersi al tavolo ogni possibile accordo tra il suo partito e il movimento Cinque Stelle. La strategia di Renzi appare chiara: lasciare governare i due movimenti populisti nella speranza che inciampino nelle difficoltà oggettive che hanno travolto lui stesso per poi ripresentarsi come salvatore della Patria. Un piano che sa più di risentimento personale, di vendetta contro il popolo (di sinistra) che lo ha tradito, che non di una visione convincente sul futuro del Paese.
Se davvero (e questo va verificato) il movimento di Grillo non è un fatto transitorio destinato a dissolversi (come fu per l’Uomo Qualunque dopo la guerra) ma intercetta un modo nuovo e diverso di concepire la politica e soprattutto incarna una domanda di onestà politica (del cui miserevole stato anche la sinistra porta la sua parte di responsabilità), una visione lungimirante avrebbe dovuto portare a un confronto tra partito democratico e movimento Cinque Stelle. Averlo rifiutato, e per giunta in modo pregiudiziale, è stato probabilmente l’ennesimo errore di Renzi. Se infatti si fosse raggiunto un accordo per un appoggio esterno, condizionato da paletti insuperabili (Europa, stabilità di bilancio, fedeltà alle alleanze), il PD avrebbe conseguito diversi risultati: dimostrare senso di responsabilità verso il Paese (come suggeriva Mattarella), incanalare l’attività di governo verso obiettivi compatibili, accettare senza problemi un’autocritica sugli errori commessi (però non sulle leggi fondamentali su pensioni, scuola e lavoro, che possono essere ridiscusse ma non eliminate), proporsi anche nella sconfitta come elemento affidabile di stabilità al servizio del Paese. Non credo che l’elettorato di centro sinistra avrebbe condannato questo comportamento.
In più un appoggio esterno a un monocolore Cinque Stelle (condito con qualche “tecnico” concordato) avrebbe accelerato il distacco di Berlusconi da Salvini, costringendo quest’ultimo a chiudersi nella ridotta estremistica della Lega in compagnia dei post-fascisti della Meloni.
Ma per fare questa operazione bisognava non essere Renzi.

 

Franco Chiarenza
12 maggio 2018

E’ davvero così strano che il Movimento Cinque Stelle cerchi un’intesa con i democratici certamente con maggiore convinzione di quanto non abbia fatto con il centro-destra? Non lo è, non soltanto perché una parte importante del suo elettorato proviene da sinistra (come da più parti si è ricordato) ma anche per ragioni programmatiche concrete.

Programmi
Checché ne dicano i luogotenenti di Renzi i programmi messi sul tavolo (che divergono notevolmente da quelli agitati in campagna elettorale) non sono contrapposti, anche per la genericità della loro formulazione.
I grandi temi che hanno impegnato la campagna elettorale sono tre: immigrazione irregolare, Europa, disoccupazione. Sui modi e le forme del contrasto all’immigrazione clandestina un’intesa è possibile, soprattutto dopo che le misure adottate dal governo Gentiloni hanno cominciato a dare i loro frutti; si tratta soltanto di proseguire sulla stessa strada con maggiore incisività, né i Cinque Stelle hanno in proposito presentato alternative sostanziali. Sull’Europa i “grillini” hanno fortemente attenuato le posizioni del passato; possono essere considerati poco credibili ma sta di fatto che il problema non è più quello di stare in Europa e nell’Eurozona ma di come ci si sta, che è una cosa che dicono tutti (anche se poi qualcuno dovrebbe spiegarci come). Sulle misure di sostegno ai disoccupati cambiano le denominazioni e le quantità di risorse da impegnare, ma sul fatto che siano necessarie i due interlocutori sono d’accordo (anche in questo caso Gentiloni si è spinto già molto avanti); si tratta di conciliare questa esigenza col principio di non aumentare il debito pubblico, una preoccupazione di cui anche Di Maio si è detto consapevole.
Ci sono poi due punti di cui non si è discusso molto in campagna elettorale: la politica di bilancio e la scuola. Sul primo il movimento Cinque Stelle si è da tempo allineato sulle posizioni di prudenza richieste dai mercati internazionali, sul secondo permane qualche ambiguità ma quando Di Maio spiegherà meglio come si fa a non mandare gli insegnanti dove servono (cioè dove ci sono gli studenti), stante l’impossibilità di spostare gli studenti nei luoghi di residenza della maggioranza dei docenti, le velleità demagogiche dei Cinque Stelle finalizzate a raccogliere i voti degli insegnanti meridionali e delle loro famiglie finiranno, come è giusto, su un binario morto.
Tutto sommato, quindi, i programmi del partito democratico e quelli del movimento Cinque Stelle sono più sovrapponibili di quanto non fosse con la Lega, la quale, almeno sull’Europa e sull’immigrazione esibisce convincimenti e proposte assai diversi.

