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Continua la partita a rimpiattino tra Di Maio e Salvini con Berlusconi che fa lo sgambetto appena si intravede un possibile accordo. Usque tandem – direbbe Cicerone – abuteris patientia nostra? Forse non l’ha detto in latino ma è quanto in sostanza il presidente Mattarella ha ribadito ai tre compari nell’ultimo giro di consultazioni.

La risposta di Salvini è: fino a quando il previsto trionfo della Lega nelle elezioni regionali in Friuli-Venezia Giulia avrà consacrato la sua leadership incontrastata sia nei confronti di Di Maio che di Berlusconi consentendogli così di offrire ai Cinque Stelle un patto di legislatura. Bisognerà però vedere se a Di Maio questo basterà per rinunciare alla presidenza del governo e se davvero il Cavaliere si rintanerà in un cantuccio a leccarsi le ferite (ammesso che saranno tanto consistenti).
La risposta di Di Maio è: fino a quando Salvini si deciderà a riconoscere una verità incontestabile e cioè che, al di là di schieramenti elettorali che si dimostrano sempre più artificiosi (come lo è il centro-destra del trio Salvini, Berlusconi, Meloni), il vincitore delle elezioni è il movimento cinque stelle e ad esso quindi spetta la guida del nuovo governo. Se Salvini non ci sta i pentastellati sono disposti ad aspettare che il PD risolva il qualche modo i suoi problemi interni per mettere in campo una proposta di governo concordata con la nuova leadership del centro-sinistra. Di Maio che non conosce il latino ma parla bene il napoletano potrebbe esprimere il concetto con un famoso verso di una canzone: scurdammoce o’ passato, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.
La risposta di Berlusconi è: fate voi ma Salvini ricordi che senza i voti di Forza Italia egli resta inchiodato al suo 17% del tutto insufficiente per strappare la presidenza del consiglio a Di Maio, e quest’ultimo tenga conto che, pur essendo Berlusconi per i pentastellati un “male assoluto” (come non ha mancato di ribadire Di Battista, utilizzato da Grillo per intervenire pesantemente ogni qualvolta si profila una possibilità di accordo col centro-destra), Forza Italia rappresenta comunque una componente essenziale per non restare invischiato negli estremismi verbali e demagogici della Lega salviniana.

Ecco perché i tempi si allungano. Ma il presidente della Repubblica non può aspettare ulteriormente, non tanto per la guerra in Siria minacciata da Trump (che probabilmente non andrà oltre la “sparata” del 13 aprile) ma per le scadenze importanti che ci attendono in Europa: il vertice europeo previsto per la fine di giugno (nel corso del quale non soltanto si discuterà delle misure contro l’immigrazione illegale ma che probabilmente rappresenterà l’occasione per capire le reali intenzioni di Francia e Germania sul futuro dell’Unione), la chiusura del DEF (documento di programmazione economica e finanziaria) da presentare a Bruxelles, la difficile partita che si sta aprendo sui dazi sia nei confronti dell’America di Trump sia per la Brexit.
Le elezioni, come sempre accade (non soltanto in Italia) si sono giocate sulla politica interna (soprattutto nei suoi aspetti economici e sociali) ma le priorità del momento sono invece certamente di politica internazionale, dove né la Lega (al di là di una generica simpatia per la Russia di Putin) né il movimento cinque stelle sembrano avere le idee chiare. Contrariamente a quel che si dice io credo che l’aggravarsi della situazione internazionale non rappresenti affatto un fattore di accelerazione per la soluzione della crisi mediante la creazione di una coesa maggioranza parlamentare ma al contrario moltiplichi i dubbi e le perplessità che la rendono quasi impossibile. Forse invece può costituire una spinta per indurre il Capo dello Stato a proporre un “governo del presidente” da affidare a una personalità al di fuori dei giochi e che sia in grado di traghettare la legislatura verso obiettivi limitati nel tempo e nei contenuti.

Franco Chiarenza
14 aprile 2018

Il comportamento di Di Maio può apparire sconcertante per noi che siamo abituati alle vecchie classiche distinzioni della politica, ma in realtà è perfettamente coerente con la filosofia politica del movimento Cinque Stelle. Dovremo abituarci all’idea di un nuovo modo di fare politica che il vero vincitore delle elezioni sta imponendo e chiederci senza pregiudizi se ha una sua ragion d’essere e corrisponde all’evoluzione delle democrazie europee, sempre più dirette e sempre meno liberali. A me, liberale qualunque e convinto, la cosa non convince ma cerco di capire.

La tattica dei due forni?
La tattica è nota: la utilizzò qualche volta nella prima repubblica la Democrazia Cristiana. Stare al centro e allearsi con chi accetta alcuni punti programmatici indifferentemente dalle opzioni ideologiche di destra o di sinistra. Grillo e Di Maio l’hanno spregiudicatamente riproposta: il movimento si allea con chi condivide le sue priorità, gli altri invece, prigionieri di vecchie pregiudiziali ideologiche, non possono allearsi tra loro. Quindi – piaccia o non piaccia – le carte si danno all’hotel Forum, dove Grillo ha posto il suo quartier generale.
E’ però necessario chiedersi se, al di là dell’evidente vantaggio tattico, non ci sia qualcosa di più: la presa d’atto che le grandi scelte ideologiche si fanno altrove e che nella ordinaria amministrazione quel che conta è risolvere i problemi quotidiani della gente comune. A qualcuno potrà sembrare un abbassamento di livello ma forse si tratta soltanto di constatare che “il re è nudo”.
I cinque stelle si sottraggono accuratamente a ogni tentativo di classificarli sui grandi temi che dividono le opinioni pubbliche in Europa, in questo distinguendosi da chi si limita a intercettare le paure collettive (come fa Salvini, in linea con Marina Le Pen e altri leader “sovranisti” europei); si mostrano pragmatici e disposti a discutere sulle azioni di governo con chiunque, intransigenti soltanto sulla questione della moralità politica che interpretano in modo rigoroso su questo basando la loro credibilità di fronte all’elettorato. Grillo e Di Maio sono probabilmente convinti (e i risultati elettorali sembrano dargli ragione) che non perderanno un solo voto se decideranno in un modo o nell’altro sull’Europa, sul contrasto alla globalizzazione, sull’immigrazione; giustificheranno le loro scelte in modo pragmatico facendo passare il loro opportunismo per ragionevolezza, anche proponendo soluzioni non banali prese a prestito da economisti estranei alla loro storia, senza cercare coerenze impossibili ma anzi ostentando la loro nuova veste apparentemente accogliente in cui i profughi più presentabili della seconda repubblica possono trovare asilo. In ogni caso non consentiranno mai decisioni estreme ma sempre cercheranno soluzioni di compromesso “ragionevoli”, in tal modo accreditandosi come il nuovo partito moderato di centro, simile alla DC ma da essa distante per essere “partito degli onesti” in grado di dimostrare che si può governare senza rubare (che è ormai un assioma fortemente radicato nell’opinione pubblica).

Le origini di Grillo
Se potessero scegliere “dove li porta il cuore” i Cinque Stelle lo farebbero probabilmente a sinistra, aprendo a un partito democratico depurato da Renzi (nei cui confronti la polemica è stata troppo aspra per essere ancora rimossa), per almeno tre ragioni: per le lontane origini politiche di Grillo, il quale è sempre stato un simpatizzante di sinistra, perché una percentuale importante del loro consenso proviene da elettori del partito democratico e del centro, e infine perché il successo nel Mezzogiorno è la conseguenza di promesse demagogiche su cui tanti meridionali hanno appeso le loro preoccupazioni e che sono più compatibili con la tradizione assistenziale della sinistra che non con le asprezze “nordiste” di Salvini (il quale ha pur sempre il suo “nocciolo duro” nei territori veneti e lombardi) o con gli slogan ormai screditati del vecchio leader di Forza Italia.
Ma Grillo e Di Maio sanno anche che una parte importante della loro base (che è una piccola parte del loro elettorato), prigioniera della campagna d’odio alimentata con ogni mezzo contro tutti i governi precedenti, non gradirebbe alleanze con un partito che rappresenta la continuità (e giustamente la rivendica). Si può obiettare che anche la Lega ha governato (e governa tuttora in alcune Regioni) con Forza Italia, ma Salvini è stato bravo ad accreditare l’immagine di una Lega radicalmente diversa da quella fondata e guidata da Bossi.

