A crisi conclusa il dibattito sull’operato del Capo dello Stato in questa difficile contingenza può svolgersi più serenamente di quando – nei giorni scorsi – era sostanzialmente inquinato dalle simpatie partigiane per questo o quello schieramento. In esso occorre distinguere due aspetti diversi tra loro ma evidentemente contigui: quello giuridico-costituzionale e l’altro più propriamente politico.

L’articolo 92
Al centro della polemica sui poteri che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica c’è l’ormai celeberrimo articolo 92, mai tanto citato come in questi giorni. Esso, come è noto, attribuisce al Capo dello Stato il potere di nominare il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. Non è questa la sede per addentrarsi nelle molteplici e fin troppo elaborate disquisizioni che hanno accompagnato (non da oggi) l’interpretazione da dare al dettato costituzionale; il problema non è tecnico-giuridico ma politico-giuridico. I limiti entro i quali il presidente della Repubblica può esercitare il potere di nomina sono chiaramente espressi dall’insieme delle norme che regolano l’assetto costituzionale italiano, le quali – piaccia o no – disegnano uno stato parlamentare in cui le maggioranze di Camera e Senato hanno il compito di indicare le scelte politiche e quindi di esprimere il governo. Il presidente della Repubblica può intervenire soltanto in casi limite che riguardano l’idoneità delle personalità prescelte oppure il costituirsi di una situazione di stallo tra le forze politiche, o infine per fronteggiare un’emergenza politica e economica che minaccia la sicurezza del Paese. Per il primo caso ricordiamo il veto opposto dal presidente Scalfaro alla nomina di Previti al ministero della Giustizia nel 1994, per il secondo la decisione del presidente Einaudi nel 1953 di affidare la presidenza del Consiglio a Giuseppe Pella, e infine il caso più recente, quando nel 2011 il presidente Napolitano promosse la costituzione del governo Monti.
La presenza di un economista – della cui competenza nessuno dubita – come ministro dell’Economia nella lista proposta dal presidente incaricato poteva rappresentare un casus belli che autorizzava il presidente a porre il veto, sol perché in passato Paolo Savona aveva pubblicamente espresso la sua avversione alla moneta unica e la convinzione che, in caso estremo, se ne potesse anche uscire? Non essendocene per di più traccia nel programma minuziosamente concordato tra Cinque Stelle e Lega? Francamente non credo; da “liberale qualunque” ho il dubbio che Sergio Mattarella sia andato oltre i limiti dei suoi poteri. Fatta salva naturalmente la sua buona fede che nessuno può mettere in dubbio.
Nelle discussioni che si sono accese un po’ ovunque tutti hanno fatto a gara nel ricordare, oltre quelli già citati, altri interventi del Quirinale nella formazione dei governi; ma si è dimenticato di aggiungere che essi sono sempre rimasti inquadrati nella moral suasion che i presidenti della Repubblica possono legittimamente esercitare, e si sono infatti sempre conclusi con un’intesa – più o meno amichevole – col presidente del Consiglio incaricato. Uno scontro frontale come quello che si è consumato tra Mattarella e Conte e che ha portato alla rinuncia a formare il governo malgrado esistesse in Parlamento una maggioranza che lo sosteneva, a quanto ricordo non si era mai verificato.

L’opportunità politica
Ma al di là della diatriba giuridico-costituzionale dobbiamo chiederci: era politicamente opportuna (o addirittura necessaria, come alcuni sostengono) la rigidità sul nome di Savona? Non credo, e ne spiego le ragioni:

  1. Savona è un esperto economista che sa benissimo (come lui stesso ha dichiarato) che l’uscita dall’euro è un’eventualità da giocare naturalmente in tempi lunghi e con tutta la prudenza del caso e da realizzare soltanto se non si riesce a piegare la Germania a consentire quelle modifiche che l’Italia (ma non soltanto) richiede per contrastare i danni che provengono dalla partecipazione all’Eurozona. Non condivido le tesi di Savona ma so bene che molti autorevoli economisti (compreso il neo-ministro Tria che ne ha preso il posto) sono sostanzialmente sulle sue posizioni. E comunque ci sarà tempo e modo di intervenire quando il problema si porrà concretamente.
  2. Il veto sul nome di Savona alimenta il populismo demagogico anti-tedesco che sta crescendo nell’elettorato. Dare la colpa delle nostre insufficienze al desiderio perverso di distruggerci da parte di nemici immaginari è una strategia ben nota da sempre: si chiama “capro espiatorio”. Domando a Mattarella (e a quei tedeschi che a diverso titolo sono entrati nelle nostre vicende con la stessa leggerezza di un elefante in un negozio di cristalleria): cui prodest?
  3. La resistenza di Mattarella è facilmente vendibile a un’opinione pubblica smarrita e disinformata come il colpo di coda di un establishment duramente colpito dalla volontà popolare e che non vuole abbandonare il potere. Cosa che Di Maio e Salvini si sono affrettati a fare un’ora dopo che Conte aveva rinunciato al mandato. Col risultato che le quotazioni di Salvini hanno guadagnato almeno sette punti in percentuale.
  4. Mattarella ha esercitato le sue funzioni fino ad ora con grande equilibrio guadagnandosi un giusto prestigio. Ma non è un personaggio politicamente neutrale; è stato eletto da una maggioranza parlamentare di centro-sinistra senza alcuna condivisione con quella che allora era l’opposizione, e proviene da una militanza politica che risale alla Democrazia cristiana e in particolare alla sua componente di sinistra (come d’altronde suo fratello Piersanti barbaramente assassinato dalla mafia). L’attuale maggioranza non mancherà di ricordare le sue origini politiche in ogni occasione utile per tenerlo sotto scacco.
  5. Esiste una regola della democrazia, discutibile ma inevitabile se non si vuole cadere in un paternalismo politico che non è di casa in un sistema liberale: lasciare governare chi vince le elezioni. Demagogia, disinformazione, populismo velleitario si infrangono soltanto di fronte alle realtà incontrovertibili che dimostrano che vincoli e sacrifici non sono espressioni di poteri occulti che agiscono contro i nostri interessi ma il risultato di errori compiuti da noi e che vanno corretti da noi nel nostro interesse. Dentro o fuori dall’euro non cambia nulla; l’illusione che qualche manovra finanziaria fondata sulla flessibilità dei cambi monetari possa risparmiarci i sacrifici necessari è molto diffusa e alimentata da apprendisti stregoni che non tarderebbero a scomparire quando l’acqua alta cominciasse a salire producendo inflazione, bruciando il risparmio, diminuendo ulteriormente la credibilità del sistema Italia sui mercati internazionali.

 

Franco Chiarenza
1 giugno 2018

Dalle bozze del “contratto” di governo, cioè del programma che dovrebbe caratterizzare il nuovo Esecutivo, fatte circolare e poi prontamente smentite al fine evidente di sondare le reazioni in Italia e all’estero, poco si capisce: c’è molta indeterminatezza anche sui punti chiave proclamati in campagna elettorale come inderogabili, e fa la sua comparsa un “comitato di conciliazione” al quale sono rimesse le eventuali controversie che dovessero prodursi nell’esercizio concreto del governo. E da chi sarebbe composto tale comitato? Forse da figure arbitrali “terze”? No. Da Di Maio e Salvini con il ministro responsabile della materia di cui si tratta. E il presidente del Consiglio? E’ come se non ci fosse e infatti ancora non si sa chi potrebbe essere.

