Era un “corpo estraneo”, mi dicevano sempre gli amici del PD. Ma era vero fino a un certo punto: non proveniva dalla tradizionale “ditta” dell’ex-PCI ma faceva parte a pieno titolo di quella componente cattolica che era stata dominante nel nuovo partito disegnato da Veltroni. Da un certo momento in poi (con la prima “Leopolda”) si era convinto che per restare in Europa l’Italia dovesse fare un passo decisivo per superare la tradizione dirigista e tendenzialmente egualitaria della sinistra e adottare una politica più “liberal” (nell’accezione anglosassone del termine). Era un progetto intelligente di modernizzazione del Paese (già delineato da Veltroni nel famoso discorso del Lingotto nel 2007) che aveva sedotto molti liberali e trovato ampi consensi nel mondo delle piccole e medie imprese, e che lo ha portato fino al grande successo elettorale delle europee del 2014. Poi il crollo dovuto a molte ragioni, tutte ampiamente rilevate e discusse dalla pubblicistica politica: eccesso di autoreferenzialità, tentativo di modificare la Costituzione condotto male e affidato all’incompetenza della Boschi, riforme anche incisive ma varate contemporaneamente creando una coalizione di interessi contro il suo governo, pessima strategia di comunicazione, atteggiamenti scostanti. Un disastro.
Da allora Renzi invece di attendere pazientemente costruendosi una nuova immagine e rilanciando il progetto – sempre valido – di Veltroni, ha dato di sé l’immagine di un bambino scontroso e incompreso, dispettoso e pronto a vendicarsi. Un altro disastro.
Infine, dopo avere minacciato una scissione dopo le elezioni del 2018 se il PD avesse accettato di costituire un governo con Grillo, ha cambiato idea l’anno successivo entrando a gamba tesa nel varco che si era creato con la frattura tra Di Maio e Salvini, costringendo Zingaretti a un difficile accordo mal digerito da entrambe le basi (e ottenuto soltanto per l’impuntatura di Grillo).
E adesso che fa? Nel momento meno opportuno, due giorni dopo il giuramento dei nuovi ministri, precipita i tempi di una scissione che era nell’aria già da tempo. Precisando però che la sua adesione alla nuova maggioranza di governo resta intatta. Una frittata.
“Italia viva” si chiamerà la nuova formazione; ricorda un po’ “Italia dei valori” di Di Pietro, speriamo che non faccia la stessa fine, Povera Italia sempre evocata con Forza (FI) circondata da Fratelli (FdI), presente in tutte le sigle, assente nelle azioni concrete di governo.

Perchè?
Tutti se lo domandano e tutti danno risposte diverse. Quella di Renzi è di voler fare chiarezza, ma non è una risposta sui tempi e sui modi. E nemmeno sulle diversità che dividono in maniera così drastica i renziani dai democratici. E allora?
A mio avviso le ragioni principali sono due: la prima è quella di indebolire Zingaretti proponendosi come mediatore indispensabile nella nuova maggioranza. Ma potrebbe rivelarsi un calcolo sbagliato se nella nuova mobilità parlamentare (che investe anche la destra con i malumori di Forza Italia) i voti di Renzi non dovessero più essere determinanti.
La seconda ragione si chiama Calenda. Uscendo dal PD su una chiara posizione contraria all’alleanza con i Cinque Stelle Calenda pone seriamente le premesse per una formazione di centro che taglierebbe l’erba sotto i piedi di Renzi. Ma se si continua di questo passo, con l’ennesimo suicidio del centro-sinistra, finirà che si andrà al voto anticipato nelle peggiori condizioni.
Salvini ringrazia. Non è il solo a fare gli autogol.

Franco Chiarenza
18 settembre 2019

Il governo Conte-bis è partito attraversando indenne il coro di contestazioni che la Lega e il partito di Giorgia Meloni hanno inscenato dentro e fuori il Parlamento. Non mi pare che ci siano dubbi che si tratti di un governo debole partorito da una maggioranza parlamentare consapevole di non rappresentare – almeno in questo momento – la maggioranza dell’elettorato. Un governo nato dall’improvvisazione di un leader, forse sopravalutato, come Salvini il quale ha realizzato in pochi giorni uno degli auto-gol più clamorosi della storia repubblicana, consentendo a tutti coloro che gli si oppongono (ivi comprese le cancellerie europee più influenti) di vincere la partita cogliendo a volo l’occasione che si offriva. Resta da capire se l’auto-gol sia stato volontario (come molti sostengono) per non affrontare le scadenze di fine anno, o se invece si sia trattato semplicemente di un errore di valutazione sulla possibilità che i Cinque Stelle, dopo un anno di alleanza cementata dall’avversione al PD e alle istituzioni europee, potessero davvero ancora utilizzare i “due forni” con la stessa disinvoltura che avevano esibito dopo le elezioni del 2018; il che coincide con un’errata conoscenza della galassia pentastellata e del ruolo determinante che in essa vi svolge ancora Beppe Grillo.
Adesso tutto ciò non ha più alcuna importanza. E’ prevedibile che Lega e Fratelli d’Italia faranno un’opposizione senza sconti in attesa di un possibile inciampo che renda necessarie le elezioni, che Berlusconi invece cerchi di occupare uno spazio di “destra moderata e europeista” (compatibilmente con quanto resta ancora del suo elettorato, minato anche dalla scissione di Toti), che sul versante opposto Calenda cerchi a sua volta di creare una formazione di centro-sinistra in grado di raccogliere un elettorato di centro che non si riconosce nel PD e nelle sue tentazioni dirigistiche (chiaramente avvertibili nel programma di governo) e facendo i conti con il protagonismo sempre imprevedibile di Renzi. Quello che conta, adesso, è l’azione di governo.

Che fare.
Al di là di un programma farraginoso e difficilmente realizzabile senza perdere ulteriori consensi, il governo Conte-bis è chiamato a fare poche cose, subito e nel miglior modo possibile.
La prima è sciogliere il nodo dell’immigrazione clandestina nel suo duplice aspetto, quello degli sbarchi (dove si è concentrata l’azione repressiva di Salvini) e l’altro – più importante – della gestione degli immigrati sul territorio. Per risolvere il problema la solidarietà europea è imprescindibile e sembra che finalmente Macron e Merkel abbiano capito che abbandonare l’Italia a un destino di contenitore senza limiti dei flussi migratori dall’Africa è una politica che genera i Salvini e, conseguentemente, mina la stabilità dell’assetto liberal-democratico delle istituzioni comunitarie. Anche la nuova Commissione Von der Leyen pare muoversi nella direzione giusta che è una sola: modificare radicalmente il trattato di Dublino del 1997.
La seconda cosa da fare è l’aggiustamento del bilancio 2019. Anche in questo caso una maggiore propensione degli stati europei e della Commissione a facilitare politiche espansive sembra a portata di mano ma non bisogna illudersi che ciò significhi potere spendere in maniera illimitata aumentando ulteriormente il debito. L’attribuzione a Gentiloni del “dicastero” dell’economia è stata una mossa assai abile della nuova presidente ma non ci aiuta affatto; al contrario ci costringe a fare i conti con le compatibilità europee più di quanto abbiamo fatto fino ad oggi. La reazione positiva dei mercati internazionali alla nascita del Conte-bis costituisce un incoraggiamento a indirizzare la spesa pubblica nelle infrastrutture e in una politica fiscale che aiuti le imprese, evitando misure esclusivamente assistenziali che non risolvono alcun problema strutturale; il che è difficile da far capire ai Cinque Stelle ma anche a una parte del PD imbevuti di una cultura che riduce la socialità a redistribuzione delle (poche) risorse disponibili. Si tratta di un punto cruciale: se i ceti produttivi del nord (che hanno accolto la svolta di agosto con molta perplessità) avvertono di essere ancora una volta nel mirino di una politica fiscale penalizzante si traferiranno in massa sotto l’ala protettiva di Salvini, e sono molti di più e molto più seri delle “folle” di scalmanati in bermuda che hanno festeggiato il leader della Lega in alcune spiagge italiane.
Il terzo punto prioritario, collegato al secondo, è quello di avviare una riforma profonda delle infrastrutture materiali e culturali che rendono il nostro Paese non competitivo. Il lavoro dipende dalle imprese e dalla loro capacità di stare sui mercati nazionali e internazionali; aiutare le imprese in tutti quegli aspetti non salariali che incidono fortemente sulla produttività (costi energetici, complicazioni burocratiche, deficienze nelle strutture territoriali e nei trasporti, mancanza di una formazione di quadri preparati al futuro 4.0, ecc.) è l’unico modo serio di combattere la disoccupazione.
Il quarto punto riguarda il contrasto all’evasione fiscale senza proseguire nella politica dei condoni, immorale prima ancora che inefficace, capace tutt’al più di rastrellare qualche miliardo “una tantum”. Non dovrebbe essere difficile mettere a punto con le nuove tecnologie sistemi di incrocio dei dati in grado di fare emergere, almeno in parte, l’immensa platea sommersa che caratterizza nel nostro paese soprattutto le attività di servizio.
Infine il Mezzogiorno. Continuare nella politica degli aiuti finanziari a chi apre delle attività nel sud si traduce in un inutile spreco di risorse se non è accompagnata da modifiche strutturali profonde (anche salariali e fiscali in questo caso) che rendano convenienti gli investimenti e facciano emergere l’imprenditoria sommersa (che pure esiste); altrimenti gli “aiuti” si prendono e poi si fugge, come è avvenuto innumerevoli volte negli anni passati.