Pragmatismo di programma
Ferma quindi restando la presidenza del Consiglio per Di Maio, i Cinque Stelle puntano sul pragmatismo di Salvini, su un programma evasivo sui temi controversi (Europa, immigrazione, scuola, lavoro, ecc.), cercando di isolare Berlusconi attraverso un uso spregiudicato delle possibilità che governo e sottogoverno consentono per catturare il sottobosco di Forza Italia. Un’operazione di “lavanderia” che i pentastellati lascerebbero volentieri alla spregiudicatezza di Salvini, il quale sa che questa è un’occasione unica per andare al governo prima che cambi il vento.
L’operazione presenta delle difficoltà e soprattutto la necessità di fare i conti con il Quirinale, ancora una volta vero garante nei confronti delle principali potenze europee che guardano con attenzione (e preoccupazione) quanto avviene a Roma, anche perché da ciò potrebbero dipendere cambiamenti anche profondi nella loro strategia di rilancio dell’Unione. Mattarella sta allentando le briglie (come fanno i bravi fantini) ma in prossimità del traguardo chiederà garanzie concrete che potrebbero essere indigeste soprattutto per la Lega; non a caso Di Maio moltiplica le dichiarazioni di “rispetto” nei confronti del Capo dello Stato e ribadisce che per lui il forno di destra e quello di sinistra sono equivalenti purché si dimostrino compatibili con le loro priorità che, non essendo né di destra né di sinistra, si fondano – come abbiamo detto – su una lotta senza quartiere contro la corruzione e sulle ragioni del buon senso verificate di volta in volta.

A questo ci hanno portato decenni di corruzione diffusa, di privilegi inaccettabili della classe politica, di uso strumentale delle opzioni ideologiche. La nostra convinzione di liberali è diversa: pensiamo che l’onestà è un presupposto non una soluzione. Per governare occorre riconoscersi in un progetto di società, in alcune scelte fondamentali sui diritti e i doveri dei cittadini, sull’opzione europea come riconoscimento di una cultura comune, sulle alleanze internazionali, e su una classe politica competente in grado di affrontare i problemi mantenendo saldi i principi liberali.
Il rischio che corriamo è – a mio avviso – di restare esclusi dalla partecipazione attiva alle grandi scelte che il mondo ha davanti a sé e che ricadranno inevitabilmente anche sulla nostra vita quotidiana. La partita vera non si gioca su più onestà e meno corruzione; si gioca tra più Europa o meno Europa. Più Europa significa avere qualche possibilità di sedersi al tavolo dove Stati Uniti, Cina, Russia, stanno modificando le regole della globalizzazione, meno Europa significa andare a scodinzolare per ottenere i favori di uno dei grandi giocatori (Salvini per esempio ha già scelto Putin in cambio di qualche mobile brianzolo in più da esportare). In tale contesto la delegittimazione dell’Europa portata avanti con impegno degno di miglior causa da talk show, giornali, social network, e soprattutto partiti politici desiderosi di accollare all’Unione responsabilità che sono soltanto nostre, sta producendo danni che potrebbero diventare irreversibili. I sondaggi dicono che ancora più del 60% degli italiani credono nell’Europa; anche in Parlamento se sommiamo i gruppi sostanzialmente europeisti (LeU, PD, FI) a quelli incerti ma non pregiudizialmente ostili (5S), non c’è una maggioranza anti-europea. Ma la tentazione di rovesciare ancora una volta sull’Europa quella che si dimostrerà un’impossibilità oggettiva di mantenere le promesse elettorali (a cominciare dall’abolizione della legge Fornero e dalle interpretazioni più radicali del “reddito di cittadinanza”) è dietro l’angolo.

 

Franco Chiarenza
8 aprile 2018

In via del Nazareno è pausa di riflessione. Quanto Renzi condiziona ancora il partito? Quanto spazio esiste per soluzioni realmente alternative, e in quale direzione? Quale dovrà essere il rapporto con il movimento Cinque Stelle? In breve: quale dovrà essere la proposta politica che sarà in grado di restituire al partito democratico la sua centralità?

Quasi tutti i commentatori che ho letto o sentito partono da un presupposto: molti voti (circa la metà) che avevano portato il partito democratico al 40% nelle ultime elezioni europee sono passati in blocco ai Cinque Stelle. Per recuperarli bisogna tornare alle origini “socialiste” abbandonando la deriva moderata imboccata disastrosamente da Renzi. Io ritengo questa analisi sbagliata.
Il successo di Renzi era dovuto proprio al fatto che i ceti moderati, orfani di un partito di riferimento che non fosse Forza Italia (ormai destrutturata e delegittimata da una leadership incapace di rinnovarsi), si erano accostati con crescente interesse al programma neo-liberale della Leopolda. Quelli che il PD ha perso non sono voti “di sinistra” ma, al contrario, voti “di centro”. Resta da capire perché una quota così rilevante di elettorato tendenzialmente centrista sia emigrata da via del Nazareno al più confortevole hotel Forum dove Grillo ha stabilito il suo quartier generale.

Che Renzi abbia compiuto degli errori è ormai quasi un luogo comune. Ma sarebbe più interessante capire quali abbiano prodotto un’emorragia così consistente.
Il job’s act? Non credo. Tutti gli imprenditori sono d’accordo che si è trattato di una buona legge, forse troppo timida ma che comunque ha conseguito alcuni risultati positivi. La mobilitazione sindacale contro alcune parti di quella legge è stata parziale (la CISL e la UIL non si sono accodate alla CGIL) e non tale da incidere sul consenso politico dei ceti medi.
Gli 80 euro? Non credo. Sarebbe stato preferibile concentrare le risorse disponibili nella riduzione del cuneo fiscale che costituisce la ragione principale dei mancati investimenti e delle delocalizzazioni, ma resta un modesto esercizio di demagogia che sarebbe stato meglio evitare ma certo non ha influito sulla decrescita del consenso. Anzi.
La riforma della scuola? Non credo. Ha aperto finalmente il vaso di Pandora di una situazione che marciva da anni e, malgrado le sue imperfezioni, ha regolarizzato migliaia di insegnanti. E’ stata ostracizzata dall’opposizione fanatica dei sindacati che per la prima volta hanno visto vacillare la loro egemonia incontrastata nel mondo della scuola; ma non credo che abbia influito più di tanto sul risultato elettorale, anche per la proverbiale indifferenza che gli italiani hanno sempre purtroppo manifestato per i problemi della scuola.
La riforma costituzionale? Certamente sì. Non per i suoi contenuti (in taluni aspetti molto discutibili, ma è materia di esperti la cui influenza elettorale è pari a zero) ma per il metodo che Renzi ha utilizzato. Il patto del Nazareno aveva una sua valenza ed era perfettamente in linea con la strategia neo-centrista del gruppo dirigente del PD se veniva portato fino in fondo, ivi compreso un accordo condiviso per la presidenza della Repubblica. L’intesa poteva essere ragionevolmente estesa ai Cinque Stelle con qualche concessione sulla legge elettorale e su alcuni temi di moralità politica che quel movimento portava avanti (e che erano apprezzati da quote crescenti dell’opinione pubblica). Così concepita la riforma non avrebbe avuto l’aspetto personalistico che Renzi invece gli ha dato e si sarebbe evitata la concentrazione del dissenso nei suoi confronti che ha rappresentato la sola ragione della sconfitta. A questi errori Renzi ha aggiunto il due di briscola: non si è dimesso da segretario del partito, ha subìto con evidente malumore e mettendo in atto qualche sgambetto (come nel caso della Banca d’Italia) l’azione di governo di Gentiloni, che invece veniva apprezzata da parti rilevanti della pubblica opinione moderata non soltanto per i suoi contenuti (in linea con il progetto politico di Renzi) ma anche per le modalità serenamente e silenziosamente “giolittiane” con cui il potere veniva esercitato, e infine ha affrontato le elezioni trasformandole ancora una volta in un voto sulla sua leadership. “Errare humanum est – dicevano gli antichi romani – perseverare diabolicum”.