Consolato?
La storia ha già conosciuto forme di governo fondate su un binomio anziché su una sola persona: la più nota è il consolato nella Roma repubblicana che però durava soltanto un anno e condivideva di fatto l’esercizio del potere con altre magistrature elettive (il tribunato della plebe, i questori, i pretori) e soprattutto con il Senato che rappresentava la tradizione e quelli che oggi definiremmo “poteri forti”. Un equilibrato sistema di contrappesi che prefigurava in qualche misura il check and balance dei moderni stati liberali ma che era caratterizzato anche da una grande fragilità che ha dato luogo a sanguinose guerre civili sfociate infine nella trasformazione della repubblica in un sistema imperiale.
Quello che si profila oggi è un approdo istituzionale che in qualche modo ricorda la lontana esperienza romana: avremo di fatto, secondo le bozze circolanti, due “consoli”, Di Maio e Salvini, che si riservano l’ultima parola su tutto, un governo che si limita a funzioni puramente amministrative, un parlamento ancora potenzialmente infido (perché protetto dall’art. 67 della Costituzione) ma che si vuole disciplinare in futuro attraverso l’adozione del mandato imperativo.
Un disegno di ampio respiro, funzionale alle radici populiste di entrambi i partiti, che va a sfociare inevitabilmente in un sistema di democrazia plebiscitaria molto diverso dai modelli di democrazia liberale in cui ci riconosciamo.

Programmi
Se questo sarà il contesto fondativo del nuovo governo si capisce perché sui punti programmatici più controversi si sia preferito glissare o rendendoli vaghi oppure rinviandone la realizzazione nei tempi e nei modi che i “consoli” concorderanno; l’importante è creare una cornice istituzionale diversa da quella attuale, sul resto ci si confronterà.
Così la legge Fornero dovrà essere “superata” ma non soppressa, sulle grandi opere pubbliche (TAV compresa) si deciderà tenendo conto delle diverse sensibilità, il reddito di cittadinanza diventa una sorta di indennità di disoccupazione allargata, l’immigrazione dovrà essere regolamentata (come, quando, da chi?), i trattati europei vanno cambiati, soprattutto laddove impongono limiti all’indebitamento, ma la sua cornice istituzionale va salvaguardata e potenziata (in particolare per quanto riguarda i poteri del parlamento), dall’eurozona si deve potere uscire ma non è detto né se lo si farà né come eventualmente farlo (del referendum proposto da Grillo nessuna traccia). Sulla flat tax il richiamo alla progressività sancita dalla Costituzione e la mancata fissazione delle aliquote rende molto indeterminata la reale portata della diminuzione degli oneri fiscali e previdenziali. Anche sull’immigrazione irregolare, e soprattutto sulle modalità concrete per arginarla, si nota una formulazione molto meno aggressiva dei toni usati da Salvini in campagna elettorale. Le altre cose sono in gran parte banalità che si trovano nei programmi di tutti i partiti e che dipendono dalla volontà politica e dalla capacità di chi governa.

La volontà popolare
Definiamo populisti quei movimenti che antepongono la volontà popolare ai processi di mediazione previsti dalle moderne democrazie liberali. Ma “il popolo” in realtà non esiste: esistono invece tanti “popoli” che riflettono identità e interessi diversi e spesso contrapposti; per questo trovare una strategia di governo comune tra movimenti populisti è difficile.
Nel nostro caso la Lega trae la sua forza da radici separatiste ancora presenti nelle regioni padane che si traducono nella speranza di trattenere sui propri territori la maggior parte delle risorse che producono: in sostanza l’elettorato leghista del nord vuole maggiore autonomia fiscale e meno burocrazia, ma sa benissimo che l’economia settentrionale si fonda in larga misura sulle esportazioni. L’idea quindi di protezioni doganali (che comporterebbero inevitabili ritorsioni) trova pochi consensi e la svolta nazionalistica della Lega suscita molte perplessità per le implicazioni che potrebbe avere nella distribuzione delle risorse e nei rapporti con l’ Europa. La fiducia in Salvini e sulla sua scommessa “romana” è quindi accordata con riserva.
Il movimento Cinque Stelle non ha radici chiaramente definite e men che meno è in grado di esprimere un gruppo dirigente politicamente formato (come invece ha la Lega). Portando la demagogia populista alle estreme conseguenze esso teorizza la possibilità di governare senza specifiche competenze, limitandosi a registrare la “volontà popolare” (peraltro filtrata attraverso il portale Rousseau mediante il quale i fondatori mantengono un potere di ultima istanza nei confronti della base). Peraltro l’origine “ideologica” dei Cinque Stelle va ricercata in una sensibilità ambientale enfatizzata anche a costo di ridurre i modelli esistenziali oggi prevalenti – il cosiddetto “sviluppo sostenibile” – che in molti casi appare molto lontana dagli interessi imprenditoriali del nord, ma popolare tra quanti si sentono esclusi da una crescita fondata sulla competizione e sulle inevitabili diseguaglianze. Le questioni relative all’economia, alla finanza, alla politica internazionale sono sempre restate ai margini del loro dibattito interno o comunque trattate con molta superficialità. Man mano però che il movimento è cresciuto raccogliendo istanze di protesta e di disagio che spesso avevano poco a che fare con l’ispirazione originaria, e si è avvicinato all’esercizio concreto del potere, le contraddizioni hanno cominciato a esplodere sin dagli inizi con il caso Pizzarotti a Parma, e soltanto l’intervento autoritario dei fondatori ha impedito che le crepe si allargassero. Non è quindi tanto paradossale che Il plenum elettorale dei Cinque Stelle, sostanzialmente indifferenti alle compatibilità finanziarie, si sia prodotto nel Mezzogiorno dove il disagio e la protesta sono stati incanalati (col contributo determinante della disinformazione dei socialnetwork) in un movimento che esibiva un moralismo accattivante e prometteva interventi assistenziali a fondo perduto ai quali molti (troppi) meridionali non vogliono rinunciare.
Si tratta, come si vede, di storie, interessi, speranze, molto diversi tra loro e difficilmente componibili in uno stesso programma di governo. Per questo le trattative sono state estenuanti e probabilmente si concluderanno col peggiore dei compromessi: un governo debole sostenuto da una maggioranza fragile e – nella prospettiva di tornare presto alle urne – il rinvio della soluzione dei maggiori problemi a data da destinarsi.

 

Franco Chiarenza
17 maggio 2018

Pensare che nulla di nuovo stia accadendo e che questa sia, tutto sommato, una crisi come le altre, sarebbe da sciocchi. In realtà molte cose stanno cambiando nel metodo e nei contenuti e bisogna prenderne atto, anche per capire se davvero quello che i Cinque Stelle stanno imponendo è un modo nuovo di declinare la democrazia e quanto ciò possa modificare la dialettica politica.
Il sistema ideato da Grillo e Casaleggio in effetti scardina quella che definiscono “la casta”, cioè la classe politica, creando un continuo ricambio nelle strutture di governo ad ogni livello che impedisce il consolidamento di qualsiasi alternativa; gli unici che non cambiano mai sono loro, Grillo e Casaleggio, i quali controllano attraverso un’attenta gestione del mito del “fondatore” e una ristretta minoranza accuratamente selezionata mediante gli strumenti mediatici a loro disposizione la scelta dei candidati e gli umori popolari che si manifestano nel Paese. L’esperienza politica (quel “cursus” praticato sin dai tempi lontani delle democrazie greco-romane) viene rottamata e messa in soffitta, la competenza è considerata un supporto tecnico da usare senza esserne condizionati. In pratica un passaggio dalla democrazia guidata dai partiti (partitocrazia) a un regime sostanzialmente plebiscitario regolato attraverso la rete internet, molto lontano dai principi liberali del check and balance che sono alla base delle democrazie occidentali.
Il rifiuto di qualsiasi ideologia di riferimento e l’attenzione esclusiva ai problemi contingenti che ne conseguono consentono al movimento di muoversi a tutto campo con la sola eccezione dell’”onestà” che costituisce il collante retorico delle diverse pulsioni che contribuiscono al successo elettorale del movimento; anche se tutti sanno – a cominciare dai “fondatori” – che un progetto basato su un’idea di Paese è pur sempre necessario. E infatti leggendo gli scritti di Gianroberto Casaleggio appare abbastanza evidente che il modello a cui si guarda è quello della “decrescita felice” mutuato da Serge Latouche. Ma poiché qualsiasi ideologia rappresenta per sé stessa un momento divisivo, la strategia del movimento – almeno al momento – è quella di tenerla celata per raccogliere un facile consenso sulle inefficienze dei governi precedenti, sulla corruzione e i privilegi che hanno segnato l’esercizio del potere della classe politica, su un generico ambientalismo e sulle domande di equità sociale che salgono da settori sempre più ampi del Paese. Quanto basta a fare convergere realtà di base molto eterogenee.