Di tutto il resto, compresa la riduzione dei parlamentari e le modifiche costituzionali che dovrebbero esservi connesse, ne riparliamo tra un anno se il governo sarà ancora in piedi (cosa di cui dubito).

 

Franco Chiarenza
12 settembre 2019

Il secondo Governo presieduto da Giuseppe Conte ha ottenuto la fiducia tanto da parte della Camera dei deputati, quanto dal Senato della Repubblica. Alla Camera i SI sono stati 343, ottanta voti in più rispetto ai NO; al Senato i SI sono stati 169, trentasei voti in più rispetto ai NO.
Il Governo, pertanto, è pienamente legittimato, sul piano costituzionale. Indipendentemente dalle scomposte reazioni manifestate dalla Lega e da Fratelli d’Italia. É veramente mortificante che molti parlamentari delle due destre non sappiano distinguere le Aule parlamentari da uno stadio di calcio. Che non riescano ad ascoltare l’intervento del Presidente del Consiglio, o di altri oratori che dicono cose a loro non gradite, senza continuamente interromperli con urla ritmate, come appunto avviene in uno stadio di calcio. Ma, anche negli stadî, i tifosi che si comportano così sono molesti. Chi urla ossessivamente la parola “dignità”, ma poi dimostra con i propri concreti comportamenti di non avere alcun rispetto per la dignità degli interlocutori, né alcun rispetto per la dignità delle Istituzioni, si rivela per quel che è: un portatore del più volgare e becero spirito antidemocratico.
Si possono esprimere contenuti radicali, radicalissimi, manifestare la volontà della più ferma opposizione, senza che sia necessario, nel contempo, gridare, insultare gli avversari, minacciare che, se gli altri continueranno ad ignorare le proprie tesi, si è pronti a commettere non si sa bene quale sproposito, o quale sfracello. La pace civile è il massimo bene. Affinché perduri bisogna, però, che tutti si preoccupino seriamente di salvaguardare tale valore. Nessuno pensi di poter imporre una linea politica con la violenza. Nessuno pensi di poter contrapporre le piazze al Parlamento. Potrebbe scoprire che, dall’altra parte, non ci sono soltanto miti pecorelle disposte a farsi guidare docilmente, ma persone molto determinate, pronte a lottare per difendere le proprie convinzioni ed i propri valori. Ed allora sarebbe tropo tardi. Resistenza contro il nazi-fascismo. Costituzione democratica repubblicana. Ordinamento rappresentativo improntato ai valori della liberal-democrazia. L’Italia che si è ricostituita dopo la seconda guerra mondiale porta in sé questi tre momenti fondamentali, che contraddistinguono la propria storia. Chi vuole alterare questa fisionomia storico-ideale sappia che non potrà farlo gratis.
Una volta sgombrato il campo da questa premessa, pur necessaria, veniamo a considerazioni più serie ed utili, da rivolgere alle persone ragionevoli.
Quanto all’analisi dei comportamenti delle forze politiche, risultanti dal dibattito parlamentare sulla fiducia, vengono in considerazione le scelte dissonanti di Carlo Calenda (parlamentare europeo) e di Matteo Richetti nel Partito Democratico. Emerge anche la frattura di Più Europa. Dei quattro parlamentari di cui questa formazione dispone, i tre deputati Alessandro Fusacchia, Riccardo Magi e Bruno Tabacci hanno votato SI alla fiducia; invece la senatrice Emma Bonino ha votato NO, in ciò d’accordo con il Segretario politico di Più Europa, Benedetto Della Vedova. Quando si ascoltino i discorsi di Calenda, Richetti, Bonino, sembra che non facciano una grinza sul piano strettamente logico: l’intesa fra il Movimento Cinque Stelle ed il Partito Democratico è stata troppo affrettata e permangono troppi margini di ambiguità perché si possa dare credito al fatto che queste due forze politiche riusciranno a lavorare seriamente insieme, superando un recente passato che le ha viste nettamente contrapposte.
É vero che l’intesa è stata affrettata; ma i tempi stretti sono stati, giustamente, imposti dal Presidente della Repubblica, il quale si preoccupava di mettere al riparo il nostro Paese da una possibile tempesta speculativa nei mercati finanziari, e poneva l’accento sulle procedure per la formazione della legge di bilancio dello Stato, procedure che richiedono scadenze serrate. Cos’è la politica se non la capacità di trovare risposte immediate a problemi gravi, urgenti ed indifferibili? Quando ci sono reali difficoltà e reali urgenze, serve a poco compiacersi della propria coerenza: al diavolo la coerenza e si adottino le misure che servono, nell’interesse superiore dell’Italia, cioè di tutti gli italiani, per evitare guai e danni, altrimenti inevitabili. Bene hanno fatto, dunque, il Movimento Cinque Stelle, il Partito Democratico e Liberi ed Uguali ad adottare una linea di responsabilità, a servizio del Paese. Linea difficile e politicamente rischiosa, certo; ma, nelle circostanze date, inevitabile. Sia dato loro merito.
Si trattava, inoltre, di ripristinare l’armonia fra l’Italia e le Istituzioni dell’Unione Europea. Il nuovo Governo Conte ha immediatamente designato Paolo Gentiloni quale membro italiano della Commissione Europea. Gentiloni sarà commissario per gli “Affari economici e monetari”. La persona è abile ed ha statura internazionale; ottima scelta. Ora alcuni storcono il naso perché, nella medesima Commissione Europea, il lettone Valdis Dombrovskis sarà Vicepresidente esecutivo per l’Economia. Probabilmente, meglio così. In questo modo Gentiloni, che è stato espresso da uno Stato Membro quale l’Italia, che ha oggi serissimi problemi nei conti pubblici, a partire dall’entità del debito pubblico italiano, sarà meno esposto e potrà lavorare più tranquillamente. Anche alla Commissione Europea, guidata dalla tedesca Ursula von der Layen, formuliamo i più sinceri auguri di un proficuo lavoro, nell’interesse di un rilancio delle Istituzioni Europee.
Per tornare a Carlo Calenda, si tratta certo di una persona intelligente, brillante e competente. Purtroppo, gli fa difetto proprio l’intelligenza politica. É rigido e dogmatico. Spesso mi sorprendo malinconicamente a pensare al curioso destino che fa sì che in Italia, proprio fra quanti si professano “liberaldemocratici”, l’intelligenza politica sovente faccia difetto. Altrettanta rigidità ho riscontrato in Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. Peccato per Più Europa, la cui vicenda rischia di chiudersi qui. Ho, invece, molto apprezzato l’intervento del senatore a vita Mario Monti. Il quale non ha risparmiato le sue critiche ed i suoi moniti al nascente Esecutivo, ma poi, con senso di responsabilità, ha votato SI alla fiducia.
Oltre all’avvio degli adempimenti necessari per la definizione della legge di bilancio, che sarà al centro dell’attività del nuovo Governo Conte, una delle prossime scadenze temporali importanti sarà l’approvazione, in quarta lettura, alla Camera dei deputati, della legge costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari. Al riguardo, anche organi di informazione che dovrebbero essere autorevoli, continuano a riportare cose inesatte.
Mi voglio limitare a ricordare le disposizioni di due articoli della Costituzione. Ai sensi dell’articolo 138, secondo comma, Cost., una legge costituzionale non entra immediatamente in vigore dopo essere stata approvata.
Viene pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, per fini meramente conoscitivi. A partire dalla pubblicazione decorrono tre mesi, entro i quali si può chiedere che la legge sia sottoposta a Referendum per essere valutata, e confermata, o meno, dall’intero Corpo elettorale. Com’è noto, possono chiedere il Referendum: a) un quinto dei membri di una delle due Camere; b) cinquecentomila elettori; c) cinque Consigli regionali. Di conseguenza, la legge costituzionale entra in vigore: se, dopo tre mesi, non è stato chiesto un Referendum nelle forme e modalità prescritte; oppure quando, dopo lo svolgimento del Referendum, risulti approvata dalla maggioranza dei voti validi. Nel Referendum costituzionale confermativo non c’è quorum di validità; prevale, dunque, la maggioranza relativa dei votanti.
Tutto ciò premesso, nei tre mesi che intercorrono fra la pubblicazione ed il Referendum, le forze politiche hanno il tempo di preparare una legge elettorale conseguente alla riforma costituzionale; così come possono individuare le opportune modifiche dei Regolamenti parlamentari.
L’altra disposizione della Costituzione da richiamare è l’articolo 83, secondo comma, Cost.; questo stabilisce il numero dei cosiddetti “grandi elettori” delle Regioni nell’elezione del Presidente della Repubblica. Si tratta di 58 grandi elettori: tre delegati per ogni Regione, scelti in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze, mentre la Valle d’Aosta ha un solo delegato.
É evidente che, dopo l’approvazione della riforma costituzionale, il peso di questi 58 elettori regionali sarebbe accresciuto: infatti, mentre finora si sono aggiunti al numero di 945 elettori, fra deputati e senatori, dopo la riforma il numero dei rappresentanti del Parlamento scenderebbe a 600. Tale questione, tuttavia, è stata già valutata da chi ha proposto la riforma costituzionale ora in discussione. Si è ritenuto che il rapporto tra i 58 ed i 600 sia comunque accettabile, anche se un po’ più favorevole alle Regioni; tale, comunque, da garantire piena legittimazione al Presidente della Repubblica che sarà eletto da questo Collegio.
Tutti i discorsi di “necessario riequilibrio” delle rappresentanze regionali sono tanto pretestuosi, quanto fumosi. Mezzucci ai quali ricorre chi è contrario alla riforma costituzionale.
Ultimo punto. É, ovviamente, possibile avviare nuove riforme costituzionali, per superare il Bicameralismo paritario, per stabilire in Costituzione il principio della tutela dell’ambiente, e per le mille altre cose di cui in questi giorni si discute. Le nuove riforme costituzionali proposte inizieranno, ciascuna, il proprio iter e avranno la sorte che deriverà dalla razionalità del loro impianto, tale da essere condivisa, o meno, dalle prescritte maggioranze parlamentari. Intanto, però, si approvi definitivamente la riforma costituzionale in discussione. Senza bloccare questa, aspettando quelle.