Il futuro del partito democratico quindi non passa certamente – almeno per ora – da Matteo Renzi, il quale ha dimostrato di non avere la stoffa dello statista; la quale non è fatta soltanto di idee (per buone che siano) ma anche della capacità di realizzarle con determinazione ma senza strappi che non si sia sicuri di potere riassorbire, e soprattutto evitando comportamenti arroganti e presuntuosi come quelli che il giovane leader ha manifestato in diverse occasioni, anche per colpa di quel maledetto “cerchio magico” che i nostri uomini politici creano sempre intorno a sé e che serve soltanto ad alimentare diffidenza e disinformazione.
Il futuro del PD non passa nemmeno attraverso l’inseguimento del populismo demagogico dei Cinque Stelle, ma ciò non significa che non debba prendere atto di alcuni sentimenti che Grillo ha saputo abilmente sfruttare e che peraltro hanno una loro validità simbolica. Avere sottovalutato l’insofferenza popolare nei confronti dei tanti inammissibili privilegi di cui si è circondata la classe politica è stato il più grave degli errori compiuti dal PD; dalla farsa delle “macchine blu” ai vitalizi dei deputati, dalle consulenze fittizie alle assunzioni fuori concorso (ma dentro i partiti), sono anni che la pubblica amministrazione viene percepita come una grande mangiatoia che moltiplica i costi e frena l’iniziativa privata. La corruzione imperante (ormai certificata anche a livello comparato: il doppio della Francia, cinque volte più della Germania) è percepita come generalizzata, e quando emerge a livello giudiziario appare soltanto come la punta di un iceberg, mentre la stessa giustizia perde credibilità per i suoi tempi e talvolta quando mostra di essere condizionata da pregiudizi politici (o almeno ideologici). Insomma: i Cinque Stelle hanno assorbito una quota crescente del consenso dei ceti medi più per la rabbia prodotta da queste disfunzioni che per le loro ricette di politica sociale, alcune delle quali (non tutte) chiaramente demagogiche ed evidentemente irrealizzabili. Quando la gente si incazza arriva fatalmente il Savonarola di turno a dare un po’ di soddisfazione.
Dunque per prima cosa il PD deve tranquillamente dire di sì ai provvedimenti che i pentastellati propongono per moralizzare la vita pubblica. Senza complessi e senza paura di ammettere che su questo tema arrivano in ritardo.

Altre sono le tematiche su cui i democratici devono chiedere un serio confronto, mettendo in difficoltà le ambiguità di Grillo e Di Maio. Cominciando dalla politica estera e in particolare da quella europea: dove si collocano i Cinque Stelle? Dentro un progetto di maggiore integrazione (con tutti i cambiamenti necessari, anche negli equilibri tra i partner mediterranei e quelli del nord) a fianco di Macron e del nuovo governo tedesco dove i socialisti hanno assunto responsabilità crescenti? A favore del progetto isolazionista di Trump (con la guerra commerciale che ne consegue) o contro la destrutturazione di tutti gli strumenti multinazionali nati per governare la globalizzazione (WTO, alleanze regionali, ecc.) che il nuovo presidente tenta di mettere in atto?
E in politica economica: si deve puntare su nuovi investimenti mobilitando le risorse per diminuire il cuneo fiscale delle imprese oppure dare la precedenza a misure assistenziali generalizzate, come certamente è stato percepito da vasti settori dell’elettorato meridionale il cosiddetto “reddito di cittadinanza”? A fronte dei gravissimi problemi che nei prossimi anni colpiranno il nostro Paese per effetto della questione demografica e dell’applicazione di nuovi processi produttivi automatizzati nella produzione industriale vogliamo insistere sull’abolizione della legge Fornero e sull’idea di buttare a mare i profughi africani, o preferiamo affrontare il futuro in modo più coordinato e più serio?
E così via. Perché è sul modo di porre i problemi oltreché sulle soluzioni che si propongono che un partito di centro-sinistra, come Veltroni l’aveva concepito, rivendica la propria centralità. Senza arroganza, dialogando con tutti sulle cose e non sugli slogan. Altrimenti questo ruolo di interlocutore affidabile parti crescenti del Paese lo riconosceranno a Luigi Di Maio; il quale, con buona pace di De Luca, non può essere accusato di “parentopoli”, almeno finora.

 

Franco Chiarenza
5 aprile 2018

Gli scenari possibili dopo Pasqua per risolvere la crisi politica non sono molti: gira e rigira le carte sono tre e la combinazione vincente dovrà comprenderne almeno due.
Prima ipotesi: governo Salvini-Di Maio. Dal punto di vista programmatico non ci sono differenze incolmabili, ma ci sono due problemi da superare. Il primo riguarda la premiership vigorosamente reclamata da entrambi; se però davvero “Salvini è uomo di parola”, come dice Grillo, la soluzione potrebbe essere trovata con un patto di “staffetta”, due anni e mezzo a guida Lega e il resto della legislatura con Di Maio presidente del consiglio (che così potrebbe intanto farsi le ossa come vice-presidente). Il secondo è più difficile da superare e si chiama Berlusconi; non tanto e non soltanto perché dovrà avere la sua parte nel governo (il che si risolve con un paio di ministeri importanti) ma per altre più serie ragioni. La prima è rappresentata dalla difficoltà di fare digerire alla base dei Cinque Stelle un’alleanza con Forza Italia, la seconda dalla posizione (abilmente rivendicata dal vecchio leader) di garante nei confronti dell’Europa (e in particolare del partito popolare) e di componente “moderata” in grado di rassicurare quei settori di elettorato di destra che diffidano di Salvini. Puntare sul dissolvimento di FI è un discorso semplicistico che comunque richiede tempi lunghi e non risolve il problema della compatibilità tra le posizioni anti-europee della Lega e quelle di garanzia nei confronti dell’Europa (che probabilmente stanno molto a cuore anche a Mattarella). Iniziare la nuova legislatura con un governo molto disomogeneo sulla politica estera in un momento in cui si aprono in Europa e nel mondo scenari imprevedibili (guerra dei dazi, nuovi equilibri in Estremo Oriente, sanzioni contro la Russia, questione medio-orientale) rappresenta un rischio ulteriore che potrebbe allarmare i mercati.

Se “l’alleanza dei vincitori” fallisce i tentativi di dialogo tra il partito democratico e i Cinque Stelle potrebbero diventare meno velleitari di quanto non siano attualmente. Non certo nel senso di prevedere una partecipazione dei democratici al governo ma partendo dall’idea di un’astensione che consenta a certe condizioni ai Cinque Stelle di governare. Anche in questo caso ci sarebbe da risolvere il problema della politica estera ma non sarebbe impossibile trovare una soluzione (anche eventualmente prefigurando un impegno attivo di Emma Bonino, la quale si trova a capo di un soggetto politico ben distinto dal PD). Si tratterebbe di una soluzione di breve durata ma consentirebbe di superare l’impasse cercando intanto di condurre a termine gli obblighi di bilancio, di progettare una nuova legge elettorale, di essere presenti agli appuntamenti più importanti di politica internazionale.