Il contratto di governo
In tale contesto la strategia del movimento di Grillo appare sempre più chiara: coerenti con la loro filosofia che la politica debba consistere in una fedele rappresentazione della domanda popolare e che le necessarie competenze costituiscano una funzione di servizio complementare, i pentastellati hanno impostato la gestione della crisi sui contenuti piuttosto che su progetti ideologici. L’immagine che vogliono dare di sé nell’avviarsi a gestire un potere non più locale è quella di privilegiare i contenuti del programma di governo – quello che chiamano il contratto di governo per sottolinearne il carattere vincolante – piuttosto che le persone che devono realizzarlo. In questo modo restano coerenti col principio “uno vale uno” che trova oggi in ampi settori della società civile vasti consensi e, al tempo stesso, si sentono legittimati, se obbligati a una coalizione, a giocare indifferentemente su più tavoli, dato che ciò che conta sono i contenuti dell’accordo. Non solo: essi impongono in tal modo le nuove regole del gioco a tutti gli interlocutori costringendoli in una camicia di forza programmatica di cui loro soltanto restano gli ultimi giudici. Naturalmente l’ingenuità programmatica ha dei limiti (che probabilmente chi tira i fili dietro la maschera del “Rousseau” conosce bene) costituiti dall’imprevedibilità delle priorità di governo, soprattutto in una società globale e interconnessa come quella del nostro tempo; il “contratto di governo” finisce quindi per essere come tutti i documenti programmatici un elenco di buone intenzioni la cui realizzazione resta condizionata da fattori non sempre prevedibili. Ma resta uno strumento utile per dare un’immagine di cambiamento rispetto alla visione caricaturale delle precedenti stagioni politiche diffusa nell’immaginario collettivo di chi non conosce la storia. Il gioco in realtà è molto antico: se le cose andranno bene (a prescindere dai meriti o demeriti di chi governa) consolideranno consenso e quindi potere, se dovessero andare male potranno sempre scaricarne la responsabilità sugli alleati.
Il gioco però funziona finché si tratta di lotta alla corruzione, eliminazione dei privilegi “di casta”, rigore negli appalti, giustizialismo strumentale per eliminare dalla partita gli oppositori; diventa più difficile quando bisogna decidere sui grandi problemi posti dalla globalizzazione, dalle politiche europee, dalle compatibilità di bilancio con i mercati finanziari che di fatto sostengono il nostro debito pubblico, dai conflitti sempre più frequenti tra sensibilità ambientale e produzione industriale, da un sistema di welfare insostenibile per l’invecchiamento crescente della popolazione. Su questi problemi finora i Cinque Stelle hanno sempre risolto le contraddizioni per sommatoria, cioè promettendo tutto e il contrario di tutto.
L’accordo con la Lega si presenta difficile perché il partito di Salvini – al contrario dei Cinque Stelle – ha un profilo ideologico abbastanza definito: nazionalista, anti-europeo, con forti connotati repressivi nei confronti dell’immigrazione irregolare e della sicurezza pubblica. Salvini sa che, al di là della conclamata soppressione della legge Fornero, i punti reali di contatto con il movimento di Grillo sono pochi. Egli punta sul fatto che le alleanze tra un soggetto politico “forte” come il suo e un concorrente più flessibile vanno a vantaggio del primo, non può però ignorare che il gruppo parlamentare su cui – almeno in teoria – può puntare Di Maio è quasi il doppio, per di più concentrato in gran parte nel voto meridionale raccolto su presupposti e promesse assai diversi da quelli su cui al nord la Lega fonda il suo consenso. Quando dalle parole si passerà ai numeri, cioè alle risorse da destinare concretamente ai capitoli di bilancio, le contraddizioni esploderanno.
Se infatti il “contratto di governo” è serio – come quello tedesco evocato da Di Maio – esso non prescinde mai da un contesto di compatibilità finanziaria; soprattutto in Italia dove il problema fondamentale resta quello di non aumentare il debito pubblico e possibilmente ridurlo.

Berlusconi
La marcia indietro di Berlusconi si è resa necessaria, al di là dei comprensibili veti dei Cinque Stelle, per consentire la formazione di un governo anche a costo di rinviare la resa dei conti sui nodi fondamentali, ed è motivata da una sola ragione: evitare il ritorno alle urne. Non soltanto per le ovvie resistenze dei parlamentari appena eletti ma anche perché esso rappresenta un rischio che nessuno vuole correre: se infatti – come è possibile – i risultati non fossero molto diversi dal 4 marzo (almeno nella conferma di un tripolarismo di fatto) la situazione resterebbe identica, ma se si verificassero possibili contraccolpi (soprattutto in un elettorato strutturalmente volubile come quello che ha votato Cinque Stelle) si aprirebbero scenari imprevedibili senza contare un probabile aumento di astenuti che delegittimerebbe l’intero futuro parlamento.
C’è però dell’altro. Se le distanze tra Forza Italia e Salvini aumentassero si offrirebbe a Berlusconi l’opportunità di rappresentare quella parte di elettorato di centro-destra che non si riconosce nelle posizioni estremistiche della Lega; scegliendo con cura il momento della rottura e proponendo una nuova leadership in grado di trovare validi interlocutori nel mondo imprenditoriale il vecchio leader potrebbe contendere alla Lega la parte più moderata dei suoi elettori, spingendo Salvini verso l’estrema destra. Nel contempo bloccherebbe il tentativo di Renzi di espandersi al centro, costringendolo a ricompattarsi con la sinistra del PD. Ma per fare questo bisognerebbe non essere Berlusconi.

Renzi
Invece di fare un passo indietro Matteo Renzi ha fatto uno sgambetto, facendo cadere prima ancora di sedersi al tavolo ogni possibile accordo tra il suo partito e il movimento Cinque Stelle. La strategia di Renzi appare chiara: lasciare governare i due movimenti populisti nella speranza che inciampino nelle difficoltà oggettive che hanno travolto lui stesso per poi ripresentarsi come salvatore della Patria. Un piano che sa più di risentimento personale, di vendetta contro il popolo (di sinistra) che lo ha tradito, che non di una visione convincente sul futuro del Paese.
Se davvero (e questo va verificato) il movimento di Grillo non è un fatto transitorio destinato a dissolversi (come fu per l’Uomo Qualunque dopo la guerra) ma intercetta un modo nuovo e diverso di concepire la politica e soprattutto incarna una domanda di onestà politica (del cui miserevole stato anche la sinistra porta la sua parte di responsabilità), una visione lungimirante avrebbe dovuto portare a un confronto tra partito democratico e movimento Cinque Stelle. Averlo rifiutato, e per giunta in modo pregiudiziale, è stato probabilmente l’ennesimo errore di Renzi. Se infatti si fosse raggiunto un accordo per un appoggio esterno, condizionato da paletti insuperabili (Europa, stabilità di bilancio, fedeltà alle alleanze), il PD avrebbe conseguito diversi risultati: dimostrare senso di responsabilità verso il Paese (come suggeriva Mattarella), incanalare l’attività di governo verso obiettivi compatibili, accettare senza problemi un’autocritica sugli errori commessi (però non sulle leggi fondamentali su pensioni, scuola e lavoro, che possono essere ridiscusse ma non eliminate), proporsi anche nella sconfitta come elemento affidabile di stabilità al servizio del Paese. Non credo che l’elettorato di centro sinistra avrebbe condannato questo comportamento.
In più un appoggio esterno a un monocolore Cinque Stelle (condito con qualche “tecnico” concordato) avrebbe accelerato il distacco di Berlusconi da Salvini, costringendo quest’ultimo a chiudersi nella ridotta estremistica della Lega in compagnia dei post-fascisti della Meloni.
Ma per fare questa operazione bisognava non essere Renzi.