 

Livio Ghersi
11 settembre 2019

Il secondo governo Conte è nato. Non era questo certamente l’obiettivo di Salvini quando ha scatenato la crisi di Ferragosto. Resta ancora da capire perchè lo abbia fatto; non era difficile prevedere come possibile l’esito che poi si è realizzato. Ma in politica spesso è complicato comprendere le vere ragioni di certe scelte perchè ci sono cose che si sanno e altre che si tengono più nascoste. Certamente però il capo della Lega ha sopravalutato Di Maio ritenendo che potesse svolgere nel suo movimento un ruolo di leadership analogo al suo, mentre una migliore conoscenza della galassia pentastellata avrebbe dovuto indurlo quanto meno alla prudenza; è vero infatti che Grillo si era messo “in sonno” (come si usa dire nella massoneria per gli adepti non attivi) ma restava sempre il possessore delle chiavi (insieme a Casaleggio) pronto ad esercitare le funzioni di padrone di casa. E lo ha fatto senza esitazioni mettendo nell’angolo Di Maio e costringendolo a un’alleanza con il partito democratico che certamente l’uomo di Pomigliano avrebbe preferito evitare. Sottovalutare gli altri competitors è un errore grave per un uomo politico che pretende di governare un paese; soprattutto se si compie due volte di seguito. Anche nel caso dell’Europa infatti ho l’impressione che Salvini abbia sottovalutato la capacità di tenuta dell’establishment europeo e americano (Russiagate) che egli ha sfidato apertamente mettendosi nelle condizioni di non potere gestire i difficili appuntamenti di fine d’anno.

Tutto ciò premesso vediamo dunque (per punti essenziali) il nuovo governo per come io lo vedo.

a) – governo debole

Il nuovo governo appare minato da forti contraddizioni interne, esposto al fuoco di un’opposizione che non gli lascerà tregua, con i Cinque Stelle richiamati continuamente all’esperienza del Conte 1, obbligato a una manovra di bilancio che – anche con una Commissione “amica” – comporterà comunque sacrifici difficilmente mimetizzabili. A ciò si aggiunge una “debolezza politica” costituita dalla risicata maggioranza di cui esso dispone al Senato. Ragioni tutte che inducono a ritenere possibili elezioni anticipate nel 2020, una volta superati i motivi di emergenza che ne hanno giustificato la nascita.

b) – governo equilibrato

Nella sua composizione il governo si presenta abbastanza equilibrato. Di Maio è stato retrocesso agli Esteri, un ministero sempre meno importante da quando le scelte e le presenze internazionali che contano vengono garantite dal presidente del Consiglio (e non soltanto in Italia), come è avvenuto a partire dal governo Monti (e poi con Letta, Renzi, Gentiloni e lo stesso Conte). Franceschini ha preferito spendere la sua esperienza tornando ai Beni Culturali (che invece è un dicastero sempre più importante). Preoccupa un liberale come me l’assegnazione dell’Economia a un personaggio come Gualtieri, certamente competente e serio ma ex-comunista e convinto assertore di un’economia dirigistica; anche se la sua intensa frequentazione delle istituzioni europee e il pragmatismo che ne è derivato gli hanno valso l’endorsement della Lagarde (BCE). Allo Sviluppo Economico (altro ministero-chiave) Di Maio è riuscito a imporre Patuanelli, capogruppo al Senato, probabilmente poco gradito a chi avrebbe preferito una scelta di discontinuità rispetto al passato (anche se proviene da Trieste). Le Infrastrutture, infelicemente governate dal fin troppo noto Toninelli nel precedente governo, sono state assegnate a Paola De Micheli (PD) che sembra avere le carte in regola per dirigere questo importante ministero. Il resto è costituito da conferme (talvolta discutibili come quella di Bonafede alla Giustizia) o da new entries che poco contano ai fini dell’azione complessiva di governo che sarà fortemente condizionata dalla scarsità di risorse disponibili. Un vincolo che purtroppo condizionerà anche il nuovo titolare della Pubblica Istruzione Fieramonti. L’assegnazione del ministero dell’Interno a una funzionaria rigida e competente, estranea ad appartenenze politiche come Luciana Lamorgese è stata una scelta saggia in grado di ammortizzare i prevedibili conflitti che su temi come immigrazione e sicurezza non mancheranno di manifestarsi nella nuova maggioranza.
Infine, importantissima perchè va ben oltre la durata di un governo nazionale, la designazione di Gentiloni nella futura Commissione dell’Unione Europea: una vittoria per il PD che si assicura, dopo l’elezione di Sassoli alla presidenza del parlamento di Strasburgo, una solida presenza nelle istituzioni comunitarie.