Resta la terza possibilità: che, in mancanza di un accordo, il presidente della Repubblica proponga una soluzione “tecnica” da presentare in Parlamento con un mandato limitato nel tempo e nei contenuti. In mancanza di fiducia sarebbe tale governo a gestire le inevitabili elezioni anticipate.
Altre soluzioni non vedo. Non soltanto per la reciproca avversione dei democratici (da chiunque rappresentati) e Salvini, ma anche per la fragilità del quadro di comando del PD che ha bisogno di un periodo di sana opposizione per ricompattarsi su nuove basi dopo avere compiuto fino in fondo il rito sacrificale della resa dei conti interna, come sempre avviene dopo ogni sconfitta.

 

Franco Chiarenza
30 marzo 2018

Cerchiamo di capire perché è difficile costituire una maggioranza di governo.

Il Movimento Cinque Stelle non può rinunciare alla presidenza del consiglio per Di Maio pena la delegittimazione di fronte alla propria base, soprattutto in uno scenario che prevede la possibilità di tornare alle urne in tempi brevi. Se si crea una maggioranza alternativa avrebbe buon gioco a passare all’opposizione gridando “all’inciucio” sperando così di aumentare il consenso. Ma anche l’ipotesi che tutti facciano un passo indietro e lo facciano governare da solo (monocolore minoritario) non entusiasma i Cinque Stelle ben consapevoli del peso che dovrebbero assumersi a fronte di promesse elettorali molto impegnative e senza l’alibi di potere scaricare su qualche alleato il loro mancato adempimento . Quando le vittorie sono parziali il rischio è proprio questo: restare in un cul de sac.

La Lega sa che Salvini non è una personalità aggregante ed è molto difficile che – sia pure per motivi opposti – Cinque Stelle o democratici possano consentirgli di fare un governo, neppure di minoranza (cioè costituito soltanto dai tre partiti di centro-destra). Oltre tutto il suo principale alleato (Forza Italia) vede con preoccupazione un eventuale governo presieduto dal leader della Lega perché potrebbe accelerare la disgregazione di un partito appeso al carisma di Berlusconi. Il progetto di Salvini appare quindi chiaro: restare all’opposizione e mantenere una posizione di vantaggio in vista delle prossime elezioni.

Il Partito Democratico va incontro ovviamente a una resa dei conti interna dopo la lunga egemonia di Renzi. Se prevarrà la linea “collaborazionista” (consentire ai Cinque Stelle un monocolore minoritario) rischia la spaccatura della sua base; in ogni caso per realizzarsi essa avrebbe bisogno di un forte sostegno del Quirinale (appello alla responsabilità nell’interesse superiore del Paese, come Mattarella ha già cominciato a fare). Se invece prevarrà la linea dell’opposizione a oltranza (che potrebbe essere pagante nelle prossime elezioni) si costringerebbero Di Maio e Salvini a mettersi d’accordo oppure andare subito a nuove elezioni.
Se infine prevale una linea attendista, la mossa successiva spetterebbe al Quirinale e non sarebbe priva di incognite.

Forza Italia sta alla finestra e non può fare altro, almeno per ora. Berlusconi appoggerà il tentativo di Salvini sperando che fallisca (come è probabile). Se Salvini facesse un governo con Di Maio se ne dissocierebbe, magari con un’astensione, sperando così di recuperare i voti moderati che si sono lasciati attrarre dalla Lega (al nord) e dai Cinque Stelle (al sud). I numeri per fare un governo con i democratici non ci sono e in ogni caso ciò comporterebbe una rottura con Salvini (col quale comunque – non va dimenticato – FI amministra molte Regioni e Comuni). Nel frattempo si è aperta di nuovo la competizione tra i possibili successori di Berlusconi: Toti (pro-Lega)? Brunetta (anti-Lega)? Tajani (improbabile)? Parisi (pro-PD)? O nessuno di loro ma invece un’erede di famiglia (Marina Berlusconi)?

Gli altri (LEU, FdI, ecc) non hanno molta voce in capitolo perché rappresentano quote troppo piccole dello schieramento parlamentare. Dovrebbero avere interesse soprattutto a restare comunque all’opposizione.

Dunque, nuove elezioni? E se sì con quale governo? Se il presidente della Repubblica è costretto a prendere atto che non esistono né le condizioni per una maggioranza parlamentare precostituita né per un governo di unità nazionale limitato nel tempo e con lo scopo esclusivo di promuovere una nuova legge elettorale e adempiere all’ordinaria amministrazione, egli avrebbe davanti a sé due opzioni: 1) sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni (che dovrebbero svolgersi al massimo entro 70 giorni dal relativo decreto, andando quindi a coincidere con la piena stagione estiva); in tal caso resterebbe in carica l’attuale governo Gentiloni. 2) nominare un governo “istituzionale” di propria iniziativa, con o senza il consenso dei partiti, e inviarlo alle Camere per ottenere la fiducia; nel caso che l’ottenga mantenerlo in vita il tempo necessario per cambiare la legge elettorale, predisporre il bilancio 2018 e far fronte alle urgenze che si prefigurano nella politica internazionale (ed europea in particolare). Nel caso che non ottenga la fiducia indire nuove elezioni che però in tale evenienza si svolgerebbero presumibilmente in autunno e con il governo nominato dal Presidente (come è già accaduto in passato). Non credo sia praticabile la soluzione indicata da Eugenio Scalfari: prolungare per un anno la vita dell’attuale governo. Perché in presenza di un voto di sfiducia non avrebbe legittimità costituzionale.

Purtroppo i tempi dell’economia e della politica nella loro dimensione internazionale non sono conciliabili con quelli bizantini di casa nostra. Trump sta demolendo pezzo per pezzo la regolamentazione multinazionale del commercio che garantiva al nostro Paese (e all’Europa in generale) considerevoli vantaggi. L’Unione Europea, da parte sua, attraversa un momento forse cruciale per la sua sopravvivenza non soltanto per la difficile gestione della Brexit ma anche per il delinearsi al suo interno di tre diversi raggruppamenti difficilmente conciliabili.
Il primo, già attivo da qualche anno, è quello di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) il quale tende a trasformare l’Unione in un’area di libero scambio calmierata da misure di sostegno in favore delle aree più deboli (in gran parte coincidenti con gli stessi paesi che aderiscono al gruppo), senza vincoli legislativi in tema di diritti. Il secondo si formerà probabilmente intorno all’asse franco-tedesco e comporterà una maggiore integrazione politica, militare e finanziaria. Il terzo potrebbe scaturire da un’iniziativa olandese (accolta con interesse dalle nazioni del nord-Europa) che richiama l’Unione a una severa applicazione della linea rigorista prevista dai trattati ma esclude ulteriori allargamenti dei poteri sovranazionali.
Sarebbe importante che l’Italia (e la Spagna) non restassero ai margini di un dibattito così importante e fossero in grado di prendere una posizione chiara e irreversibile.