 

Franco Chiarenza
12 maggio 2018

E’ davvero così strano che il Movimento Cinque Stelle cerchi un’intesa con i democratici certamente con maggiore convinzione di quanto non abbia fatto con il centro-destra? Non lo è, non soltanto perché una parte importante del suo elettorato proviene da sinistra (come da più parti si è ricordato) ma anche per ragioni programmatiche concrete.

Programmi
Checché ne dicano i luogotenenti di Renzi i programmi messi sul tavolo (che divergono notevolmente da quelli agitati in campagna elettorale) non sono contrapposti, anche per la genericità della loro formulazione.
I grandi temi che hanno impegnato la campagna elettorale sono tre: immigrazione irregolare, Europa, disoccupazione. Sui modi e le forme del contrasto all’immigrazione clandestina un’intesa è possibile, soprattutto dopo che le misure adottate dal governo Gentiloni hanno cominciato a dare i loro frutti; si tratta soltanto di proseguire sulla stessa strada con maggiore incisività, né i Cinque Stelle hanno in proposito presentato alternative sostanziali. Sull’Europa i “grillini” hanno fortemente attenuato le posizioni del passato; possono essere considerati poco credibili ma sta di fatto che il problema non è più quello di stare in Europa e nell’Eurozona ma di come ci si sta, che è una cosa che dicono tutti (anche se poi qualcuno dovrebbe spiegarci come). Sulle misure di sostegno ai disoccupati cambiano le denominazioni e le quantità di risorse da impegnare, ma sul fatto che siano necessarie i due interlocutori sono d’accordo (anche in questo caso Gentiloni si è spinto già molto avanti); si tratta di conciliare questa esigenza col principio di non aumentare il debito pubblico, una preoccupazione di cui anche Di Maio si è detto consapevole.
Ci sono poi due punti di cui non si è discusso molto in campagna elettorale: la politica di bilancio e la scuola. Sul primo il movimento Cinque Stelle si è da tempo allineato sulle posizioni di prudenza richieste dai mercati internazionali, sul secondo permane qualche ambiguità ma quando Di Maio spiegherà meglio come si fa a non mandare gli insegnanti dove servono (cioè dove ci sono gli studenti), stante l’impossibilità di spostare gli studenti nei luoghi di residenza della maggioranza dei docenti, le velleità demagogiche dei Cinque Stelle finalizzate a raccogliere i voti degli insegnanti meridionali e delle loro famiglie finiranno, come è giusto, su un binario morto.
Tutto sommato, quindi, i programmi del partito democratico e quelli del movimento Cinque Stelle sono più sovrapponibili di quanto non fosse con la Lega, la quale, almeno sull’Europa e sull’immigrazione esibisce convincimenti e proposte assai diversi.

Timori
Ma per fare un accordo di governo i programmi non bastano. Sia il partito democratico che il movimento di Grillo sanno che un’eventuale maggioranza costruita su un accordo tra loro sarebbe assai fragile sia sul piano parlamentare (al Senato in particolare) che nelle rispettive opinioni pubbliche troppo avvelenate da una campagna scorretta e sopra le righe. Nuove elezioni a breve scadenza rappresentano quindi un’ipotesi realistica. In tale contesto si ripiomba nel clima di contrapposizione (dal quale in realtà non si è mai usciti) e si guarda più agli umori della base che non agli interessi del Paese (comunque interpretati). Non a caso entrambe le parti si riservano di sottoporre ai propri iscritti ogni eventuale accordo. L’unico vantaggio sarebbe costituito da una tregua politica da utilizzare per chiudere la partita di bilancio con l’Unione Europea, garantire l’entrata in vigore di alcune riforme varate dal governo Gentiloni di cui si parla poco e sono invece molto importanti (riforma carceraria, appalti, rapporti con le Regioni, esenzioni fiscali alle imprese innovative, ecc.), e soprattutto modificare la legge elettorale attenuando l’impronta proporzionalistica che caratterizza l’attuale sistema. Si arriverebbe così alle elezioni europee del 2019 e poi…..chi vivrà vedrà.

Suscettibilità
Ma non basta ancora. Al di là delle diversità programmatiche, oltre i timori elettorali, bisogna anche fare i conti con le suscettibilità personali. La legislatura passata è stata flagellata da una campagna d’odio (che si è espressa soprattutto nei social e nei talk show) che ha creato abissi di incomprensione e di offese personali. Una volta si litigava sulle idee e si evitavano le personalizzazioni: l’avversario era uno che la pensava diversamente e con lui si poteva prendere un caffè o parlare di cinema senza azzuffarsi. Oggi è il contrario: si odiano le persone a prescindere dalle idee di cui sono portatrici (che talvolta nemmeno si conoscono), e la contrapposizione investe i rapporti personali e familiari fino all’insulto; sembra di essere tornati ai tempi dei Capuleti e Montecchi nella Verona di Romeo e Giulietta. Con la complicità dei nuovi mezzi di comunicazione si è aperta una gara a dare il peggio di sé e soprattutto a parlarsi soltanto tra chi la pensa allo stesso modo. Se è vero che la democrazia si fonda sulla tolleranza e sul rispetto delle convinzioni diverse dalla propria, se contare le teste non deve comportare il diritto di rompere quelle dei perdenti, se, insomma, crediamo che il metodo è altrettanto importante dei contenuti, dobbiamo constatare di avere fatto uno spaventoso passo indietro.

Ecco perché la possibilità di un governo a maggioranza Cinque Stelle – Partito Democratico, al di là delle comprensibili contorsioni dei rispettivi gruppi dirigenti, si presenta in salita. Mentre acquista credito l’idea di costituire un “governo di necessità”, costituito da persone competenti e per bene disposte a immolarsi al fuoco incrociato che si leverà da ogni parte, il cui unico compenso sarà di raccontare ai propri nipoti di avere dato, in un momento di difficoltà, un contributo disinteressato al superamento di una situazione di emergenza. E non potranno nemmeno sperare di diventare senatori a vita.

 

Franco Chiarenza
28 aprile 2018

Che, prima o poi, la provocazione nucleare del dittatore nord-coreano Kim Il jong avrebbe mostrato la sua sostanziale inconsistenza era prevedibile; che però avvenisse con un dietro-front così spettacolare lascia perplessi. Che senso ha quello che è successo ? Quali le finalità di Kim? E cosa ha concretamente ottenuto anche considerando i costi dell’operazione, tali certamente da non essere sopportabili da una delle economie più povere del pianeta?