Timori
Ma per fare un accordo di governo i programmi non bastano. Sia il partito democratico che il movimento di Grillo sanno che un’eventuale maggioranza costruita su un accordo tra loro sarebbe assai fragile sia sul piano parlamentare (al Senato in particolare) che nelle rispettive opinioni pubbliche troppo avvelenate da una campagna scorretta e sopra le righe. Nuove elezioni a breve scadenza rappresentano quindi un’ipotesi realistica. In tale contesto si ripiomba nel clima di contrapposizione (dal quale in realtà non si è mai usciti) e si guarda più agli umori della base che non agli interessi del Paese (comunque interpretati). Non a caso entrambe le parti si riservano di sottoporre ai propri iscritti ogni eventuale accordo. L’unico vantaggio sarebbe costituito da una tregua politica da utilizzare per chiudere la partita di bilancio con l’Unione Europea, garantire l’entrata in vigore di alcune riforme varate dal governo Gentiloni di cui si parla poco e sono invece molto importanti (riforma carceraria, appalti, rapporti con le Regioni, esenzioni fiscali alle imprese innovative, ecc.), e soprattutto modificare la legge elettorale attenuando l’impronta proporzionalistica che caratterizza l’attuale sistema. Si arriverebbe così alle elezioni europee del 2019 e poi…..chi vivrà vedrà.

Suscettibilità
Ma non basta ancora. Al di là delle diversità programmatiche, oltre i timori elettorali, bisogna anche fare i conti con le suscettibilità personali. La legislatura passata è stata flagellata da una campagna d’odio (che si è espressa soprattutto nei social e nei talk show) che ha creato abissi di incomprensione e di offese personali. Una volta si litigava sulle idee e si evitavano le personalizzazioni: l’avversario era uno che la pensava diversamente e con lui si poteva prendere un caffè o parlare di cinema senza azzuffarsi. Oggi è il contrario: si odiano le persone a prescindere dalle idee di cui sono portatrici (che talvolta nemmeno si conoscono), e la contrapposizione investe i rapporti personali e familiari fino all’insulto; sembra di essere tornati ai tempi dei Capuleti e Montecchi nella Verona di Romeo e Giulietta. Con la complicità dei nuovi mezzi di comunicazione si è aperta una gara a dare il peggio di sé e soprattutto a parlarsi soltanto tra chi la pensa allo stesso modo. Se è vero che la democrazia si fonda sulla tolleranza e sul rispetto delle convinzioni diverse dalla propria, se contare le teste non deve comportare il diritto di rompere quelle dei perdenti, se, insomma, crediamo che il metodo è altrettanto importante dei contenuti, dobbiamo constatare di avere fatto uno spaventoso passo indietro.

Ecco perché la possibilità di un governo a maggioranza Cinque Stelle – Partito Democratico, al di là delle comprensibili contorsioni dei rispettivi gruppi dirigenti, si presenta in salita. Mentre acquista credito l’idea di costituire un “governo di necessità”, costituito da persone competenti e per bene disposte a immolarsi al fuoco incrociato che si leverà da ogni parte, il cui unico compenso sarà di raccontare ai propri nipoti di avere dato, in un momento di difficoltà, un contributo disinteressato al superamento di una situazione di emergenza. E non potranno nemmeno sperare di diventare senatori a vita.

 

Franco Chiarenza
28 aprile 2018