c) – programma di governo

Un elenco di 26 propositi e buone intenzioni in cui si auspica tutto e il suo contrario non è un programma di governo. Un serio programma politico indica le priorità (che non possono essere 26) e le risorse per farvi fronte. Quelle indicate al primo punto del programma della nuova maggioranza sono talmente numerose, onnicomprensive e intrinsecamente contraddittorie da essere difficilmente considerate tali. Speriamo che qualcosa di più concreto emerga dal discorso di Conte alla Camera. Ciò non toglie tuttavia che alcuni punti del programma, anche se si tratta di mere enunciazioni, possano preoccupare un liberale come me. I punti 4 e 7 per esempio, pur nella loro confusione dettata da esigenze di “identità politica” e di ricerca del consenso elettorale, prefigurano una concezione dirigistica e punitiva per le imprese di cui certamente il nostro sistema produttivo, già imbrigliato da svantaggi burocratici, fiscali ed energetici che ne minano la competitività, non sentiva la necessità. L’idea, prefigurata nel punto 14, di “promuovere” il pluralismo nell’informazione sembra un ritorno alle sovvenzioni pubbliche che, alla mercè di variabili maggioranze parlamentari, costituiscono una minaccia grave alla libertà di informazione. Per il resto si tratta di un lungo elenco di buone intenzioni (c’è perfino il contrasto al maltrattamento degli animali) di difficile realizzazione, enunciate in maniera ambigua, complessivamente costose oltre ogni limite di compatibilità con un’economia di mercato e con la stabilità finanziaria. Ma naturalmente tutti lo sanno, anche quelli che hanno perso giornate intere a compilarlo; dejà vu. Il programma dell’Ulivo di Romano Prodi di vent’anni fa (300 pagine, se non ricordo male) non ha insegnato nulla?

d) – Quale futuro

Quali siano le cose da fare con assoluta priorità, al di là degli elenchi programmatici, lo sappiamo tutti: 1) ricreare le condizioni di competitività delle imprese attraverso la diminuzione del cuneo fiscale, unico modo per riassorbire la disoccupazione. 2) introdurre meccanismi fiscali di controlli incrociati (oggi facilitati dalle nuove tecnologie) unico modo per ridurre davvero in maniera sensibile l’evasione fiscale. 3) rivedere le politiche sulla sicurezza eliminando alcune asprezze ma mantenendo alcune misure del precedente governo che andavano incontro a una percezione (vera o no poco importa) diffusa soprattutto nelle realtà sociali più disagiate, e in tale contesto promuovere una nuova politica di integrazione basata sull’inserimento territoriale e non su inutili e discutibili battaglie di bandiera come quella della concessione automatica della cittadinanza a chi nasce (anche casualmente) in Italia. 4) affrontare in maniera decisa il problema dell’emersione dell’economia sommersa, strettamente collegato con la questione meridionale, anche attraverso politiche fiscali e contrattuali differenziate. 5) puntare tutte le risorse disponibili sulla riqualificazione della scuola restituendole, almeno ai livelli superiori, quella funzione di selezione meritocratica (per studenti e docenti) indispensabile per assicurare un corretto funzionamento dell’”ascensore sociale”.

Per fare queste cose un governo come il Conte bis non sembra il più adatto per ragioni strutturali e negli obiettivi che sembra volere conseguire. Intendo dire che per realizzare una strategia di lungo respiro occorre un governo di legislatura, fondato su una maggioranza concorde almeno sulle questioni fondamentali, diretto da una personalità seria, affidabile, accreditata a livello internazionale, possibilmente non troppo narcisista (un identikit tutto da scoprire).
Ma non basta. Il nuovo governo, al di là della sua precarietà strutturale, non sembra orientato su queste priorità liberali; al contrario, dalla lettura del suo confuso programma molti hanno tratto la convinzione che si tratti di una vera e propria “svolta a sinistra”. Se così fosse e se il governo si comportasse di conseguenza, si darebbe spazio a una destra moderata in grado di assorbire il consenso di chi non condivide la demagogia della redistribuzione sociale di risorse che non ci sono, associata a un ambientalismo dirigista tendenzialmente fondamentalista.

Staremo a vedere.

 

Franco Chiarenza
6 settembre 2019

 

I primi europei che misero piede nel “porto profumato” (questa la traduzione letterale di Hong Kong) furono i portoghesi nel XVI secolo; ma ne furono cacciati. Due secoli dopo si affacciarono gli inglesi tramite la leggendaria Compagnia delle Indie e questa volta ci restarono. Anzi nel 1841 l’isola (che corrisponde alla parte centrale dell’attuale megalopoli) fu occupata militarmente e annessa come colonia alla Gran Bretagna, Negli anni successivi la colonia si allargò tramite concessioni del regime imperiale indebolito dalle “guerre dell’oppio” fino a raggiungere le attuali dimensioni: 1.100 kmq in cui si stipano sette milioni e mezzo di abitanti.
Il modello politico ed economico di Hong Kong, fondato su un innesto della cultura giuridica anglosassone su un contesto storicamente e socialmente molto diverso da quello dei colonizzatori, ha avuto un successo incredibile; pure quando i rapporti con la Cina comunista erano inesistenti (anche a causa dell’economia rigidamente pianificata imposta dal partito comunista di Mao Zedong) Hong Kong aveva sviluppato un’economia fiorente e un tenore di vita molto superiore a quello cinese. Quando nel 1997 la Gran Bretagna decise di restituire la colonia alla Cina molte furono le preoccupazioni; ma il governo di Pechino accettò di mantenere lo status di Hong Kong nella sua specificità facendone una “regione amministrativa speciale” dotata di piena autonomia politica, economica e giuridica. La Hong Kong Basic Law, sottoscritta in quella occasione, consentiva elezioni libere, libertà di stampa, il mantenimento del sistema giuridico modellato sulla Common Law britannica; il controllo politico del governo di Pechino si limitava alla politica estera, militare e a un sistema di nomina del governatore (Chief Executive) che di fatto garantisce ai cinesi un potere di veto. Gli scettici pensavano che non sarebbe durato a lungo e che rapidamente il partito comunista avrebbe assunto ogni potere omologando l’ex-colonia britannica al resto del continente. Ma ebbero torto, almeno in parte, perchè la questione è molto più complicata e la “rivoluzione degli ombrelli” scoppiata per contestare i tentativi del governo di Pechino di allargare la sua influenza dimostra tutta la fragilità del compromesso del 1997.