Prima del clamoroso annuncio della sospensione degli esperimenti nucleari erano avvenuti tre fatti importanti: il disgelo tra Corea del nord e Corea del sud in occasione dei giochi olimpici invernali (che si sono svolti in Corea del sud), la strana visita di Kim a Pechino, l’entrata in campo del Giappone.
Il disgelo tra le due Coree dovrebbe trovare conferma nel vertice già previsto tra i due presidenti; capiremo meglio in quell’occasione se davvero ci troviamo davanti a una concreta possibilità di uscire da un regime armistiziale che dura da settant’anni e a quali condizioni.
La visita di Kim in Cina il 28 marzo non è strana per sé, anzi era prevedibile per lo stato di tensione che si era creato tra i due paesi (almeno in apparenza) dopo la performance missilistica nord-coreana, ma per le circostanze che l’hanno caratterizzata e il modo in cui è stata resa pubblica. Treno blindato con a bordo una delegazione foltissima, molta attenzione alle forme e in particolare al riconoscimento “paritario” del leader nord-coreano, conferma ufficiale dell’incontro (con relativa diffusione delle immagini) soltanto alcuni giorni dopo quando Kim era rientrato a Pyongyang. Non si capisce la ragione di tanta cautela. Ma non bisogna dimenticare che nella cultura orientale i simboli e le formalità hanno un valore sostanziale: si tratta di decifrarli correttamente.
Nel frattempo si consolidava un’intesa tra il primo ministro giapponese Abe e il presidente sud-coreano Moon finalizzata a intensificare gli sforzi per una soluzione pacifica della crisi, intesa anche come avvio a un superamento della contrapposizione frontale tra le due Coree.
In tutto questo movimento il presidente americano Trump è parso estraniato. Vero è infatti che una visita segreta di Pompeo (attuale segretario di Stato) nella capitale nord-coreana aveva gettato le basi per un futuro incontro tra Kim e Trump, ma tutto ciò che è avvenuto in questi giorni non si è verificato per una spinta americana ma per processi spontanei che trovano forse la loro origine più a Pechino che a Washington.

Qual è dunque l’obiettivo di fondo di Kim (e forse dei cinesi)? Si possono soltanto formulare alcune ipotesi. La più probabile è che gli errori compiuti da Trump in Estremo Oriente (ormai riconosciuti da lui stesso nel riconsiderare la decisione di “stracciare” il trattato di libero scambio tra i paesi dell’area del Pacifico) abbiano spinto la leadership cinese a ritenere il momento adatto per modificare gli equilibri dell’Estremo Oriente a proprio favore. In tale contesto era necessario tranquillizzare il Giappone e la Corea del sud garantendo che l’affievolirsi della presenza americana non avrebbe comportato pericoli per i loro assetti politici ed economici e che anzi uno sblocco della situazione avrebbe potuto arrecare loro considerevoli vantaggi. Restava però da sciogliere il nodo coreano. E’ probabile che la dirigenza di Pyongyang si sia resa conto dell’impossibilità di mantenere ancora a lungo una situazione di stallo come quella che si protraeva dalla fine della guerra; per uscirne Kim ha adottato la tattica della minaccia aggressiva preventiva dimostrando di avere la possibilità di colpire gli interessi americani indipendentemente dalla Cina. Ciò avrebbe consentito al dittatore nord-coreano di giocare la partita da protagonista avendo chiaro l’obiettivo di fondo: il ritiro degli americani dalla Corea del Sud. Ed è questo che probabilmente Kim chiederà a Trump offrendo in cambio l’avvio di un graduale e prudente processo di unificazione delle due Coree (che trova molti sostenitori anche a Seul) e l’apertura della Corea del Nord all’economia di mercato. La visita a Pechino e la sua pubblicizzazione trionfalistica serviva forse a dimostrare che le mosse successive erano perfettamente coerenti con il disegno strategico cinese.

Difficile immaginare come andrà a finire. Certamente una presidenza americana confusa, pasticciona e pericolosamente insidiata dalle vicende del “Russiagate”, non appare la più adatta a gestire una situazione tanto delicata. Forse Trump comincia a capire che “America first” se significa disimpegno generalizzato può rappresentare un danno irreversibile per l’egemonia americana, una rinuncia a dettare le regole della globalizzazione col rischio che siano altri a farlo con conseguenze certamente non positive per l’America stessa. Insomma ci sono dei prezzi da pagare se si vuole mantenere quella funzione di predominanza politica, economica e ideologica che l’America ha imposto dopo la seconda guerra mondiale e consolidato dopo la caduta del muro di Berlino. Noblesse oblige.

 

Franco Chiarenza
22 aprile 2018

Continua la partita a rimpiattino tra Di Maio e Salvini con Berlusconi che fa lo sgambetto appena si intravede un possibile accordo. Usque tandem – direbbe Cicerone – abuteris patientia nostra? Forse non l’ha detto in latino ma è quanto in sostanza il presidente Mattarella ha ribadito ai tre compari nell’ultimo giro di consultazioni.

La risposta di Salvini è: fino a quando il previsto trionfo della Lega nelle elezioni regionali in Friuli-Venezia Giulia avrà consacrato la sua leadership incontrastata sia nei confronti di Di Maio che di Berlusconi consentendogli così di offrire ai Cinque Stelle un patto di legislatura. Bisognerà però vedere se a Di Maio questo basterà per rinunciare alla presidenza del governo e se davvero il Cavaliere si rintanerà in un cantuccio a leccarsi le ferite (ammesso che saranno tanto consistenti).
La risposta di Di Maio è: fino a quando Salvini si deciderà a riconoscere una verità incontestabile e cioè che, al di là di schieramenti elettorali che si dimostrano sempre più artificiosi (come lo è il centro-destra del trio Salvini, Berlusconi, Meloni), il vincitore delle elezioni è il movimento cinque stelle e ad esso quindi spetta la guida del nuovo governo. Se Salvini non ci sta i pentastellati sono disposti ad aspettare che il PD risolva il qualche modo i suoi problemi interni per mettere in campo una proposta di governo concordata con la nuova leadership del centro-sinistra. Di Maio che non conosce il latino ma parla bene il napoletano potrebbe esprimere il concetto con un famoso verso di una canzone: scurdammoce o’ passato, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.
La risposta di Berlusconi è: fate voi ma Salvini ricordi che senza i voti di Forza Italia egli resta inchiodato al suo 17% del tutto insufficiente per strappare la presidenza del consiglio a Di Maio, e quest’ultimo tenga conto che, pur essendo Berlusconi per i pentastellati un “male assoluto” (come non ha mancato di ribadire Di Battista, utilizzato da Grillo per intervenire pesantemente ogni qualvolta si profila una possibilità di accordo col centro-destra), Forza Italia rappresenta comunque una componente essenziale per non restare invischiato negli estremismi verbali e demagogici della Lega salviniana.

Ecco perché i tempi si allungano. Ma il presidente della Repubblica non può aspettare ulteriormente, non tanto per la guerra in Siria minacciata da Trump (che probabilmente non andrà oltre la “sparata” del 13 aprile) ma per le scadenze importanti che ci attendono in Europa: il vertice europeo previsto per la fine di giugno (nel corso del quale non soltanto si discuterà delle misure contro l’immigrazione illegale ma che probabilmente rappresenterà l’occasione per capire le reali intenzioni di Francia e Germania sul futuro dell’Unione), la chiusura del DEF (documento di programmazione economica e finanziaria) da presentare a Bruxelles, la difficile partita che si sta aprendo sui dazi sia nei confronti dell’America di Trump sia per la Brexit.
Le elezioni, come sempre accade (non soltanto in Italia) si sono giocate sulla politica interna (soprattutto nei suoi aspetti economici e sociali) ma le priorità del momento sono invece certamente di politica internazionale, dove né la Lega (al di là di una generica simpatia per la Russia di Putin) né il movimento cinque stelle sembrano avere le idee chiare. Contrariamente a quel che si dice io credo che l’aggravarsi della situazione internazionale non rappresenti affatto un fattore di accelerazione per la soluzione della crisi mediante la creazione di una coesa maggioranza parlamentare ma al contrario moltiplichi i dubbi e le perplessità che la rendono quasi impossibile. Forse invece può costituire una spinta per indurre il Capo dello Stato a proporre un “governo del presidente” da affidare a una personalità al di fuori dei giochi e che sia in grado di traghettare la legislatura verso obiettivi limitati nel tempo e nei contenuti.