 

Franco Chiarenza
10 marzo 2018

Il rito elettorale del 4 marzo si è concluso e la vittima sacrificale ha un nome, Matteo Renzi; chi l’avrebbe detto cinque anni fa quando baldanzoso prendeva d’assalto il palazzo del governo.
E’ ancora presto per abbandonarsi alle alchimie sulle previsioni di quale governo per il futuro; il numero dei seggi attribuiti non è ancora definitivo e mai come in questo parlamento anche un voto può fare la differenza. Qualche considerazione però può essere fatta:

  1. Noi liberali “qualunque” usciamo sconfitti da queste elezioni. O eravamo davvero pochi oppure ci siamo ancora una volta mimetizzati dentro vestiti che non ci rendono riconoscibili.
  2. Il problema è che le concezioni liberali “aperte” come il multilateralismo, la tolleranza per le diversità etniche e religiose, i mercati regolati ma liberi, gli orizzonti di crescita di tante parti del mondo fino a ieri escluse dal benessere, la speranza che tutti potessero condividere i valori che provengono dalla nostra storia e che credevamo irrinunciabili, sono entrate in crisi in tutto il mondo. Dobbiamo chiederci perché.
  3. L’Italia non ha fatto eccezione e, almeno in apparenza, la maggioranza dell’elettorato sembra ostile all’Europa, favorevole alle chiusure nazionali, propensa a risolvere l’evidente disagio diffuso nel Paese affidandosi a un’espansione della spesa pubblica.
  4. Le questioni che hanno determinato il risultato elettorale sono essenzialmente due: l’immigrazione e la disoccupazione. L’Europa si è trovata nella scomoda posizione di essere additata come responsabile di entrambi i fenomeni; è stato facile in questo modo alle forze politiche eludere le proprie responsabilità e scaricarle su un soggetto terzo. L’apertura dei mercati è vissuta da molti come la causa della disoccupazione e si pensa ingenuamente che il protezionismo rappresenti la soluzione del problema. Lo stesso vale per l’immigrazione, per la quale alle motivazioni economiche si aggiunge la preoccupante emersione di concezioni razziste e nazionaliste.
  5. Colpisce il grande successo del movimento Cinque Stelle nel Mezzogiorno. Molti analisti sostengono che la promessa di un salario di cittadinanza a tutte le famiglie indigenti sia stata determinante assai più delle motivazioni moralistiche sui costi della politica e contro la corruzione che ne avevano caratterizzato gli inizi.
  6. Il crollo del partito democratico va oltre l’antipatia suscitata da un personaggio che, dopo una buona partenza, si è fatto notare soprattutto per l’arroganza e la disinvoltura con cui ha governato. Renzi non è caduto per mancanza di un progetto (quello della “Leopolda”, con tutti i suoi limiti, lo era) ma per non averlo portato fino in fondo. I numeri ci dicono che andare controcorrente forse non avrebbe evitato la sconfitta (anche se in Francia con Macron ha funzionato), ma comunque il P.D. ne sarebbe uscito con le carte in regola per affrontare il secondo “round”.
  7. Chiunque governerà si troverà di fronte a due problemi di non facile soluzione: rispettare le promesse fatte con i costi spropositati che comportano e gestire di conseguenza i malumori e le divisioni che si produrranno all’interno di contenitori così eterogenei. Con gravi rischi di instabilità che – non si dimentichi – sono gli unici che davvero preoccupano i mercati e possono produrre ricadute incontrollabili.
  8. Quelli che vengono chiamati “poteri forti” – per intenderci: imprese, sindacati, banche, alti gradi dell’amministrazione, forze armate, mondo accademico, ecc. – hanno mantenuto una sostanziale indifferenza durante la campagna elettorale, quasi lasciando intendere che il risultato sarebbe stato senza conseguenze sulle grandi opzioni strategiche che vengono ormai decise a livello sovranazionale. Molti dei loro esponenti pensano che la scelta era tra rendere più efficiente e produttivo il “sistema Italia” o non farlo; nel primo caso avremmo occupato a giusto titolo un posto nelle sedi decisionali (non soltanto europee), nel secondo caso saremmo rimasti emarginati ma comunque nell’impossibilità di uscire realmente dalla rete complessa di interessi incrociati che ormai sovrasta tutte le nazioni occidentali. E se sbagliassero? Anche a Londra pensavano così e poi è arrivata la Brexit.

Franco Chiarenza
5 marzo 2018

Premesso che chi è liberale o per lo meno si considera tale non dovrebbe mettere in discussione lo stato di diritto e l’economia di mercato che rappresentano i capisaldi fondamentali di ogni democrazia liberale e dovrebbe inoltre essere consapevole che populismo, demagogia, culto del leader, rifiuto dell’equilibrio tra i poteri dello Stato sono estranei alla cultura liberale.
Considerando altresì che una visione moderna del liberalismo non nega l’esistenza e l’urgenza di una questione sociale che ha assunto con la globalizzazione dei mercati aspetti preoccupanti ma rifiuta soluzioni assistenziali di breve respiro che aggravano il problema anziché risolverlo cercando di conseguenza di affrontarla attraverso interventi strutturali.
Propongo agli elettori liberali alcuni profili che dovrebbero distinguere le liste e i candidati da scegliere:

  1. devono considerare l’Europa non un problema ma un’opportunità che fino ad oggi ha consentito grandi vantaggi per la crescita e la stabilità del Vecchio Continente. E che quindi la sua unità vada ulteriormente rafforzata per trasformare anche l’Europa in un soggetto politico in grado di governare i processi di globalizzazione insieme alle altre grandi potenze protagoniste come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia.
  2. siano convinti che per risolvere il problema della disoccupazione (e specialmente di quella giovanile che ha raggiunto percentuali inaccettabili) occorrono misure che incoraggino gli investitori italiani e stranieri a creare nuove imprese; non quindi incentivi a pioggia e di carattere transitorio ma invece diminuzione degli oneri fiscali e previdenziali e provvedimenti che semplifichino gli iter burocratici, rendano più veloce la giustizia civile, ridimensionino la giustizia amministrativa (i famigerati TAR), privilegino percorsi scolastici più aderenti alla domanda del mercato, migliorino le infrastrutture essenziali come ferrovie, strade e porti. Sapendo che se si vogliono evitare le speculazioni dei falsi imprenditori che incassano gli incentivi e spariscono appena questi vengono meno occorre garantire agli imprenditori seri che impegnano capitali propri la certezza del diritto e condizioni fiscali e strutturali che non cambino continuamente mettendo a rischio gli investimenti compiuti.
  3. siano esigenti nel pretendere l’osservanza della norma costituzionale che prevede per le assunzioni nel settore pubblico il superamento di un regolare concorso, limitando le eccezioni a poche limitate figure professionali rigorosamente previste dalla legge.
  4. siano convinti che la riduzione del debito pubblico rappresenta una priorità inderogabile per garantire la stabilità finanziaria e la credibilità internazionale del Paese. E che quindi tutte le risorse provenienti dalle inevitabili privatizzazioni dei servizi meno efficienti e dalle cessioni di patrimonio pubblico debbano essere destinate a tale obiettivo.
  5. reputino che l’intervento dello Stato debba essere concentrato su pochi essenziali obiettivi strategici, eliminando attraverso una seria revisione della spesa le dispersioni del danaro pubblico per finalità clientelari: oltre quindi alle infrastrutture dei trasporti anche e soprattutto la razionalizzazione della spesa sanitaria e la promozione di reti di comunicazione ad alta capacità in grado di ridurre il gap che ancora separa il nostro Paese da altri paragonabili per importanza.
    Per quanto riguarda i necessari interventi assistenziali la sensibilità sociale dei liberali non soltanto li ritiene doverosi ma li vorrebbe più efficienti e soprattutto più trasparenti e controllabili; da qui l’esigenza di tracciare confini netti tra spesa previdenziale e assistenza sociale, stabilendo i rispettivi limiti e competenze. In tale contesto rientra anche l’opportunità di rivedere l’intero sistema delle indennità di disoccupazione in modo da renderlo più giusto, relativamente omogeneo e integrato con le offerte di lavoro che si presentano sul mercato.
  6. siano consapevoli che la riduzione dei costi della politica, pur non essendo certamente sufficiente a raccogliere le risorse necessarie per far fronte agli squilibri sociali, rappresenta una priorità in quanto costituisce uno dei principali motivi di delegittimazione della democrazia parlamentare. La corruzione diffusa ad ogni livello della pubblica amministrazione insieme alla difesa di privilegi anacronistici, al di là della loro effettiva consistenza, sono percepite dalla pubblica opinione come una questione morale che incide fortemente sul prestigio e la credibilità della classe dirigente divenendo la ragione principale del diffuso consenso che incontrano movimenti di protesta che su tale innegabile realtà riescono ad aggregare le molte ragioni di disagio che disorientano l’elettorato.
  7. siano disponibili a esaminare con criteri oggettivi e senza prevenzioni ideologiche una riforma fiscale fondata sulla flat tax. Se un’aliquota unica adottata nei tempi e nelle modalità proposte da Nicola Rossi (noto per essere sempre stato un economista di sinistra) consentisse di rendere più attrattivo il nostro Paese per gli investimenti aumentando in tempi ragionevoli il gettito fiscale e asciugando in gran parte l’evasione prodotta dal lavoro nero non ci sono ragioni per non prenderla in considerazione. E’ noto infatti che – insieme ai costi energetici – la pressione fiscale rappresenta uno dei principali disincentivi agli investimenti.
  8. siano consapevoli che l’immigrazione irregolare risponde a logiche geo-politiche che partono da lontano e produce conseguenze non sempre controllabili ma che vanno anche considerate in prospettiva. Essa pertanto deve essere regolata senza adottare misure di contrasto violente e inumane le quali – a prescindere da ogni considerazione morale – sono inutili e servono soltanto a ingigantire percezioni di pericolo che i dati oggettivi smentiscono. Un’immigrazione regolamentata costituisce invece un’opportunità anche tenendo conto che nel prossimo ventennio la popolazione autoctona italiana subirà una forte contrazione per effetto della scarsa natalità. Sin d’ora si potrebbe, per favorire l’integrazione, riconoscere agli immigrati cresciuti in Italia che lo richiedano il diritto di ottenere la cittadinanza italiana al compimento della maggiore età, mentre si dovrebbe consentire il diritto di voto nelle elezioni amministrative a tutti i residenti contribuenti anche se privi della cittadinanza.
  9. esprimano chiaramente contrarietà a rimettere in discussione riforme utili come quella pensionistica (legge Fornero), il job act e la riforma scolastica, le quali non soltanto si sono rese necessarie per contenere la crescita esponenziale del debito pubblico, per far fronte all’aumento della longevità e per adeguare le tutele dei lavoratori a modelli produttivi più flessibili, ma soprattutto si muovono nella direzione della modernizzazione della società civile rendendola compatibile con la competizione internazionale. Il che naturalmente non significa che talune modifiche non possano essere apportate per ridurne alcune ricadute che hanno dimostrato la loro criticità, purché esse non ne compromettano l’impianto complessivo.
  10. considerino utile la introduzione di un servizio sociale obbligatorio per i giovani di entrambi i sessi (anche di durata limitata) dopo il compimento della maggiore età, con la finalità – tra l’altro – di rafforzare i sentimenti di solidarietà e di partecipazione che costituiscono il fondamento dell’identità nazionale.
  11. siano favorevoli a modificare – almeno per una delle Camere – la legge elettorale in senso uninominale (secco o con ballottaggio) inserendola nella Costituzione per far cessare lo scandalo, unico in Europa, di regole elettorali continuamente variate in relazione ad interessi contingenti di partito (veri o presunti). Soltanto i sistemi uninominali infatti sono in grado di rispondere in qualche misura al crescente distacco tra elettori ed eletti, di semplificare le scelte elettorali e di assicurare la governabilità.
  12. siano disponibili infine a prendere in considerazione alcune modifiche costituzionali che si rendono necessarie cercando su di esse il più ampio e trasversale consenso possibile. E precisamente:

– soppressione del CNEL, da tutti ritenuto inutile, almeno nella sua attuale struttura.
– riforma del Senato in grado di attenuare il bicameralismo “perfetto” oggi esistente, senza ricorrere a misure drastiche e di difficile applicazione come quelle proposte nella riforma Renzi.
– riscrittura del titolo V (Regioni) riducendo al minimo le competenze concorrenti tra Stato e Regioni e eliminando i duplicati di spesa (e di burocrazia) che appesantiscono i costi delle Regioni. Con l’occasione si dovrebbe introdurre per tutte le Regioni (eventualmente ridisegnate e ridotte di numero) il principio di autonomia fiscale almeno per una quota rilevante delle risorse prodotte sul territorio, facendo così venir meno gli inaccettabili privilegi fiscali delle Regioni a statuto speciale che – con la sola eccezione della Provincia autonoma di Bolzano (e forse della Valle d’Aosta) – possono essere tranquillamente eliminate.
– riforma delle Province che possono essere mantenute come consorzi di Comuni all’interno delle Regioni.
– introduzione della distinzione organica tra magistratura inquirente e giudicante in ossequio al principio del “giusto processo” e della terzietà dei giudici che è alla base del processo accusatorio.

Troppa grazia sant’Antonio? Forse. Ma basterebbe, come per i dieci comandamenti cristiani, almeno avvicinarsi un po’. La perfezione non è di questo mondo, figurarsi se lo è per i liberali. Proposte discutibili anche in un’ottica liberale? Forse, ma almeno proviamo a discuterne.

 

Franco Chiarenza
7 febbraio 2018

Quella gloriosa L che al centro della sigla PLI campeggiava nel tricolore del glorioso partito fondato da Croce ed Einaudi dopo la seconda guerra mondiale significava appunto “liberale”.
Durante la prima repubblica il partito ha subito cambiamenti, trasformazioni, scissioni, ricomposizioni. Sempre però tenendo ferma la distinzione tra cultura liberale e nazionalismi conservatori (talvolta reazionari) che del simbolo liberale tentavano di impadronirsi; lo stesso Malagodi, che certo progressista non era, rifiutò sempre le ambigue offerte per la creazione di una “grande destra” con i missini e gli ex-monarchici, ribadendo più volte che un partito liberale – secondo l’insegnamento crociano – non poteva che collocarsi al centro dello schieramento politico. Nella seconda repubblica I liberali, si sono divisi nella scelta di campo scommettendo su due illusioni: quella di chi credeva nel “partito liberale di massa” promesso da Berlusconi, e l’altra, opposta ma non meno infondata, di chi pensava che sotto le fronde dell’Ulivo ci fosse spazio sufficiente per una cultura politica liberale. I nomi li ricordiamo tutti (almeno quelli della mia generazione e di quelle immediatamente successive): Martino, Biondi, Urbani, Pera nel primo caso; Zanone, Marzo, Morelli nel secondo. Un caso a sé ha rappresentato la decisione di Stefano De Luca il quale, raccogliendo il simbolo massacrato del partito, ha tentato di tenerlo in vita con equilibrismi non sempre compatibili con la sua tradizione.