Uno stato due sistemi
L’accordo con gli inglesi era stato possibile perchè nel frattempo in Cina il regime aveva cambiato profondamente aspetto (e sostanza) sotto l’impulso delle riforme economiche di Deng Xiaoping, che avevano introdotto il sistema capitalistico riducendo fortemente la pianificazione socialista che, in coerenza coi principi marxisti, Mao Zedong aveva imposto dopo avere assunto il potere nel 1949. Per rendere possibile la riunificazione dei territori perduti dove ormai si erano sviluppati con successo modelli politici ed economici assai diversi da quelli della madrepatria, Deng aveva elaborato la teoria conosciuta come “Uno Stato due sistemi”. In sostanza Deng proponeva in cambio della riunificazione con Hong Kong, Macao (ex colonia portoghese) ma soprattutto con Taiwan (la cui sostanziale indipendenza era protetta dagli Stati Uniti) il riconoscimento della loro peculiarità politica, economica e giuridica. Il problema però era sempre quello delle garanzie; posto che Pechino (anche per un comprensibile orgoglio nazionale) rifiutava qualsiasi controllo internazionale nulla assicurava che un regime autoritario, il cui gruppo dirigente si rinnovava sostanzialmente per cooptazione, potesse improvvisamente cambiare orientamento vanificando le autonomie concesse. Il patto sottoscritto all’atto del rientro di Hong Kong nella sovranità cinese rappresentava quindi qualcosa di più di un semplice trattato, era la prova che il sistema “uno stato due sistemi” poteva funzionare e che il governo centrale cinese lo avrebbe rispettato. Un intervento repressivo a Hong Kong, come quello che si profila dopo mesi di disordini, farebbe perdere al regime (e al suo attuale leader Xi Jinping) ogni credibilità e dimostrerebbe l’intrinseca fragilità della teoria di Deng. Senza contare il danno economico prodotto dalla probabile fuga da Hong Kong di ingenti capitali internazionali e il ridimensionamento di quella che oggi è una piazza finanziaria tra le più importanti del mondo.

Taiwan
La grande isola (36.000 kmq, diecimila in più della Sicilia, tanto per intenderci) ha quasi 25 milioni di abitanti, un’economia fiorente, un sistema politico democratico. In linea di principio si riconosce parte integrante della Cina (anche perchè molti suoi abitanti discendono dalle truppe sconfitte di Ciang-Kaiscek che vi si rifugiarono nel 1947) ma non intende sottomettersi al regime comunista totalitario di Pechino. I tentativi cinesi di occuparla con la forza sono sempre falliti un po’ perchè Taiwan dispone di un armamento difensivo di tutto rispetto ma soprattutto per la protezione americana sancita da una esplicita e solenne dichiarazione del Congresso. Anche per i suoi abitanti dunque ciò che avviene a Hong Kong rappresenta la cartina di tornasole della credibilità della teoria di Deng Xiaoping; esiste infatti, e si fa sentire, un movimento radicato nell’opinione pubblica disponibile ad aprire trattative col governo cinese per togliere Taiwan dal relativo isolamento internazionale a cui la Cina l’ha costretta. Una stretta autoritaria sul “porto profumato” al di là del mare scoraggerebbe forse in maniera definitiva una possibile riunificazione con la Cina dell’”isola bella” (chiamata Formosa dagli spagnoli quando vi approdarono nella prima metà del secolo XVII).

Franco Chiarenza
26 agosto 2019

Le nuvole si addensavano in cielo già da qualche mese, i tuoni si susseguivano sempre più minacciosi, che poi abbia finito per piovere mi sembra ovvio, e mi stupisce che qualcuno ne sia rimasto sorpreso. Quel che ci si chiede, io per primo, è però un’altra cosa: perchè Salvini abbia aperto una crisi che, almeno in apparenza, non gli conviene, e perchè lo abbia fatto precipitosamente in pieno Ferragosto. Da Di Maio, terrorizzato che la perdita del governo avrebbe rappresentato un fallimento della sua leadership, aveva ottenuto tutto: la TAV, il decreto “sicurezza bis”, il diritto a designare il commissario europeo, una manovra di bilancio incentrata questa volta sulle esigenze elettorali della Lega (come la cosiddetta flat tax).
La domanda quindi è: perchè? La risposta data dal capo della Lega è risibile: troppi no da parte dei Cinque Stelle, perchè ormai i no erano diventati talmente flebili da non essere più percepiti.
E allora?

Qualche ipotesi
Ho sentito Sallusti dire una cosa saggia: se non capisco il perchè di una cosa penso che ci siano dei fatti che non conosco che l’hanno determinata. Se Salvini fa una cosa apparentemente irragionevole un motivo ci sarà e probabilmente noi non lo conosciamo. E’ lecito dunque, anche senza cadere nella fanta-politica, buttare giù un paio di ipotesi.
La prima è che a fronte di una manovra correttiva di bilancio oggettivamente incompatibile con le promesse che ha fatto ai piccoli impenditori settentrionali che costituiscono il “nocciolo duro” del suo consenso (e che ha mal digerito il “reddito di cittadinanza” imposto dai Cinque Stelle) Salvini abbia preferito lasciare ad altri l’onere di sciogliere nodi che si sono ingarbugliati, riservandosi dall’opposizione di riprendere una fruttifera campagna anti-sistema. Anche perchè nel parlamento europeo le cose non sono andate come lui sperava; la nuova Commissione Von der Leyen non farà certamente da sponda a un ulteriore aggravamento del debito pubblico come quello che le esigenze elettorali della Lega avrebbe comportato (il che spiega anche l’imbarazzo di Giorgetti e la sua decisione di rinunciare alla nomina di commissario).
Di fronte a una prospettiva autunnale densa di rischi Salvini ha rovesciato il tavolo; il suo obiettivo non è di andare a votare adesso ma a primavera quando alcuni problemi saranno risolti e lui potrà liberamente attaccare una manovra che sarà inevitabilmente dura. Zingaretti ha mostrato di capire la pericolosità del passaggio e per questo è molto prudente nei confronti di un’alleanza di governo coi Cinque Stelle che servirebbe soltanto a togliere le castagne dal fuoco a Salvini.
C’è anche una seconda ipotesi: che la faccenda dei legami con Putin sia più grave e meno folkloristica di quanto non si voglia far credere e che ciò abbia messo in allarme gli apparati politici e militari americani. Non basta qualche affinità caratteriale con Trump per credere di potersi muovere liberamente in un contesto internazionale quanto mai complicato; l’impressione è che Salvini abbia agito in maniera dilettantesca, come sempre ha fatto quando si trattava di politica estera.
Naturalmente la prima e la seconda ipotesi non si escludono; anzi. E il visibile malumore di Giorgetti, formalmente numero due della Lega, non sembra dovuto a una passeggera indigestione.

La nuova maggioranza
Esistono le condizioni per una nuova maggioranza? E in qual misura è realmente desiderata, o le trattative in corso rappresentano soltanto un “atto dovuto” per consentire poi al Capo dello Stato di sciogliere le Camere (o, in alternativa, di nominare un governo tecnico per l’approvazione del bilancio, fissando le elezioni a primavera?). Lo vedremo nelle prossime ore.
Certamente pesano da una parte l’imprevista scesa in campo di Grillo che, in maniera piuttosto perentoria, ha dettato la linea di una nuova maggioranza di legislatura (mettendo in serie difficoltà Di Maio che potrebbe di fatto venire emarginato), dall’altra il comportamento di Renzi il quale ha agito come leader di fatto del PD, forte della sua maggioranza nei gruppi parlamentari, decisi entrambi a sbarrare la strada a Salvini a qualunque costo. A quel che si dice anche Prodi e Veltroni avrebbero sposato la linea di una maggioranza di legislatura. Ma mentre un governo di emergenza si potrebbe realizzare con relativa facilità, una nuova alleanza di legislatura dopo un governo “di cambiamento” nato e costruito in continua polemica con il partito democratico e la “casta” demo-liberale, presenta difficoltà assai maggiori e forse un regalo elettorale in vista di inevitabili elezioni anticipate.
Mattarella, se leggo bene la sua indecifrabile correttezza istituzionale, mi sembra propenso a correre il rischio di ricorrere subito alle urne; o la va o la spacca. Se Salvini e i suoi alleati avranno la maggioranza governeranno, ma se, come è possibile, né la destra né la sinistra supereranno il 50 per cento dei seggi alla Camera e al Senato il movimento di Grillo, per dimezzato che sia, resterà l’arbitro del gioco. E allora, forse, un patto di legislatrura tra Cinque Stelle e PD (magari senza Di Maio e senza Renzi) potrebbe essere costruito in maniera più solida.