Franco Chiarenza
14 aprile 2018

Il comportamento di Di Maio può apparire sconcertante per noi che siamo abituati alle vecchie classiche distinzioni della politica, ma in realtà è perfettamente coerente con la filosofia politica del movimento Cinque Stelle. Dovremo abituarci all’idea di un nuovo modo di fare politica che il vero vincitore delle elezioni sta imponendo e chiederci senza pregiudizi se ha una sua ragion d’essere e corrisponde all’evoluzione delle democrazie europee, sempre più dirette e sempre meno liberali. A me, liberale qualunque e convinto, la cosa non convince ma cerco di capire.

La tattica dei due forni?
La tattica è nota: la utilizzò qualche volta nella prima repubblica la Democrazia Cristiana. Stare al centro e allearsi con chi accetta alcuni punti programmatici indifferentemente dalle opzioni ideologiche di destra o di sinistra. Grillo e Di Maio l’hanno spregiudicatamente riproposta: il movimento si allea con chi condivide le sue priorità, gli altri invece, prigionieri di vecchie pregiudiziali ideologiche, non possono allearsi tra loro. Quindi – piaccia o non piaccia – le carte si danno all’hotel Forum, dove Grillo ha posto il suo quartier generale.
E’ però necessario chiedersi se, al di là dell’evidente vantaggio tattico, non ci sia qualcosa di più: la presa d’atto che le grandi scelte ideologiche si fanno altrove e che nella ordinaria amministrazione quel che conta è risolvere i problemi quotidiani della gente comune. A qualcuno potrà sembrare un abbassamento di livello ma forse si tratta soltanto di constatare che “il re è nudo”.
I cinque stelle si sottraggono accuratamente a ogni tentativo di classificarli sui grandi temi che dividono le opinioni pubbliche in Europa, in questo distinguendosi da chi si limita a intercettare le paure collettive (come fa Salvini, in linea con Marina Le Pen e altri leader “sovranisti” europei); si mostrano pragmatici e disposti a discutere sulle azioni di governo con chiunque, intransigenti soltanto sulla questione della moralità politica che interpretano in modo rigoroso su questo basando la loro credibilità di fronte all’elettorato. Grillo e Di Maio sono probabilmente convinti (e i risultati elettorali sembrano dargli ragione) che non perderanno un solo voto se decideranno in un modo o nell’altro sull’Europa, sul contrasto alla globalizzazione, sull’immigrazione; giustificheranno le loro scelte in modo pragmatico facendo passare il loro opportunismo per ragionevolezza, anche proponendo soluzioni non banali prese a prestito da economisti estranei alla loro storia, senza cercare coerenze impossibili ma anzi ostentando la loro nuova veste apparentemente accogliente in cui i profughi più presentabili della seconda repubblica possono trovare asilo. In ogni caso non consentiranno mai decisioni estreme ma sempre cercheranno soluzioni di compromesso “ragionevoli”, in tal modo accreditandosi come il nuovo partito moderato di centro, simile alla DC ma da essa distante per essere “partito degli onesti” in grado di dimostrare che si può governare senza rubare (che è ormai un assioma fortemente radicato nell’opinione pubblica).

Le origini di Grillo
Se potessero scegliere “dove li porta il cuore” i Cinque Stelle lo farebbero probabilmente a sinistra, aprendo a un partito democratico depurato da Renzi (nei cui confronti la polemica è stata troppo aspra per essere ancora rimossa), per almeno tre ragioni: per le lontane origini politiche di Grillo, il quale è sempre stato un simpatizzante di sinistra, perché una percentuale importante del loro consenso proviene da elettori del partito democratico e del centro, e infine perché il successo nel Mezzogiorno è la conseguenza di promesse demagogiche su cui tanti meridionali hanno appeso le loro preoccupazioni e che sono più compatibili con la tradizione assistenziale della sinistra che non con le asprezze “nordiste” di Salvini (il quale ha pur sempre il suo “nocciolo duro” nei territori veneti e lombardi) o con gli slogan ormai screditati del vecchio leader di Forza Italia.
Ma Grillo e Di Maio sanno anche che una parte importante della loro base (che è una piccola parte del loro elettorato), prigioniera della campagna d’odio alimentata con ogni mezzo contro tutti i governi precedenti, non gradirebbe alleanze con un partito che rappresenta la continuità (e giustamente la rivendica). Si può obiettare che anche la Lega ha governato (e governa tuttora in alcune Regioni) con Forza Italia, ma Salvini è stato bravo ad accreditare l’immagine di una Lega radicalmente diversa da quella fondata e guidata da Bossi.

Pragmatismo di programma
Ferma quindi restando la presidenza del Consiglio per Di Maio, i Cinque Stelle puntano sul pragmatismo di Salvini, su un programma evasivo sui temi controversi (Europa, immigrazione, scuola, lavoro, ecc.), cercando di isolare Berlusconi attraverso un uso spregiudicato delle possibilità che governo e sottogoverno consentono per catturare il sottobosco di Forza Italia. Un’operazione di “lavanderia” che i pentastellati lascerebbero volentieri alla spregiudicatezza di Salvini, il quale sa che questa è un’occasione unica per andare al governo prima che cambi il vento.
L’operazione presenta delle difficoltà e soprattutto la necessità di fare i conti con il Quirinale, ancora una volta vero garante nei confronti delle principali potenze europee che guardano con attenzione (e preoccupazione) quanto avviene a Roma, anche perché da ciò potrebbero dipendere cambiamenti anche profondi nella loro strategia di rilancio dell’Unione. Mattarella sta allentando le briglie (come fanno i bravi fantini) ma in prossimità del traguardo chiederà garanzie concrete che potrebbero essere indigeste soprattutto per la Lega; non a caso Di Maio moltiplica le dichiarazioni di “rispetto” nei confronti del Capo dello Stato e ribadisce che per lui il forno di destra e quello di sinistra sono equivalenti purché si dimostrino compatibili con le loro priorità che, non essendo né di destra né di sinistra, si fondano – come abbiamo detto – su una lotta senza quartiere contro la corruzione e sulle ragioni del buon senso verificate di volta in volta.

A questo ci hanno portato decenni di corruzione diffusa, di privilegi inaccettabili della classe politica, di uso strumentale delle opzioni ideologiche. La nostra convinzione di liberali è diversa: pensiamo che l’onestà è un presupposto non una soluzione. Per governare occorre riconoscersi in un progetto di società, in alcune scelte fondamentali sui diritti e i doveri dei cittadini, sull’opzione europea come riconoscimento di una cultura comune, sulle alleanze internazionali, e su una classe politica competente in grado di affrontare i problemi mantenendo saldi i principi liberali.
Il rischio che corriamo è – a mio avviso – di restare esclusi dalla partecipazione attiva alle grandi scelte che il mondo ha davanti a sé e che ricadranno inevitabilmente anche sulla nostra vita quotidiana. La partita vera non si gioca su più onestà e meno corruzione; si gioca tra più Europa o meno Europa. Più Europa significa avere qualche possibilità di sedersi al tavolo dove Stati Uniti, Cina, Russia, stanno modificando le regole della globalizzazione, meno Europa significa andare a scodinzolare per ottenere i favori di uno dei grandi giocatori (Salvini per esempio ha già scelto Putin in cambio di qualche mobile brianzolo in più da esportare). In tale contesto la delegittimazione dell’Europa portata avanti con impegno degno di miglior causa da talk show, giornali, social network, e soprattutto partiti politici desiderosi di accollare all’Unione responsabilità che sono soltanto nostre, sta producendo danni che potrebbero diventare irreversibili. I sondaggi dicono che ancora più del 60% degli italiani credono nell’Europa; anche in Parlamento se sommiamo i gruppi sostanzialmente europeisti (LeU, PD, FI) a quelli incerti ma non pregiudizialmente ostili (5S), non c’è una maggioranza anti-europea. Ma la tentazione di rovesciare ancora una volta sull’Europa quella che si dimostrerà un’impossibilità oggettiva di mantenere le promesse elettorali (a cominciare dall’abolizione della legge Fornero e dalle interpretazioni più radicali del “reddito di cittadinanza”) è dietro l’angolo.