Salvini liberale?
Leggo ora sui social network che il PLI presenterebbe suoi candidati nella Lega di Salvini. Spero di essere smentito ma non mi faccio illusioni. Dopo avere pericolosamente attraversato alleanze con Berlusconi e con la Meloni non mi stupisce questo nuovo approdo del PLI. Ognuno fa le sue scelte e chi è liberale rispetta sempre quelle degli altri anche quando non le condivide. Ma non posso evitare di esprimere la mia profonda amarezza nel vedere un simbolo che ha contrassegnato il mio impegno giovanile finire confuso con un partito come la Lega che di liberale non ha nulla, non solo per la sua storia ma anche per le caratteristiche programmatiche che Salvini gli ha imposto: contro l’Europa sovranazionale, contro l’apertura dei mercati, contro gli immigrati (con evidenti connotazioni razzistiche), contro la riduzione del debito pubblico.
Senza scomodare Zanone che si è fatto cremare, temo che Einaudi, Croce, Malagodi, Martino (Gaetano), e tanti altri si rivolterebbero nella tomba, non per altro, soltanto per non guardare.

 

Franco Chiarenza
1 febbraio 2018

Il panorama elettorale, per esso intendendo quali sono le reali possibilità di scelta degli elettori, si presente ormai definito. Partendo da sinistra: “Liberi e Uguali” che, sotto l’ombrello rassicurante di Grasso e Boldrini, raccoglie l’estrema sinistra e gli anti-renziani che hanno abbandonato il PD; il partito democratico al quale sono associate componenti significative come i radicali di Emma Bonino e i post-democristiani di Casini; il movimento cinque stelle, sempre più centrato sulla leadership di Di Maio; “Forza Italia” che, sotto le ali del sempre vegeto Berlusconi, raccoglie di fatto anche i contributi della cosiddetta “quarta gamba” della destra (e quindi personaggi come Parisi, Fitto, Tosi e altri profughi di varia provenienza); la Lega ex-lombarda, ex-nord, ora semplicemente Lega come Salvini l’ha voluta; “Fratelli d’Italia” guidata energicamente da Giorgia Meloni alla testa di nostalgici vecchi e nuovi dell’estremismo di destra, ieri nazionalista oggi “sovranista” (che è poi la stessa cosa).

Quali differenze?
A sinistra renziani e anti-renziani sono divisi da contrasti personali che appaiono più forti di quelli – che pure esistono – programmatici. Questi ultimi comunque in sostanza si riducono alla difesa delle leggi più importanti varate dal governo Renzi (in particolare job act e buona scuola) che l’estrema sinistra vorrebbe abolire o comunque rivedere profondamente; per il resto si respira un po’ più di demagogia spendereccia sotto le ali di Grasso piuttosto che in quelle del PD, ma nulla di irrimediabile. Sulle grandi questioni (Europa, riduzione del disavanzo, incentivi fiscali per promuovere gli investimenti) non ci sono differenze incolmabili.
Al centro si sono prepotentemente insediati i grillini. Il loro programma però, per le poche cose effettivamente realizzabili, appare più compatibile con quelli delle sinistre che non con la destra (almeno nella versione berlusconiana); Di Maio può strumentalmente schiacciare l’occhio a Salvini ma non potrebbe mai farlo con Berlusconi senza rischiare la scomunica di Grillo e il linciaggio mediatico dei pentastellati. Saranno certamente l’ago della bilancia e tuttavia è improbabile che il presidente della Repubblica affidi un incarico – anche soltanto esplorativo – a un candidato premier che non si proponga di raggiungere un accordo di maggioranza; con il partito democratico quindi Di Maio dovrà trattare e non sarà una passeggiata (anche per la scarsa propensione di Renzi a governare con Grillo).
A destra Berlusconi è riuscito a mettere insieme un programma comune con Salvini e Meloni, ma, contrariamente a quanto accade a sinistra, le differenze sono profonde soprattutto sulle grandi tematiche del futuro: a cominciare dall’Europa, per continuare con la riduzione del disavanzo, con la politica dell’immigrazione e via continuando con la “cancellazione” della riforma Fornero ed altre amenità che costituiscono il nocciolo duro del programma dell’estrema destra. E’ difficile immaginare che una coalizione così eterogenea possa durare dopo le elezioni (e molti indizi fanno ritenere che non lo pensino nemmeno loro; ma gli indizi non sono prove e il potere rappresenta un collante da non sottovalutare).

Noi liberali: che fare?
Di fronte a tale panorama è difficile per chi è liberale orientarsi. Il liberalismo – quello vero – è per noi merce d’importazione: in questo momento soprattutto dalla Francia. Ma poiché per Macron non si può votare l’unica soluzione è quella di individuare all’interno dei contendenti coloro che per formazione, per convinzione, per esperienze fatte, danno le maggiori garanzie di volersi spendere per “liberalizzare” la nostra società; ce n’è probabilmente in tutti gli schieramenti.
Non certo Grasso, esponente massimo del giustizialismo politicamente orientato che dello stato di diritto è l’antitesi; e nemmeno molti dei suoi compagni di squadra. Ma Bersani, per esempio, pur provenendo dal marxismo militante, è stato il ministro che più di ogni altro ha ridimensionato la presenza pubblica nei servizi attraverso l’ultima deregolamentazione che si ricordi; depurato dall’astio anti-renziano e dalla subordinazione culturale a D’Alema può persino essere considerato un liberale inconsapevole.
In materia di diritti e in politica estera Renzi è un personaggio ambiguo; ma il sostegno di Emma Bonino e di Paolo Gentiloni garantiscono che non vi saranno derive illiberali. Anche la presenza di Franceschini, il quale, pur provenendo dalla sinistra cattolica, ha introdotto nella gestione dei beni culturali criteri di efficienza e di meritocrazia che non possono dispiacere ai liberali, dimostra che nel partito democratico è possibile incuneare principi compatibili con una moderna cultura liberale.
Nella palude di arrivisti, demagoghi, populisti, affaristi che si sono scoperti grillini e che Di Maio sta cercando ansiosamente di prosciugare a suo vantaggio per trasformare il movimento in un partito tradizionale, vi sono certamente alcuni liberali in buona fede. Certe battaglie contro la corruzione e i privilegi di casta della classe politica, insieme alla domanda di semplificazione legislativa, rappresentano storiche richieste della cultura politica liberale e incontrano un comprensibile consenso. Sul resto è confusione, ma nella nebbia che ne consegue qualche fendente “liberale” potrebbe andare a segno.
“Forza Italia” nacque venticinque anni fa dall’illusione di creare anche in Italia un “partito liberale di massa”. Il Berlusconi che oggi si propone come salvatore d’Italia è lo stesso che ha contribuito invece alla sua decadenza per non averne mai seriamente affrontato i nodi strutturali che facevano del nostro Paese l’ultima repubblica sovietica: il suo modello non è mai stato il bilanciamento dei poteri di Montesquieu ma piuttosto il potere autoritario e populista di Putin. E’ paradossale ammettere che i destini post-elettorali saranno probabilmente nelle sue mani; ma bisogna prendere atto che con lui, ancora una volta, si sono schierati alcuni autentici liberali che pensano di arginare la deriva populista di destra affidandosi alla saggezza senile del signore di Arcore.
Per quanto riguarda la Lega è difficile trovare in un partito “anti” (tenuto insieme soltanto dall’odio per gli immigrati, da un demagogico anti-europeismo e da una rozza avversione alla riforma Fornero assurdamente imputata di tutte le difficoltà dei pensionati) qualche spirito liberale. Ma tutto è possibile. L’imprevisto smarcamento di Maroni dimostra che anche nella Lega qualcosa si muove e non tutto si identifica con la demagogia di Salvini.
Persino la Meloni non ha trovato difficoltà ad allearsi in alcune elezioni locali (tra cui le amministrative a Roma) con il piccolo partito liberale di De Luca, sostenendo che i veri liberali sono loro – i Fratelli d’Italia – confondendo il nazionalismo conservatore con il liberalismo e cercando nell’avversione all’esistente una ragione di improbabili confluenze politiche e culturali.
Come sempre tutto sta nell’intendersi sul significato delle parole.