P.S. Qualcuno metta il bavaglio a Macron. Ogni sua interferenza regala voti a Salvini, facendone il campione della dignità nazionale offesa. C’est tellement difficile à comprendre?

 

Franco Chiarenza
24 agosto 2019

Tra i tanti motivi di contrasto tra i partner della maggioranza, forse determinante per la caduta del governo Conte, spicca quello delle cosiddette “autonomie differenziate”, frutto avvelenato dei precedenti governi che pensavano in tal modo di contenere le spinte autonomistiche del “Lombardo-Veneto”. Era prevedibile che il movimento Cinque Stelle, poco sensibile alle istanze autonomistiche e radicato principalmente nel centro-sud, avrebbe colto l’aspetto implicitamente anti-meridionale del pacchetto delle deleghe che peraltro sono figlie della sciagurata riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra nel 2001. Ultima conferma di un tira e molla tra centralismo e federalismo che dura da settant’anni.

La falsa partenza del 1945
Il ripudio del centralismo, considerato erroneamente un’eredità del fascismo (mentre risaliva ai governi liberali dell’800 e in particolare alla riforma amministrativa promossa da Crispi), portò dopo la guerra i principali partiti (e soprattutto i cattolici di sinistra e i socialisti) a comprendere nei loro programmi un regionalismo più o meno accentuato che poi trovò nell’originario titolo V della Costituzione un ragionevole compromesso. Ma una redistribuzione dei poteri era più facile da dire che da fare; ci vollero venticinque anni perchè finalmente le Regioni diventassero operative, dotate di una relativa autonomia di spesa ma sostanzialmente prive di poteri nella destinazione dei propri introiti fiscali. Il centralismo, rifiutato a parole, era tornato ad essere la prassi di governo a cui i partiti della maggioranza (ma anche quelli dell’opposizione in vista di un eventuale ricambio) non volevano rinunciare; anche perchè dove il federalismo era stato realizzato con le Regioni a statuto speciale i risultati erano stati quanto meno problematici.
Aveva cominciato la Sicilia, scossa subito dopo l’occupazione anglo-americana da una ventata separatista, la quale aveva ottenuto nel 1945 (prima ancora dell’avvento della Repubblica) un’autonomia speciale molto avanzata ma che nella sua realizzazione concreta si era dimostrata in gran parte inattuabile; di fatto, al di là di qualche orpello formale, essa si è appiattita sugli stessi poteri delle Regioni ordinarie e comunque ha dimostrato di non riuscire a utilizzare in maniera efficiente i cospicui fondi messi a sua disposizione dallo Stato. Seguirono altre Regioni a statuto speciale, alcune delle quali (come il Trentino-Alto Adige) giustificate da differenze etniche e linguistiche presenti sin dalla loro annessione nel 1919, altre da specificità insulari (come la Sardegna), altre ancora – Friuli Venezia Giulia e Val d’Aosta – da problematiche frontaliere molto pretestuose. La loro specificità consisteva sostanzialmente nella possibilità di affiancare all’autonomia di spesa una certa disponibilità delle proprie entrate fiscali (anche sotto forma di cospicue integrazioni da parte dello Stato come avviene per le province autonome di Trento e Bolzano). In conclusione: una politica disorganica fatta di inseguimenti delle pressioni locali, strattonata tra l’esigenza di non disturbare le prassi clientelari e parassitarie diffuse in alcune regioni soprattutto meridionali e la domanda di maggiore dinamismo che proveniva da quelle settentrionali.

Regionalismo e Mezzogiorno
In realtà il regionalismo si incrociava con l’irrisolta questione meridionale. Per il Mezzogiorno infatti la permanenza di uno Stato centrale in grado di redistribuire le risorse era considerata di fondamentale importanza per la diffusa convinzione che una maggiore autonomia delle regioni settentrionali avrebbe accentuato le differenze strutturali tra le due parti del Paese, facendo venir meno un principio di solidarietà che (almeno a parole) nessuno voleva rinnegare. Era prevalente nella cultura politica l’idea che il gap esistente tra centro-nord e sud potesse essere ridotto soltanto con un massiccio intervento pubblico dello Stato; una concezione che risaliva a Nitti e che fu anche parzialmente realizzata a partire dalla legge speciale per Napoli del 1885 fino alla Cassa per il Mezzogiorno nel 1952, ultimo intervento organico per superare il deficit infrastrutturale prima che le Regioni se ne appropriassero e imponessere logiche clientelari e spartitorie che hanno fatto perdere ogni razionalità alle politiche meridionalistiche.
L’avvento delle Regioni ha messo invece in risalto le differenze tra le diverse parti del Paese nella capacità delle loro classi dirigenti di gestire in maniera efficiente le risorse pubbliche; basti pensare agli esiti assai diversi della regionalizzazione della sanità pubblica. Per contro quella che doveva essere nelle intenzioni una riforma amministrativa basata sul decentramento di molte competenze si è tradotta in una complicazione burocratica per l’assenza di confini netti tra le competenze regionali e quelle statali, le cosiddette “competenze concorrenti”, le quali oltre a generare un contenzioso giudiziario e costituzionale senza fine, hanno anche consentito la permanenza di una burocrazia romanocentrica molto invasiva che, sovrapponendosi a quella delle Regioni, ha determinato una rete di vincoli e ostacoli che non sono l’ultima delle ragioni della scarsa attrattività per gli investimenti produttivi. A questo stato di cose le Regioni settentrionali hanno sempre reagito chiedendo maggiore autonomia, non soltanto nella destinazione della spesa pubblica, ma anche nella gestione delle entrate fiscali; ed è questo il punto che naturalmente preoccupa le Regioni meridionali, le quali, peraltro, invece di proporre un progetto costituzionale alternativo, si limitano a difendere lo status quo.

Autonomie generalizzate
Non da oggi sostengo che, essendo il problema più di mancanza di una cultura politica che non di scarsità di risorse disponibili, la soluzione, anche nell’interesse dei meridionali, sta nel portare avanti per tutti l’autonomia regionale e non di proseguire sulla strada sbagliata delle differenziazioni che la classe politica si ostina a percorrere da settant’anni a questa parte. Lo Stato centrale si occupi della politica estera, della difesa, della giustizia e (in parte) della sicurezza, della politica economica, del commercio estero. Tutto il resto può essere lasciato alle autonomie regionali (un po’ come accade per i lander tedeschi) con un patto nazionale di solidarietà che destini una parte delle risorse delle Regioni più ricche al superamento delle precarie condizioni infrastrutturali di quelle più povere. A questo scopo si potrebbe costituire un’Agenzia nazionale che faccia capo al governo centrale, controllata dal Parlamento, e dotata di risorse sufficienti per invertire la tendenza alla desertificazione del Mezzogiorno che costituisce un danno per tutto il Paese e per l’intera Europa. Autonomie forti anche nelle regioni meridionali significa tentare una rivoluzione culturale liberale che riproponga il principio di responsabilità nella competizione politica, colpisca a morte le pigrizie assistenziali, favorisca la meritocrazia e la competitività, aumenti la produttività, consenta al Sud di diventare attrattivo anche attraverso forme differenziate delle normative fiscali e sindacali. Si tratta di un’utopia? Sostenerlo vuol dire abbandonarsi alla rassegnazione, alla subordinazione, all’emigrazione dei migliori. La verità è che molti non vogliono cambiare perchè difendono con le unghie le pigrizie e i privilegi che una tradizione ancora borbonica consente nell’ambito di una comoda dipendenza da uno Stato centrale al quale si chiede soltanto di erogare misure assistenziali a pioggia quando la tensione sociale diventa eccessiva.