 

Franco Chiarenza
8 aprile 2018

In via del Nazareno è pausa di riflessione. Quanto Renzi condiziona ancora il partito? Quanto spazio esiste per soluzioni realmente alternative, e in quale direzione? Quale dovrà essere il rapporto con il movimento Cinque Stelle? In breve: quale dovrà essere la proposta politica che sarà in grado di restituire al partito democratico la sua centralità?

Quasi tutti i commentatori che ho letto o sentito partono da un presupposto: molti voti (circa la metà) che avevano portato il partito democratico al 40% nelle ultime elezioni europee sono passati in blocco ai Cinque Stelle. Per recuperarli bisogna tornare alle origini “socialiste” abbandonando la deriva moderata imboccata disastrosamente da Renzi. Io ritengo questa analisi sbagliata.
Il successo di Renzi era dovuto proprio al fatto che i ceti moderati, orfani di un partito di riferimento che non fosse Forza Italia (ormai destrutturata e delegittimata da una leadership incapace di rinnovarsi), si erano accostati con crescente interesse al programma neo-liberale della Leopolda. Quelli che il PD ha perso non sono voti “di sinistra” ma, al contrario, voti “di centro”. Resta da capire perché una quota così rilevante di elettorato tendenzialmente centrista sia emigrata da via del Nazareno al più confortevole hotel Forum dove Grillo ha stabilito il suo quartier generale.

Che Renzi abbia compiuto degli errori è ormai quasi un luogo comune. Ma sarebbe più interessante capire quali abbiano prodotto un’emorragia così consistente.
Il job’s act? Non credo. Tutti gli imprenditori sono d’accordo che si è trattato di una buona legge, forse troppo timida ma che comunque ha conseguito alcuni risultati positivi. La mobilitazione sindacale contro alcune parti di quella legge è stata parziale (la CISL e la UIL non si sono accodate alla CGIL) e non tale da incidere sul consenso politico dei ceti medi.
Gli 80 euro? Non credo. Sarebbe stato preferibile concentrare le risorse disponibili nella riduzione del cuneo fiscale che costituisce la ragione principale dei mancati investimenti e delle delocalizzazioni, ma resta un modesto esercizio di demagogia che sarebbe stato meglio evitare ma certo non ha influito sulla decrescita del consenso. Anzi.
La riforma della scuola? Non credo. Ha aperto finalmente il vaso di Pandora di una situazione che marciva da anni e, malgrado le sue imperfezioni, ha regolarizzato migliaia di insegnanti. E’ stata ostracizzata dall’opposizione fanatica dei sindacati che per la prima volta hanno visto vacillare la loro egemonia incontrastata nel mondo della scuola; ma non credo che abbia influito più di tanto sul risultato elettorale, anche per la proverbiale indifferenza che gli italiani hanno sempre purtroppo manifestato per i problemi della scuola.
La riforma costituzionale? Certamente sì. Non per i suoi contenuti (in taluni aspetti molto discutibili, ma è materia di esperti la cui influenza elettorale è pari a zero) ma per il metodo che Renzi ha utilizzato. Il patto del Nazareno aveva una sua valenza ed era perfettamente in linea con la strategia neo-centrista del gruppo dirigente del PD se veniva portato fino in fondo, ivi compreso un accordo condiviso per la presidenza della Repubblica. L’intesa poteva essere ragionevolmente estesa ai Cinque Stelle con qualche concessione sulla legge elettorale e su alcuni temi di moralità politica che quel movimento portava avanti (e che erano apprezzati da quote crescenti dell’opinione pubblica). Così concepita la riforma non avrebbe avuto l’aspetto personalistico che Renzi invece gli ha dato e si sarebbe evitata la concentrazione del dissenso nei suoi confronti che ha rappresentato la sola ragione della sconfitta. A questi errori Renzi ha aggiunto il due di briscola: non si è dimesso da segretario del partito, ha subìto con evidente malumore e mettendo in atto qualche sgambetto (come nel caso della Banca d’Italia) l’azione di governo di Gentiloni, che invece veniva apprezzata da parti rilevanti della pubblica opinione moderata non soltanto per i suoi contenuti (in linea con il progetto politico di Renzi) ma anche per le modalità serenamente e silenziosamente “giolittiane” con cui il potere veniva esercitato, e infine ha affrontato le elezioni trasformandole ancora una volta in un voto sulla sua leadership. “Errare humanum est – dicevano gli antichi romani – perseverare diabolicum”.

Il futuro del partito democratico quindi non passa certamente – almeno per ora – da Matteo Renzi, il quale ha dimostrato di non avere la stoffa dello statista; la quale non è fatta soltanto di idee (per buone che siano) ma anche della capacità di realizzarle con determinazione ma senza strappi che non si sia sicuri di potere riassorbire, e soprattutto evitando comportamenti arroganti e presuntuosi come quelli che il giovane leader ha manifestato in diverse occasioni, anche per colpa di quel maledetto “cerchio magico” che i nostri uomini politici creano sempre intorno a sé e che serve soltanto ad alimentare diffidenza e disinformazione.
Il futuro del PD non passa nemmeno attraverso l’inseguimento del populismo demagogico dei Cinque Stelle, ma ciò non significa che non debba prendere atto di alcuni sentimenti che Grillo ha saputo abilmente sfruttare e che peraltro hanno una loro validità simbolica. Avere sottovalutato l’insofferenza popolare nei confronti dei tanti inammissibili privilegi di cui si è circondata la classe politica è stato il più grave degli errori compiuti dal PD; dalla farsa delle “macchine blu” ai vitalizi dei deputati, dalle consulenze fittizie alle assunzioni fuori concorso (ma dentro i partiti), sono anni che la pubblica amministrazione viene percepita come una grande mangiatoia che moltiplica i costi e frena l’iniziativa privata. La corruzione imperante (ormai certificata anche a livello comparato: il doppio della Francia, cinque volte più della Germania) è percepita come generalizzata, e quando emerge a livello giudiziario appare soltanto come la punta di un iceberg, mentre la stessa giustizia perde credibilità per i suoi tempi e talvolta quando mostra di essere condizionata da pregiudizi politici (o almeno ideologici). Insomma: i Cinque Stelle hanno assorbito una quota crescente del consenso dei ceti medi più per la rabbia prodotta da queste disfunzioni che per le loro ricette di politica sociale, alcune delle quali (non tutte) chiaramente demagogiche ed evidentemente irrealizzabili. Quando la gente si incazza arriva fatalmente il Savonarola di turno a dare un po’ di soddisfazione.
Dunque per prima cosa il PD deve tranquillamente dire di sì ai provvedimenti che i pentastellati propongono per moralizzare la vita pubblica. Senza complessi e senza paura di ammettere che su questo tema arrivano in ritardo.