Astensione?
L’astensione sarà prevedibilmente massiccia. Ma non è una soluzione liberale.
Chi crede che una democrazia liberale rappresenti ancora l’unico modello di governabilità in grado di garantire insieme il rispetto della volontà popolare (anche quando non piace) e il mantenimento dello stato di diritto che i nostri progenitori ci hanno trasmesso, non può rifugiarsi nell’astensione.
Resto sempre dell’idea che votare è un diritto e non un dovere; ma anche se non può essere trasformato in un dovere giuridico resta sempre un dovere morale al quale i liberali non dovrebbero sottrarsi. Anche quando la tentazione è forte. Bisogna fare come diceva Montanelli: il 4 marzo turarsi il naso e andare a votare.

 

Franco Chiarenza
29 gennaio 2018

La legislatura si è conclusa. Qual è il bilancio che ne trae il liberale qualunque? Ombre e luci, naturalmente, da cui trarre come sempre qualche insegnamento.

Nel nome di Renzi
Anche se la vittoria delle precedenti elezioni è stata solo parziale non vi è dubbio che la legislatura si è svolta all’insegna del partito democratico e del programma riformista disegnato da Renzi e dal suo gruppo nel convegno fiorentino della Leopolda. Quanto di quel programma, che aveva convinto parti importanti dell’opinione pubblica e che il “liberale qualunque” (depurandolo di qualche smagliatura demagogica e velleitaria) aveva sostanzialmente condiviso, è stato realmente realizzato?
Alcune cose sono state fatte: mi riferisco sostanzialmente alla riforma della legislazione del lavoro (il cosiddetto jobs act) e alla riforma della scuola; entrambe parziali e insufficienti ma abbastanza orientate in senso liberale. La prima per la diminuzione dei vincoli e una maggiore flessibilità, condizioni necessarie per rendere più attrattivi gli investimenti nel nostro Paese e quindi contrastare la disoccupazione; la seconda per avere dato un taglio significativo al precariato dei docenti, avere regolarizzato i concorsi, avere spinto l’ordinamento a ritrovare quei principi di responsabilità e di meritocrazia che sono fondamentali per una concezione liberale della scuola.
Difetti, insufficienze? Molti, ma considerevoli anche le resistenze corporative che, come sempre, hanno trovato nei sindacati (e nella minoranza del PD) un sostegno a oltranza.
A favore dell’azione di governo possiamo mettere un altro paio di cose: la gestione dei beni culturali da parte del ministro Franceschini, il quale è riuscito a scuotere le inerzie di una macchina burocratica farraginosa attuando una riforma che – al netto di polemiche qualche volta pretestuose, talvolta anche fondate per taluni aspetti – ha comunque dato risultati positivi, a cominciare dal rilancio di Pompei e di Caserta. Pure Carlo Calenda ha dato buona prova al ministero dello Sviluppo economico, anche a costo talvolta di prendere le distanze da Renzi. Ad essi va aggiunto Marco Minniti, al quale Gentiloni ha affidato il difficile compito di affrontare e contenere il flusso degli immigrati; una gatta da pelare che l’ex-comunista ha cercato di risolvere con decisione, sollevando naturalmente critiche come avviene sempre per chi fa qualcosa. Sta di fatto che l’ondata degli sbarchi è diminuita, l’intervento (anche militare) italiano in Africa è stato accettato a livello internazionale, e se il processo di stabilizzazione della Libia andrà avanti lo si dovrà anche alla presenza italiana.
Merita inoltre molta comprensione il ministro Padoan per la pazienza di cui ha saputo dar prova dovendo contenere le intemperanze di Renzi e contemporaneamente far quadrare il cerchio di un bilancio su cui grava sempre più pesantemente un debito pubblico che non si riesce a diminuire.

Cosa invece non ha funzionato?
Parrà strano ma ciò che non ha funzionato è stato proprio il leader protagonista di questa stagione – Matteo Renzi – il quale ha dato prova non soltanto di arroganza e di presunzione (difetti che si possono anche perdonare a fronte di risultati positivi) ma soprattutto di incapacità politica. Erratica e sbagliata si è dimostrata la sua strategia di comunicazione, dilettantesca è stata la gestione del patto di non belligeranza con Berlusconi, spavaldamente sottovalutate le opposizioni interne. La riforma costituzionale – che di tutto il disegno renziano doveva rappresentare il punto centrale – è stata portata avanti malissimo: non si è cercato un accordo (anche formale) con l’opposizione (almeno con Berlusconi), e, in mancanza di esso, invece di procedere a piccoli passi (che avrebbero messo in difficoltà gli avversari costringendoli a misurarsi sui contenuti senza consentire la loro aggregazione su pregiudiziali politiche), cominciando dai punti su cui un accordo era possibile (riforma del Senato, soppressione del CNL, revisione dell’ordinamento regionale) si è cercato lo scontro frontale. Questa idea, un po’ “mussoliniana”, di sfidare tutti con la presunzione che bastasse metterci la faccia per travolgere ogni dissenso ha trasformato il referendum sulla riforma costituzionale in un voto su Renzi, il che ha consentito ad ogni forma di opposizione, anche le più diverse tra loro, di sommarsi ai rancori suscitati da una gestione personalistica del governo e di affondare insieme alla riforma lo stesso Renzi.

Nel nome di Gentiloni
Inutile negarlo: Paolo Gentiloni, succeduto a Renzi in punta di piedi con l’umiltà di chi si riconosce nel suo leader e si limita a raccoglierne l’eredità con una discreta e breve ordinaria amministrazione in attesa del ritorno del Capo, ha sorpreso tutti. Ha governato con uno stile opposto a quello del suo predecessore ma non per questo meno efficiente; il suo ministero doveva durare poche settimana ed è arrivato alla scadenza della legislatura, ha assicurato una presenza internazionale dell’Italia dignitosa e meno volubile di quando Renzi pretendeva di guidarla da palazzo Chigi, ha portato a compimento una difficile legge di bilancio stretto tra la pressione pre-elettorale dei partiti e le preoccupazioni della Commissione di Bruxelles. I sondaggi hanno visto progressivamente aumentare il suo gradimento nella pubblica opinione, a dimostrazione che non è poi tanto vero che oggi la politica si debba fare a colpi di twitter e cercando sempre di alzare i toni fino a raggiungere la provocazione.
Gentiloni ha saputo abilmente schivare anche le trappole che Renzi gli ha messo tra i piedi quando ne ha visto crescere la popolarità, a cominciare dall’infelice vicenda della Banca d’Italia; ha dovuto promuovere una brutta legge elettorale con un voto di fiducia del tutto anomalo, ma questo era un prezzo da pagare alle preoccupazioni del partito democratico.

Nel nome di Letta
L’ho messo per ultimo anche se il governo di Enrico Letta, promosso dal presidente Napolitano dopo l’impasse delle elezioni del 2013, è stato il primo della legislatura. Aveva le carte in regola per svolgere una funzione di transizione verso un nuovo assetto istituzionale; una triangolazione tra palazzo Chigi, Quirinale e Nazareno (con Renzi alla segreteria del partito) avrebbe rappresentato una cornice politica e istituzionale in cui incardinare la riforma costituzionale già disegnata per sommi capi dal gruppo di lavoro che il presidente della Repubblica aveva costituito con esperti di diverso orientamento politico. Le modalità della brusca destituzione di Letta nel 2014 sono state rivelatrici dell’arroganza di Renzi e della sua scarsa attitudine a rispettare le regole del pur necessario “galateo” istituzionale; nella sua voglia infantile di rottamare il passato il sindaco di Firenze ha rischiato di rottamare il Paese, e comunque ha finito per rottamare se stesso.

 

Franco Chiarenza
7 gennaio 2018