 

Franco Chiarenza
12 agosto 2019

La vera sorpresa di questo governo, inutile nasconderselo, si chiama Giuseppe Conte. Lo dimostrano anche i sondaggi che lo vedono in pole position.
Il che induce a due ordini di considerazioni.

Il mediatore
La prima riguarda l’indubbia abilità di Conte non soltanto nel mediare tra posizioni sempre più divergenti tra i leader della maggioranza (con buona pace del contratto di governo che avrebbe dovuto risolvere tutto in anticipo lasciando a l presidente del Consiglio un ruolo pressochè notarile), ma anche nell’ammortizzare le stupidaggini e la superficialità che caratterizzano la politica estera di Salvini e Di Maio, dai gilet gialli ricevuti con tutti gli onori a palazzo Chigi per fare un dispetto a Macron al “Russiagate” di Salvini. La mediazione di Conte è andata infatti ben oltre: in sostanziale sintonia con il Quirinale e con il ministro Tria ha negoziato con Bruxelles il rinvio della procedura d’infrazione, ha mantenuto la polemica con la Francia in toni accettabili, ha, in qualche modo, guadagnato (almeno personalmente) la fiducia di alcuni leader europei, ha ottenuto la promessa di aumentare gli stanziamenti europei per la TAV Torino-Lione quel tanto che consentisse ai Cinque Stelle di salvare la faccia (visto che la decisione non era ormai più rinviabile e ritenuta ineluttabile dallo stesso Di Maio). Anche sulla questione libica, malgrado le oggettive difficoltà, ha mantenuto la barra dritta sull’appoggio a Serraj e sulla necessità di cercare le soluzioni possibili nell’ambito dell’ONU, vista l’impossibilità di una comune strategia europea. Ma il vero capolavoro è stata la fatidica giornata di mercoledì 24 luglio quando dopo avere salvato i Cinque Stelle assumendo su di sé l’onere della decisione sulla TAV, adducendo motivi di carattere economico e internazionale che in realtà erano conosciuti da tempo, è andato al Senato per confermare la responsabilità di Salvini nell’accreditamento di Savoini a Mosca, ancora una volta favorendo i Cinque Stelle e facendo intendere a Salvini che qualsiasi forzatura passa per una crisi di governo. Come dire che alla fine il jolly in mano ce l’ha lui con dimissioni che aprirebbero una crisi dagli esiti imprevedibili (e che infatti Salvini ha mostrato di temere molto).

Il moderato
Ma, come ho detto, ciò che stupisce è la sua popolarità attestata dai sondaggi. Il che rimanda ad un analogo consenso che si registrò per Gentiloni. La maggioranza degli italiani dunque preferisce personaggi di governo moderati, dal profilo modesto, poco presenti nelle sceneggiate televisive, assenti dal presenzialismo quotidiano sui social; il fatto che poi i voti vadano a personaggi volgari come Salvini, pretenziosi come Renzi, inaffidabili come Di Maio, è dovuto ad altre ragioni che poco hanno a che fare con l’esibizionismo mediatico. Quella che apprezza i toni bassi e la concretezza è una maggioranza silenziosa, spesso probabilmente non giovane, poco condizionabile dalle pagliacciate su internet che tanto divertono le generazioni più abituate ai nuovi linguaggi della politica; forse la stessa maggioranza che aveva sperato anni fa che il protagonismo di Renzi, anche se un po’ al di sopra delle righe, avrebbe avviato un processo di riforme istituzionali e strutturali di cui tutti sentivano la necessità. Quando Renzi, malgrado alcuni risultati positivi, finì affondato dalla sua arroganza, da un esercizio del potere che non aveva cambiato i vizi strutturali del PD, e da una riforma costituzionale mal gestita e percepita come un tentativo quasi autoritario (anche se non lo era) la “maggioranza silenziosa” apprezzò Gentiloni il quale con il reddito di inclusione e una credibile politica estera fondata su solide alleanze avrebbe forse salvato il PD dal naufragio elettorale se Renzi e il partito stesso non lo avessero continuamente delegittimato. Forse è la stessa maggioranza che ha votato Cinque Stelle perchè stufa della corruzione imperante a tutti i livelli che il PD sembrava proteggere invece di combatterla; ma è bastato un anno per rendersi conto che il dilettantismo al potere non risolve i problemi ma li aggrava. Così ha rapidamente cambiato tiro rifugiandosi nella Lega nazionalista guidata da uno spaccone, il quale però, almeno sulla questione della sicurezza (collegata all’immigrazione clandestina) sembrava meglio interpretare sentimenti largamente condivisi (se a ragione o a torto poco importa). Questa maggioranza fluttuante, non più ancorata a certezze ideologiche, diffidente ma al tempo stesso disponibile a qualsiasi promessa di cambiamento, preoccupata per il futuro, esiste; non frequenta la piattaforma Rousseau, non mette i like alle volgarità di Salvini, chiede un progetto per fare uscire l’Italia dalla stagnazione, sa che la strada per farlo non può consistere nè nell’assistenzialismo del reddito di cittadinanza né nelle pensioni anticipate.

Cosa c’entra questo discorso con Conte? Forse più di quanto oggi si pensi. Sono in molti a chiedersi cosa farà Conte da grande. Lui dice che dopo questa esperienza di governo tornerà ad insegnare all’università; può darsi. Anche Coriolano tornò a coltivare la terra finchè qualcuno lo richiamò a Roma. Da sempre la politica è bella anche perchè è spesso sorprendente.

 

Franco Chiarenza
27 luglio 2019

L’estate si avvicina e tutto sembra immobile; una lunga sosta in una congiuntura mondiale che non potrebbe permetterselo. L’Unione Europea è in attesa del suo prossimo Esecutivo; dopo avere approvato la nomina di Ursula Von Der Leyden alla presidenza della Commissione il Parlamento dovrà esprimersi sulla composizione della Commissione stessa secondo le indicazioni che verranno dalla nuova presidente e dal Consiglio. Nel frattempo bisognerà attendere gli sviluppi della Brexit che dipenderanno in gran parte dalla nuova leadership del partito conservatore che sostituirà Theresa May. Incombe poi la “questione italiana” che non è riducibile a un problema interno di casa nostra per le conseguenze che essa può avere sugli equilibri europei: non si tratta soltanto del deficit per eccesso di debito o del blocco dei porti alle ONG, ma in generale di una politica estera ondivaga che sembra mettere in discussione le alleanze tradizionali a cominciare dalla stessa NATO. Che il governo Conte riesca a sopravvivere o meno poco cambia se nuove elezioni dovessero confermare il risultato elettorale conseguito da Salvini. Vi sono poi altre due incognite: quale sarà la linea politica del nuovo governo greco guidato dal conservatore Mitsotakis e cosa accadrà in Spagna dove il governo socialista di Sanchez soffre della mancanza di una maggioranza sicura. Nè gli stati europei possono ignorare la guerra civile in Libia che rischia di destabilizzare ulteriormente l’intero bacino del Mediterraneo; una questione che dovrebbe interessare tutti i partner dell’Unione e non soltanto i paesi che vi si affacciano. Sarebbe auspicabile – almeno in questo caso – evitare che i paesi europei procedano in ordine sparso pestandosi i piedi.