Altre sono le tematiche su cui i democratici devono chiedere un serio confronto, mettendo in difficoltà le ambiguità di Grillo e Di Maio. Cominciando dalla politica estera e in particolare da quella europea: dove si collocano i Cinque Stelle? Dentro un progetto di maggiore integrazione (con tutti i cambiamenti necessari, anche negli equilibri tra i partner mediterranei e quelli del nord) a fianco di Macron e del nuovo governo tedesco dove i socialisti hanno assunto responsabilità crescenti? A favore del progetto isolazionista di Trump (con la guerra commerciale che ne consegue) o contro la destrutturazione di tutti gli strumenti multinazionali nati per governare la globalizzazione (WTO, alleanze regionali, ecc.) che il nuovo presidente tenta di mettere in atto?
E in politica economica: si deve puntare su nuovi investimenti mobilitando le risorse per diminuire il cuneo fiscale delle imprese oppure dare la precedenza a misure assistenziali generalizzate, come certamente è stato percepito da vasti settori dell’elettorato meridionale il cosiddetto “reddito di cittadinanza”? A fronte dei gravissimi problemi che nei prossimi anni colpiranno il nostro Paese per effetto della questione demografica e dell’applicazione di nuovi processi produttivi automatizzati nella produzione industriale vogliamo insistere sull’abolizione della legge Fornero e sull’idea di buttare a mare i profughi africani, o preferiamo affrontare il futuro in modo più coordinato e più serio?
E così via. Perché è sul modo di porre i problemi oltreché sulle soluzioni che si propongono che un partito di centro-sinistra, come Veltroni l’aveva concepito, rivendica la propria centralità. Senza arroganza, dialogando con tutti sulle cose e non sugli slogan. Altrimenti questo ruolo di interlocutore affidabile parti crescenti del Paese lo riconosceranno a Luigi Di Maio; il quale, con buona pace di De Luca, non può essere accusato di “parentopoli”, almeno finora.

 

Franco Chiarenza
5 aprile 2018

Gli scenari possibili dopo Pasqua per risolvere la crisi politica non sono molti: gira e rigira le carte sono tre e la combinazione vincente dovrà comprenderne almeno due.
Prima ipotesi: governo Salvini-Di Maio. Dal punto di vista programmatico non ci sono differenze incolmabili, ma ci sono due problemi da superare. Il primo riguarda la premiership vigorosamente reclamata da entrambi; se però davvero “Salvini è uomo di parola”, come dice Grillo, la soluzione potrebbe essere trovata con un patto di “staffetta”, due anni e mezzo a guida Lega e il resto della legislatura con Di Maio presidente del consiglio (che così potrebbe intanto farsi le ossa come vice-presidente). Il secondo è più difficile da superare e si chiama Berlusconi; non tanto e non soltanto perché dovrà avere la sua parte nel governo (il che si risolve con un paio di ministeri importanti) ma per altre più serie ragioni. La prima è rappresentata dalla difficoltà di fare digerire alla base dei Cinque Stelle un’alleanza con Forza Italia, la seconda dalla posizione (abilmente rivendicata dal vecchio leader) di garante nei confronti dell’Europa (e in particolare del partito popolare) e di componente “moderata” in grado di rassicurare quei settori di elettorato di destra che diffidano di Salvini. Puntare sul dissolvimento di FI è un discorso semplicistico che comunque richiede tempi lunghi e non risolve il problema della compatibilità tra le posizioni anti-europee della Lega e quelle di garanzia nei confronti dell’Europa (che probabilmente stanno molto a cuore anche a Mattarella). Iniziare la nuova legislatura con un governo molto disomogeneo sulla politica estera in un momento in cui si aprono in Europa e nel mondo scenari imprevedibili (guerra dei dazi, nuovi equilibri in Estremo Oriente, sanzioni contro la Russia, questione medio-orientale) rappresenta un rischio ulteriore che potrebbe allarmare i mercati.

Se “l’alleanza dei vincitori” fallisce i tentativi di dialogo tra il partito democratico e i Cinque Stelle potrebbero diventare meno velleitari di quanto non siano attualmente. Non certo nel senso di prevedere una partecipazione dei democratici al governo ma partendo dall’idea di un’astensione che consenta a certe condizioni ai Cinque Stelle di governare. Anche in questo caso ci sarebbe da risolvere il problema della politica estera ma non sarebbe impossibile trovare una soluzione (anche eventualmente prefigurando un impegno attivo di Emma Bonino, la quale si trova a capo di un soggetto politico ben distinto dal PD). Si tratterebbe di una soluzione di breve durata ma consentirebbe di superare l’impasse cercando intanto di condurre a termine gli obblighi di bilancio, di progettare una nuova legge elettorale, di essere presenti agli appuntamenti più importanti di politica internazionale.

Resta la terza possibilità: che, in mancanza di un accordo, il presidente della Repubblica proponga una soluzione “tecnica” da presentare in Parlamento con un mandato limitato nel tempo e nei contenuti. In mancanza di fiducia sarebbe tale governo a gestire le inevitabili elezioni anticipate.
Altre soluzioni non vedo. Non soltanto per la reciproca avversione dei democratici (da chiunque rappresentati) e Salvini, ma anche per la fragilità del quadro di comando del PD che ha bisogno di un periodo di sana opposizione per ricompattarsi su nuove basi dopo avere compiuto fino in fondo il rito sacrificale della resa dei conti interna, come sempre avviene dopo ogni sconfitta.

 

Franco Chiarenza
30 marzo 2018

Con la morte di Piero Ostellino scompare un liberale vero, protagonista della stagione della prima repubblica almeno negli anni in cui diresse il Corriere della Sera (1984-1987). Aveva una cultura impregnata di liberalismo (assai più nella versione anglosassone che in quella idealistica crociana), un carattere deciso fino, talvolta, all’ostinazione, capacità anche organizzative che mise in luce non soltanto a via Solferino ma anche nella realizzazione di iniziative ancora oggi punti di riferimento del liberalismo italiano. Il Centro Einaudi di Torino e la rivista “Biblioteca della libertà”.
Negli ultimi tempi viveva più nel suo rifugio in Provenza che adorava che non a Milano, sempre più amareggiato dalle questioni politiche italiane e afflitto da vicende personali molto dolorose.

Con Ostellino ho avuto molte occasioni di incontro, e ogni volta ne uscivo arricchito non soltanto per il confronto di idee che ne scaturiva ma anche per la determinazione e la decisione con cui le portava avanti, anche quando le sue ragioni erano discutibili. Ricordo uno scontro epistolare che ebbi con lui quando, nella strenua (e condivisibile) difesa del diritto di Israele a esistere, mi parve esagerasse nel giustificare certi eccessi assai poco “liberali” del governo di Tel Aviv. Non contestò i miei argomenti e corresse il tiro.

Era molto amico di Valerio Zanone del quale condivideva una concezione di liberalismo aperto e temperato, la convinzione che esso potesse (e dovesse) conciliarsi con i problemi sociali che andavano acuendosi con uno sviluppo capitalistico che, accanto ai grandi vantaggi, minacciava di accrescere le diseguaglianze e impoverire la classe media, da sempre pilastro portante delle democrazie liberali. L’ultima volta che lo vidi a Milano – aveva lasciato polemicamente ogni sua collaborazione col Corriere – discutemmo del mio libro “Il liberale qualunque”. Accettò la mia richiesta di presentarlo a Milano, ma poi per circostanze che non avevano nulla a che fare con lui la presentazione non ci fu.

Di lui, della sua vita, delle sue idee scriveranno in tanti. Di mio aggiungo soltanto il rammarico di non averlo frequentato di più, di non avere colto tutte le occasioni che pur ci sarebbero state per approfondire le nostre idee soprattutto per quanto riguarda il futuro della comunicazione, argomento preferito dei nostri brevi e rari incontri. Mi aveva invitato in Provenza ma non ci andai, vinse la mia eterna pigrizia, e ora è tardi.

 

Franco Chiarenza
11 marzo 2018