L’Italia sospesa
Anche in Italia la stabilità del governo è messa a dura prova dalle continue diffide che si lanciano i due partiti della maggioranza; l’imperturbabile presidente Conte continua a dire che “tutto va bene” e che si tratta di “normale dialettica”. Ma non è molto normale l’infinita serie di dichiarazioni ostili che si scambiano i due vice presidenti.
La verità è che entrambi i partiti della maggioranza si trovano in difficoltà: la popolarità della Lega è messa a rischio non certo dalle sfide un po’ donchisciottesche delle ONG (puntualmente esaltate dalla Francia) ma piuttosto dalla vicenda dei finanziamenti russi scoppiata proprio mentre Putin veniva accolto trionfalmente a Roma (sarà un caso?). Anche il contrasto con i Cinque Stelle sulle prossime misure economiche (salario minimo o flat tax?) diventa in questo contesto cruciale per recuperare il consenso degli imprenditori del centro-nord messo duramente alla prova dalle priorità fissate dai Cinque Stelle (e dalla stessa Lega), cioè reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni.
Ma il movimento di Di Maio sta peggio: perde pezzi, è fortemente contestato da molti militanti, è diviso su questioni importanti come quelle esplose a Torino sul salone dell’auto (emigrato a Milano), rischia di rimettere in discussione il salvataggio dell’ex-ILVA di Taranto, è costretto per salvare l’Alitalia a chiedere aiuto all’odiata Atlantia (la holding che controlla la società Autostrade nel mirino dei Cinque Stelle dopo il crollo del ponte Morandi); persino sulla TAV Torino-Lione arrivano segnali di cedimento. La Capitale, vetrina obbligata dell’intero Paese, affoga tra i rifiuti non raccolti mentre gli autobus prendono fuoco, le strade sono rimaste groviere impercorribili e tutti i progetti di rilancio, a cominciare dal discusso stadio della Roma, restano nei cassetti; dopo tre anni di amministrazione Raggi è impossibile dare la colpa ai predecessori e la sindaca ricorre all’aiuto di Stato, seguendo appunto la prassi di alcuni suoi predecessori (Alemanno).

 

Franco Chiarenza
16 luglio 2019

In tempi relativamente brevi l’Unione Europea ha deciso i nuovi vertici istituzionali dopo le elezioni del 26 maggio. L’asse franco-tedesco è riuscito a imporre ancora una volta le proprie scelte giocando la partita anche sulla scadenza del governatore della Banca Centrale: alla presidenza della Commissione è stata designata Ursula Von Der Leyen, democristiana tedesca molto legata alla cancelliera Merkel mentre il posto di Draghi alla presidenza della BCE verrà occupato da Christine Lagarde, centrista francese in totale sintonia col presidente Macron e direttore uscente del Fondo Monetario Internazionale. Sono le due cariche che contano: le altre sono di contorno. La presidenza del Consiglio Europeo, che si limita a coordinare i lavori del massimo organo decisionale dell’Unione, è andata a Charles Michel, liberale belga, alla presidenza del Parlamento, puramente rappresentativa, è stato eletto un italiano, David Sassoli, esponente socialista in opposizione all’attuale maggioranza che governa in Italia, mentre il coordinamento dell’inesistente politica estera europea, dove Renzi aveva confinato l’ineffabile Federica Mogherini, è stato affidato al socialista spagnolo Josep Borrell. Scelte che hanno suscitato qualche malumore nel parlamento di Strasburgo più per ragioni di metodo che di sostanza.
In questo modo Macron e la Merkel hanno chiuso una trattativa che ribadisce il loro ruolo direttivo e prende atto dell’esistenza di una maggioranza nel parlamento di Strasburgo composta dai tre partiti tradizionali dell’Unione: popolari (democristiani), socialisti e liberali, con la probabile aggiunta dei verdi. Le minoranze sovraniste e nazionaliste, uscite molto rafforzate dal voto di maggio, sono riuscite soltanto a bloccare l’elezione del socialista Leo Tindemans alla presidenza della Commissione avvalendosi anche del contributo di undici governi (tra cui l’Italia), ma hanno dovuto poi subire il diktat franco-tedesco che ha portato al vertice della Commissione un’esponente del partito popolare che, contrariamente a Tindemans e Warner, non si era esposta in campagna elettorale come candidata: in pratica il “corridoio” ha prevalso sulla trasparenza e questo non è un buon inizio per la nuova governance europea.

La vera posta in gioco era in realtà la presidenza della Banca Centrale di Francoforte. La successione di Draghi era cruciale: una politica monetaria restrittiva che rimettesse in discussione le scelte coraggiose del banchiere italiano, come forse volevano parti importanti dell’establishment tedesco, proprio nel momento in cui si stanno realizzando passaggi importanti verso l’unione bancaria, era considerata con preoccupazione da Macron (e forse anche da Merkel). Concedendo però alla Francia la guida della regolazione monetaria e bancaria diventava impossibile per la Germania non tornare a casa senza la presidenza della Commissione che, peraltro, non dispiaceva a Macron probabilmente preoccupato delle aperture “sociali” di Tindemans. La sorpresa, un vero coniglio tirato fuori dal cappello all’ultimo momento, è stata la scelta della candidata, Van Der Leyen invece di Weber che era stato designato dal partito. Una donna energica, attualmente ministro della difesa, considerata europeista convinta e lontana da quegli imbarazzanti cedimenti nei confronti della “democrazia illiberale” di Orban di cui invece Weber era stato accusato. Se quindi Van der Leyen supererà il voto dell’assemblea di Strasburgo (meno scontato di quanto si pensi) avremo probabilmente una presidenza forte in grado di guidare con fermezza una commissione molto frammentata in cui la distribuzione delle competenze sarà fondamentale.

La difficile partita di Conte.
La posizione dell’Italia si presentava molto difficile e il presidente Conte (probabilmente con la regia occulta del Quirinale) l’ha giocata meglio che poteva. Di fatto era evidente che il nostro Paese non poteva ambire alle posizioni più importanti, però era possibile contrattare il voto italiano nel Consiglio in cambio di una sospensione della procedura d’infrazione (una patata bollente che peraltro la vecchia Commissione già intendeva trasferire ai suoi successori) e un posto nella Commissione di sufficiente prestigio. Ottenuto il primo risultato – peraltro con impegni di riduzione del debito pubblico che appaiono poco realistici – ora si deve decidere sul commissario; scelta non facile che Conte si è affrettato a “girare” a Salvini, riconoscendolo come rappresentante di una maggioranza di fatto. Il rischio è che una candidatura troppo esposta sulle idee sovraniste rischia di non ottenere il necessario placet dell’assemblea di Strasburgo: per questo motivo probabilmente Giorgetti non vorrà correre il rischio di una bocciatura e circolano nomi più digeribili come quello dell’illustre revenant Giulio Tremonti.
Staremo a vedere. Quello che è certo è che l’Italia esce molto indebolita dai nuovi assetti europei: sostanzialmente isolata sul problema dei migranti, in bilico per una possibile procedura d’infrazione per eccesso di deficit, esclusa definitivamente dalle “intese rafforzate” tra Francia e Germania, ininfluente nella guerra civile che sta devastando la Libia. Nè va meglio fuori dall’Europa: le carezze di Di Maio a Xi Jinpeng come gli abbracci di Salvini a Putin nascondono il vuoto ma suscitano ulteriori diffidenze a Washington. Perché finché i nostri sovranisti operano per deligittimare l’Europa Trump non ha nulla da obiettare (anzi!) ma aprire le danze con la Cina e la Russia significa giocare col fuoco. Col rischio di bruciare non soltanto Di Maio e Salvini ma anche l’Italia nel suo complesso.

 

Franco Chiarenza
7 luglio 2019